Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

La guerra promessa. Oggi le proteste della famiglie arabe minacciate di espulsione dal quartiere di Sheik Jarrah vengono viste come il casus belli di questa ultima guerra. In realtà prima del 1948, della sconfitta araba e della Nakba ricordata ieri, il 77% delle proprietà nel lato Ovest di Gerusalemme appartenevano ai palestinesi, sia cristiani che musulmani

La rivolta arabo-palestinese è quella di tutti noi, per la giustizia e la vera pace, contro ogni doppio standard che da decenni avvelena Gerusalemme, la Palestina e tutto il Medio Oriente. Israele vive, da noi pienamente tollerato, nella condizione di uno Stato fuorilegge, i palestinesi, a causa anche della sua dirigenza e di Hamas, sono perpetuamente nella lista nera dei popoli criminali, non degli stati criminali semplicemente perché i palestinesi hanno diritto a uno Stato solo nella retorica occidentale che si lava le mani della questione.

La posizione mediana assunta dai politici e dalla maggior parte dei media occidentali in realtà è la più ipocrita di tutte le sanzioni architettate in Medio Oriente. Quella che pagheremo forse in un prossimo futuro: le guerre altrui entreranno in casa nostra, come è già accaduto un decennio fa quando le primavere arabe si trasformarono, come in Siria, in guerre per procura e nel jihadismo. Finora Israele, nelle mente degli europei, ha fatto da antemurale alle rivolte e alla diffusione del estremismo islamico: in realtà ha alimentato l’incendio – Hamas sin dalla sua fondazione negli anni Ottanta serviva a mettere sotto scacco Al Fatah e i laici – e incoraggiato ogni degenerazione perché lo stato di guerra perpetuo giustifica la sua impunità e il non rispetto assoluto dei diritti degli arabi, delle leggi internazionali e delle Risoluzioni delle Nazioni unite.

Ma la maschera israeliana, come pure la nostra, sta per cadere. È scattata la sirena d’allarme, non soltanto quella per i razzi di Hamas, ma dei linciaggi e delle rivolte nelle città israeliane abitate «anche» dagli arabi. Il venti per cento della popolazione di un Paese che si dichiara lo Stato degli ebrei ignorando tutti gli altri.
Come scriveva questa settimana su il manifesto Tommaso Di Francesco non basta dire che entrambi i popoli hanno diritto a vivere in pace, di questa frasette inutili ne abbiamo piene le tasche e molto più di noi i palestinesi. E persino una parte consistente dell’opinione pubblica arabo-musulmana, anche di quei Paesi entrati nel Patto di Abramo, nella sostanza un’intesa che non è un accordo di pace, come è stato venduto dalla propaganda, ma di fatto un via libera a Israele per fare quello che vuole.

Come fai a vivere in pace quando confiscano le tue terre, la tua casa viene demolita, i coloni moltiplicano gli insediamenti e ogni giorno viene eretto, oltre al Muro, un reticolato di divieti di cemento difesi con il mitra spianato? La terra viene divorata, i monumenti della tua cultura sono vietati e si cambia la faccia del mondo che conoscevi: tutto questo avviene sotto occupazione militare, cioè contro il diritto internazionale. E noi qui vorremmo che gli arabi rispettassero leggi di cui noi stessi ci facciamo beffe?

Gerusalemme è diventato il simbolo di tutte queste ingiustizie, di tutte le violazioni del diritto internazionale. Questa storica e magica città non è per niente la capitale delle tre religioni monoteiste come viene ripetuto fino alla noia: è la capitale soltanto dello Stato di Israele, come ha sancito Trump nel 2018 trasferendo l’ambasciata americana da Tel Aviv. In questa città Israele decide quello che vuole non solo per gli ebrei ma anche per musulmani e cristiani. Anche questa è una violazione del diritto internazionale, delle Risoluzioni Onu e degli Accordi di Oslo: non solo non abbiamo fatto niente per evitarlo ma lo abbiamo accettato senza reagire. Tollerando che avvenga pure senza testimoni con il bombardamento del centro stampa internazionale di Gaza e l’uccisione di una collega palestinese Reema Saad, incinta al quarto mese, polverizzata da una bomba insieme alla sua famiglia.

Oggi le proteste della famiglie arabe minacciate di espulsione dal quartiere di Sheik Jarrah vengono viste come il casus belli di questa ultima guerra. In realtà prima del 1948, della sconfitta araba e della Nakba ricordata ieri, il 77% delle proprietà nel lato Ovest di Gerusalemme appartenevano ai palestinesi, sia cristiani che musulmani. Ma i loro beni, una volta cacciati via e i proprietari classificati come «assenti» sono stati espropriati e venduti allo Stato o al Fondo nazionale ebraico. Così si costruisce con l’ordine «liberale» del «diritto di proprietà» ogni ingiustizia. Non solo: gli ebrei possono reclamare le case che possedevano a Gerusalemme prima del 1948 ma questo diritto non è previsto per i palestinesi. Una beffa. Queste le chiamate leggi, questa la possiamo chiamare giustizia? Si tratta soltanto di un sopruso accompagnato quotidianamente dall’uso della forza militare.

«Le vite palestinesi contano», ammonisce il leader democratico Bernie Sanders. Ma il presidente americano Biden che ieri ha mandato un inviato per verificare le possibilità di una tregua deve uscire dall’ambiguità: se concede a Israele di violare tutte le leggi e i principi più elementari di giustizia diventa complice di Trump e delle sue scellerate decisioni. In ballo non c’è soltanto un cessate il fuoco ma un’esecuzione mortale: quella che viene perpetrata ogni giorno al popolo palestinese messo al muro dalla nostra insipienza. E con le spalle al muro ci siamo pure noi che difendiamo con la stessa maschera dei governi israeliani la nostra insostenibile ipocrisia e disonestà intellettuale.

 

Commenta (0 Commenti)

Palestina. Ora occorrerebbe una vera mobilitazione democratica, consapevole del precipizio rappresentato da un’altra guerra in Medio Oriente e nel già mortale Mediterraneo, perché la crisi di Gerusalemme è il cuore della crisi internazionale

 

Siamo sull’orlo di un baratro. Scene da buio della specie, con linciaggi da una parte e dall’altra, assalto a sinagoghe e moschee, vanno condannate e fermate.

Non è questo odio tra i popoli che serve anche e soprattutto alla parte infinitamente più debole, quella palestinese, come dimostra la sproporzione delle vittime. Questo odio ci ripugna e probabilmente chiama in causa le tre religioni monoteiste che sul Medio Oriente qualche responsabilità nel conflitto ce l’hanno.

Ora occorrerebbe invece una vera mobilitazione democratica, consapevole del precipizio rappresentato da un’altra guerra in Medio Oriente e nel già mortale Mediterraneo, perché la crisi di Gerusalemme è il cuore della crisi internazionale. Che triste impressione invece la presenza di Letta insieme a Salvini dal palco del Portico d’Ottavia della Comunità ebraica, tutti uniti a nascondere le responsabilità d’Israele e i diritti cancellati dei palestinesi insieme all’estrema destra italiana sodale di Orbán e Netanyahu – provi il neosegretario del Pd, se non ha vergogna, a proporre nel questionario che ha avviato nel suo partito la domanda su cosa pensa la base della crisi israelo-palestinese.

E insieme servirebbe una vera iniziativa diplomatica internazionale per fermare la crisi arrivata sull’orlo del baratro. Purtroppo in verità, guardando quel che accade e ai veti nel Consiglio di sicurezza Onu, non c’è né l’una né l’altra. Come dimostra in queste ore il ruolo di Biden.

«Israele ha diritto a difendersi, ma attenzione alle vite dei civili, torni la calma», queste in sintesi le dichiarazioni della Casa bianca e di Biden stesso che, «preoccupato» invia, per mercoledì – a cose fatte, visto che Tel Aviv prepara l’intervento di terra – un sottosegretario esperto di Medio Oriente, e ci sarebbe pure una telefonata ad Abu Mazen perché «si fermino i lanci di razzi da Gaza».

C’è da rimanere esterefatti da tanta ignoranza e protervia. Ma come fa Biden a trovarsi impreparato, come se non ne sapesse nulla quando in campagna elettorale e poi nei primi 100 giorni di potere, ha confermato la scelta incendiaria di Trump di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, considerandola così anche lui – contro il diritto internazionale che dice che quella è una città condivisa da due popoli, anche da quello palestinese, e da tre religioni – di fatto capitale esclusiva di uno Stato come Israele che con le sue leggi sulla nazionalità si definisce ebraico, come Stato dei soli ebrei.

È questa decisione scellerata che premia l’occupazione militare israeliana dei Territori palestinesi e che ha alimentato le marce dell’estrema destra israeliana di Levaha parafascista al grido di «morte agli arabi» nei giorni che hanno preceduto la rivolta della Spianata, che ha preparato la «marcia delle bandiere» la celebrazione della riconquistata capitale, e che ora esplode come un bubbone nelle città miste d’Israele stessa.

È sempre questa decisione che legittima istituzionalmente le espulsioni dei palestinesi dalle loro case dei quartieri di Gerusalemme Est per darle ai coloni. Si chiama pulizia etnica.

Del resto di che sorprendersi, così si porta a termine l’espulsione definitiva anche nel luogo più simbolico, dove i militari israeliani sparano, in pieno Ramadan, come in un tiro segno. Infatti nella Cisgiordania occupata centinaia di insediamenti dei coloni integralisti hanno espulso così tanti palestinesi dalla loro terra che non esiste più la continuità territoriale perché nasca uno Stato palestinese – senza dimenticare il Muro, lo sradicamento violento delle colture, l’abbattimento delle case, i posti di blocco che spezzano la vita, la repressione quotidiana con uccisioni che non fanno notizia nei media occidentali, le migliaia di detenzioni arbitrarie.

È un regime di apartheid – legga Biden il saggio Apartheid scritto dal suo predecessore Jimmy Carter sulla condizione dei palestinesi se non vuole ascoltare Human Right Watch, Amnesty International e i Rapporteur dell’Onu come Richard Falk che dicono che il governo d’Israele deve essere processato per questo regime imposto alla popolazione palestinese. «Israele ha diritto di difendersi», ma quante volte in questi ultimi tre anni l’aviazione israeliana ha colpito obiettivi «militari» e colpendo impunemente civili in Siria – dove la guerra all’Isis non è ancora finita -, e quante volte con una «guerra coperta» ha attaccato obiettivi civili e istituzionali in Iran? «Attenti alle vittime civili», ma nei due tre mesi precedenti alla rivolta della Spianata, quanti giovani e padri di famiglia palestinesi sono stati uccisi magari solo per un falso movimento ad un check point militare?

Diciamolo chiaramente: se Biden mantiene la decisione di Trump sappia almeno che è incendiaria, e cominci a stupirsi di meno.

Perché se «Israele ha diritto di difendersi», chi difende i palestinesi che sono occupati militarmente? Non lo fanno più i Paesi arabi dei quali i palestinesi non si fidano più, e che sono in rotta di collisione con i loro popoli figuriamoci con chi vive sotto occupazione in Cisgiordania. Eppure, anche per effetto di questa crisi e non certo per la sofferta riattivazione degli accordi sul nucleare civile iraniano, sta vacillando quel Patto di Abramo voluto da Trump che mirava a cancellare i palestinesi.

Non lo fa l’Unione europea e nemmeno quell’Europarlamento sempre pronto sui diritti umani a senso unico. Non lo fa nessuno.

Lo fa con azioni militari a dir poco controproducenti, Hamas. Che non ci piace, non ci piace il suo fondamentalismo religioso, i suoi rapporti con Turchia e Qatar che opprimono altri popoli. Ma lo fa, e agli occhi dei palestinesi conta.

Se è vero poi che Biden ha telefonato ad Abu Mazen «perché fermi i lanci di razzi da Gaza» è a dir poco allucinante. Abu Mazen non ha certo questo potere. Hamas è cresciuta sulle disfatte dell’Anp e della laica Al Fatah di fronte alle false promesse occidentali e alla negazione degli accordi Oslo 1993, rimessi subito in discussione nel ’95 con l’uccisione, da parte di un integralista ebreo, del premier Rabin che li aveva firmati con Arafat e Clinton; Hamas vinse le elezioni in tutta la Palestina non solo a Gaza nel 2006 e probabilmente le avrebbe ri-vinte in questo mese se le elezioni fossero stata confermate. Comunque ora invece di un Stato palestinese – l’altro, lo Stato d’Israele, c’è più forte che mai e con uno degli eserciti più e agguerriti della Terra – abbiamo frantumi di terra occupata da nuovi insediamenti subito diventati avamposti militari israeliani, lanciati ad ogni piè sospinto da ogni governo israeliano con il campione Netanyahu in testa.

Il mondo laico palestinese è in declino e se la scomparsa della sinistra da noi è un bel problema, in Israele e in Palestina è una tragedia. È questo disastro e fallimento che alimenta il protagonismo di Hamas. E poi guardiamo in faccia la realtà: non è un caso che in piazza ci siano i giovani palestinesi che appartengono alla generazione post-accordi di Oslo. Ora per di più il giornalismo tace. È morto dentro il suo silenzio.

Commenta (0 Commenti)

Clima. Proteste nel giorno dell’assemblea «a porte chiuse» degli azionisti della multinazionale. A Ravenna il no al sito di stoccaggio di CO2

 

Ci si può dichiare «green» continuando a produrre CO2? Eni pensa di «sì», semplicemente mettendo il gas serra delle attività industriali sotto al mare. Lo farà in Inghilterra, nella baia di Liverpool, e ad Abu Dhabi. Lo farà anche al largo della costa di Ravenna, nel Mare Adriatico, utilizzando depositi ormai esausti di gas metano. Da tornare a riempire, questa volta con anidride carbonica. La tecnologia si chiama Ccs, acronimo che sta per «Carbon capture and storage», cattura e stoccaggio di anidride carbonica.

Un progetto strategico per l’azienda, ha detto l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi che conta molto sul Ccs per raggiungere nel 2050 la tanto sbandierata neutralità energetica. Come? Puntando tutto sul gas (che resta un combustibile fossile inquinante) e provando a ripulire l’aria catturando la CO2 e nascondendola in maxi discariche sotterranee. Quella di Ravenna potrebbe essere la più grande del mondo. Un progetto che non piace agli ambientalisti e ecologisti di tutta Italia, in piazza a Ravenna e a Roma per dire No alla «grande opera».

AD APRIRE LE DANZE GREENPEACE, i cui attivisti ieri mattina a Roma hanno scalato il grattacielo sede generale dell’Eni e, nel giorno dell’assemblea degli azionisti, hanno dispiegato a 50 metri d’altezza uno striscione con la scritta «Eni killer del clima» e la testa del famoso cane a sei zampe che brucia il pianeta. Nel pomeriggio una manifestazione nazionale ha invece portato centinaia di persone a Ravenna per protestare contro il progetto di Ccs di Eni. Mentre a Milano, Napoli, e a Stagno, in provincia di Livorno, ci sono stati presidi contro le politiche energetiche del gigante degli idrocarburi. Un messaggio ai manifestanti è arrivato anche dagli ecologisti di Taranto, «siamo con voi, uscire dal fossile è l’obiettivo fondamentale di tutte e tutti noi».

Greenpeace davanti al quartier generale Eni a Roma

A SCENDERE IN PIAZZA A RAVENNA, a pochi minuti di distanza dal petrolchimico creato negli anni ‘50 del 900 da Enrico Mattei e che aspetta ancora un piano di riconversione, le maggiori sigle dell’ambientalismo italiano: Legambiente, Fridays For Future, Extinction Rebellion, e le 70 associazioni dell’Emilia-Romagna che si sono uniti sotto il nome di Rete emergenza climatica e ambientale Emilia-Romagna. Con loro anche attivisti del comitato Trivelle Zero delle Marche e i ciclo-ambientalisti veneti di Climate-Riders. «No al greenwashing e alla propaganda di Eni, sì alla giustizia climatica», hanno detto al megafono i manifestanti. «Il Ccs è sbagliato e non fa bene all’ambiente – ha attaccato Viviana Manganaro della Rete emergenza climatica – Permetterà di non smantellare gli impianti estrattivi esausti in mare, permetterà alle industrie inquinanti di apparire presentabili nascondendo la CO2 sotto terra, permetterà agli imprenditori e a Eni di non affrontare una vera transizione ecologica verso eolico e solare. Insomma tutti saranno felici e contenti tranne l’ambiente e noi che ci viviamo».

C’è poi il tempo dei soldi. Chi pagherà per il Ccs? Il progetto è stato depennato dal Recovery Plan, ma il ministro per la transizione ecologica Cingolani non ha chiuso definitivamente la porta. «Fino al 30 aprile – ha dichiarato – la Commissione europea ci aveva detto che nel Recovery non doveva esserci la Ccs. Poi il 3 maggio Timmermans (il vicepresidente della Commissione, ndr) ha detto che forse in fase transitoria si può fare. Spero che non ce ne sarà bisogno. Se saremo bravi a fare le rinnovabili, forse non dovremo farla».

INSOMMA NON È DETTO che soldi pubblici non saranno usati per finanziare il Ccs, e questo gli ambientalisti non lo vogliono. Forti anche di autorevoli pareri scientifici che smontano pezzo a pezzo il progetto di Eni. «Produrre CO2 per poi catturarla e immagazzinarla è un procedimento contrario ad ogni logica scientifica ed economica – hanno scritto gli scienziati di Energia per l’Italia – è molto più semplice ed economico usare, al posto dei combustibili fossili, le energie rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idroelettrico) che non producono né CO2, né inquinamento». Il Ccs, secondo i ricercatori, non solo potrebbe provocare attività sismiche ma non eliminerebbe «nemmeno l’inquinamento causato da combustibili fossili, che ogni anno causa in Italia 80.000 morti premature». Dunque una tecnologia inutile, potenzialmente pericolosa e costosa.

Perché allora Eni, nonostante tutto, punta sulle maxi discariche sotterranee di anidride carbonica? Perché sono funzionali al suo business ancora basato sui combustibili fossili, spiega il chimico Leonardo Setti dell’Università di Bologna. «Il core business dell’azienda è vendere gas e petrolio, il Ccs allora serve solo per allungare la vita di quelle fonti fossili, iniziando con l’idrogeno blu (prodotto con la combustione del metano e poi «ripulito» mettendo sotto terra l’anidride carbonica). Dal punto di vista scientifico il Ccs non si giustifica in una transizione energetica che porti fuori dal fossile – spiega Setti – piuttosto si riconverta Eni attraverso la ricerca e produzione di batterie elettriche».

AD APPOGGIARE la manifestazione di Ravenna anche la politica. Dalla Regione Emilia-Romagna si fa sentire il consigliere di Coraggiosa Igor Taruffi, che chiede investimenti sull’eolico offshore e non su «un’opera che prolunga la vita delle fonti fossili». I Verdi con la consigliera regionale Silvia Zamboni, da sempre contrari al Ccs, chiedono che la transizione ecologica, quella vera e senza il Ccs, parta dalle industrie a maggioranza pubblica come l’Eni. Mentre da Roma si fa sentire anche il Movimento 5 Stelle. «Il progetto per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica di Eni a Ravenna deve stare fuori dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – dichiara per il M5s il deputato Alberto Zolezzi, membro della commissione ambiente – Le risorse in arrivo dall’Europa non vanno sprecate per questa iniziativa che non ha nulla di sostenibile. Con il governo Conte II il MoVimento 5 Stelle aveva buttato fuori il progetto dal Recovery Plan e ora non accetteremo che ricompaia».

Commenta (0 Commenti)

Israele/Palestina. Ma c’è anche un’altra novità: la «maturazione» della legge discriminatoria sulla nazionalità esplode con le proteste nelle città miste d’Israele - con forte presenza arabo-palestinese - come Lod, Aco e Ramble, dove mentre scriviamo sono in corso pesanti scontri

 

Nelle ultime ore è diventato tragicamente chiaro che il governo israeliano e Hamas, per ora, non sono interessati alla mediazione di attori internazionali per arrivare a una tregua.

Dopo anni di silenzio rispetto a un conflitto che sembrava dimenticato, tutti si sono svegliati e ammoniscono – adesso se ne accorgono! – che l’occupazione non è una routine accettabile e nasconde contenuti esplosivi. Fattori a lungo occultati o dimenticati sono esplosi ancora una volta, e nuovamente il prezzo da pagare sarà il sangue di entrambi i popoli.
Stati uniti post-Trump – quelli di Joe Biden – , Unione europea, Israele e paesi arabi: tutti si dichiarano «sorpresi». Fra gli israeliani serpeggia la domanda: «Ma come hanno potuto dirci che Hamas non era interessato allo scontro armato?».

La verità è che tanto Netanyahu quanto i leader di Hamas – che aspettavano l’arrivo di altri dollari dal Qatar – proseguivano su una linea che non portava da nessuna parte ma assicurava uno statu quo relativamente vantaggioso. C’erano stati diversi incidenti violenti, durati un giorno o poco più, con un successivo cessate il fuoco mediato dall’Egitto, dal Qatar e dall’inviato delle Nazioni unite.

Ma stavolta, che cosa è accaduto?

Commenta (0 Commenti)

La Città Santa trasfigurata. Guida sintetica alle politiche urbane che hanno reso materiale il dominio israeliano sull’intera città. Per spiegare quanto sta accadendo oggi

 

Per comprendere quel sta accadendo in questi giorni a Gerusalemme è indispensabile avere contezza di come, a partire dal 1967, la Città Santa è stata fisicamente trasfigurata da una serie sistematica di politiche urbane finalizzate a rendere materiale il dominio israeliano dell’intera città. Guardare allo stravolgimento dello spazio urbano è infatti cruciale per capire le ragioni degli scontri di oggi, di ieri e, probabilmente, anche di domani – cogliendone la drammatica ordinarietà e ineluttabilità. A tal fine propongo qui una guida sintetica, per punti, al contesto “spaziale” dei fatti di questi giorni.

1. Al termine della guerra arabo-israeliana del 1948-49, Gerusalemme è stata suddivisa in due parti principali: Gerusalemme Ovest, sotto controllo israeliano e Gerusalemme Est, sotto controllo giordano. È questa la configurazione spaziale della città ancora oggi riconosciuta come legittima dalla gran parte della comunità internazionale.

2. Nel 1967 Israele ha occupato militarmente, tra i vari territori, anche Gerusalemme Est, dichiarando successivamente la Città Santa “unificata” capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele. Le Nazioni unite non hanno mai riconosciuto tale annessione, chiedendo più volte il ritorno ai confini pre-1967.

3. All’indomani dell’occupazione di Gerusalemme Est, Israele ha messo in campo una serie di azioni finalizzata a consolidare materialmente l’annessione della parte orientale della città e rendere una futura ridivisione della Città Santa di fatto impossibile. Tali azioni si sono incarnate in un processo che il geografo israeliano Oren Yiftachel ha definito di simultanea «ebraizzazione» e «de-arabizzazione» dello spazio urbano.

4. Il processo di ebraizzazione ha preso corpo attraverso l’espansione fisica della città ebraica nelle aree palestinesi di Gerusalemme Est. In particolare, è stata promossa una poderosa operazione di edificazione residenziale che, nel giro di pochi decenni, ha permesso l’insediamento di più di 200.000 ebrei (pari a circa il 40% della popolazione ebraica della città) a Gerusalemme Est. La maggior parte di queste aree residenziali ebraiche è stata costruita grazie al supporto delle autorità pubbliche. Si tratta, in sostanza, di quartieri di edilizia pubblica, dove «l’uso del termine ‘pubblico’ rivela più di qualsiasi altra cosa il pregiudizio politico del governo: il ‘pubblico’ a cui venivano imposti gli espropri ha sempre compreso anche i palestinesi; il ‘pubblico’ che ha goduto dei frutti degli espropri è stato composto solo ed esclusivamente da ebrei» (Eyal Weizman, architetto israeliano). Le (blande) condanne internazionali di tale processo non hanno sortito alcun effetto concreto.

5. A ciò si è accompagnato a un implacabile processo di de-arabizzazione, finalizzato in primis a diminuire il controllo palestinese del suolo di Gerusalemme Est. Ciò si è inverato soprattutto in ostacoli quasi insormontabili all’espansione urbana dei quartieri arabi. La de-arabizzazione di Gerusalemme è stata perseguita anche tramite l’espulsione di palestinesi da aree da loro abitate da tempo, come nel caso di Sheikh Jarrah. Questi ultimi casi sono un tassello eclatante e drammatico, ma invero quantitativamente minoritario, del processo di de-arabizzazione, le cui forme ordinarie sono ben più sottili. Tra queste, per esempio, la mancata infrastrutturazione dei quartieri arabi con i più basilari servizi pubblici, fatto che ha reso la vita dei palestinesi in città estremamente complessa.

Le parole di Teddy Kollek, sindaco di Gerusalemme per 28 anni, non lasciano spazio a equivoci: «Continuiamo a dire che vogliamo rendere i diritti degli arabi di Gerusalemme uguali a quelli degli ebrei… sono parole al vento… Gli arabi erano e rimangono cittadini di seconda, anzi di terza classe. Per gli ebrei di Gerusalemme negli ultimi 25 anni ho fatto moltissime cose. Cosa ho fatto per gli arabi di Gerusalemme Est? Niente! Marciapiedi? Nessuno. Centri culturali? Nessuno. Abbiamo installato un sistema fognario e migliorato la rete idrica. Ma sapete perché? Pensate che lo abbiamo fatto per il loro benessere? Scordatevelo! C’erano stati alcuni casi di colera in quelle aree e gli ebrei erano spaventati dalla possibilità di essere contagiati a loro volta. Abbiamo adeguato il sistema fognario e idrico delle aree arabe solo per questo motivo».

6. Il tassello finale di questa guerra di pietra e cemento, grazie alla quale Israele si è appropriata materialmente di Gerusalemme Est, è rappresentato dalla costruzione del Muro di Separazione, che solidifica i confini esterni della “Gerusalemme ebraica unificata e indivisibile”, operando al contempo selettive inclusioni ed esclusioni dal sapore squisitamente politico. Mentre include numerose colonie ebraiche in Cisgiordania ubicata nelle immediate vicinanze di Gerusalemme, taglia fisicamente via dalla Città Santa due popolosi quartieri arabi, da decenni parte integrante della municipalità, abitati da decine di migliaia di palestinesi – che, di conseguenza, sono stati nei fatti espulsi dalla città.

È sullo sfondo di questa lenta ma inesorabile conquista spaziale della città da parte di Israele che le vicende di Sheikh Jarrah di questi giorni vanno lette. In caso contrario, si rischia di guardare solo il dito e non la luna che esso indica.

* Università degli studi di Torino

Commenta (0 Commenti)

La protesta contro Eni

SULLA SCENA DEL CRIMINE: Fridays For Future in piazza per denunciare i crimini di Eni

Il 12 Maggio Fridays For Future manifesterà in tutta Italia per denunciare le responsabilità di Eni nella crisi climatica e nella devastazione ambientale dei territori in cui opera.

Il giorno dell’assemblea degli azionisti della prima azienda italiana di idrocarburi, che si terrà online e a porte chiuse, “torniamo a manifestare contro Eni, che cerca di ripulire la sua immagine mostrandosi in prima linea nella produzione di rinnovabili mentre continua ad investire in gasdotti, oleodotti e petroliere”, affermano le attivisti e gli attivisti, “nelle sue pubblicità si presenta come un’azienda green e al fianco delle persone ma nei territori in cui è attiva ha devastato ecosistemi e compromesso la salute delle persone che li abitano, basti pensare al Delta del Niger o, senza andare troppo lontano, alla Val d’Agri o a Gela”.

Nella stessa giornata saranno organizzati presidi a Ravenna, dove convergeranno attiviste e attivisti dall’Emilia Romagna e da tutta Italia per contrastare il progetto di cattura e stoccaggio di CO2, a Milano, a Licata per opporsi a nuove perforazioni in mare, a Stagno, su cui incombe l’ingannevole progetto di “bio”raffineria, a Presenzano contro la nuova centrale Turbogas e a Roma già da oggi.

L’invito è a “partecipare numerose e numerosi per difendere il nostro presente e il nostro futuro da coloro che si stanno arricchendo a discapito della tutela delle persone e dell’ambiente, devastando territori e posticipando pericolosamente l’azzeramento delle emissioni con progetti insostenibili. Per uscire dall’ economia estrattivista e promuovere una società in cui poter vivere e lavorare in un nuovo rapporto con gli altri esseri umani e con il pianeta. È ora che anche lo stato, che è azionista di maggioranza di Eni, si renda conto dell’urgente necessità di abbandonare il modello fossile e le multinazionali che lo perpetuano, interrompendo ogni forma di finanziamento e legittimazione nei loro confronti e investendo in un reale processo democratico di transizione ecologica. Non un euro del Next Generation EU dovrebbe finire nelle mani di chi inquina e distrugge, che ad oggi dovrebbe unicamente occuparsi di bonificare le aree che ha devastato.”

Appuntamenti

RAVENNA 17.00 manifestazione nazionale, piazza Kennedy

ROMA 9:00 – 13:00 presidio metro fermi eur

STAGNO 15.30 – 17:00 presidio + realtà toscane, bioraffineria

NAPOLI (Presenzano, Caserta) h.18.00 presidio – nuova centrale a turbogas

MILANO (San Donato) – 15:00 – 18:00 presidio (performance, striscionata)

LICATA – 17:00 presidio

 

Extinction Rebellion il 12 maggio presidia l’assemblea degli azionisti di ENI e si rivolge al Governo

No a una transizione energetica di facciata con soldi pubblici!

Appuntamento a Roma sotto il palazzo di vetro e a Ravenna in P.za Kennedy contro il CCS.

Mobilitazioni anche a Milano, Torino e altre città in Italia.

 

Mercoledì 12 maggio Extinction Rebellion Italia (XR) presidia l’assemblea degli azionisti di ENI per chiedere al Governo di cessare la connivenza con il cane a sei zampe, principale responsabile italiano delle emissioni di gas serra e del collasso climatico ed ecologico.

A Roma, dalle 9.00 alle 13.00, in Piazza della Stazione Enrico Fermi appuntamento per “far rumore” e pretendere dagli azionisti l’eliminazione definitiva delle fonti fossili dai piani energetici di ENI.

A Ravenna, dalle 17:00 in Piazza Kennedy manifestazione nazionale “Il futuro non si (s)tocca! – NO CCS” per denunciare l’ipocrisia green malcelata dietro il progetto di ENI per la cattura e lo stoccaggio della CO₂ a largo della costa ravennate.

Mobilitazioni anche a Milano, Napoli e in altre città italiane. Tutti appuntamenti che vedranno schierati, accanto a XR, cittadin* e attivist* dei maggiori schieramenti ecologisti locali, nazionali e internazionali tra cui GreenPeace, Fridays for Future e Rise Up for Climate Justice.

I progetti pilota sul CCS nel mondo raccontano una tecnologia con una grossa inefficienza nella cattura, molto costosa, non consolidata, energivora e che perpetua lo sfruttamento dei pozzi e del fossile.

Un dato su tutti: a fronte delle attuali 400 milioni di tonnellate di CO₂ emesse all’anno dall’Italia, ENI prevede di stoccare 7 milioni di tonnellate di CO₂ all’anno sotto il mare di Ravenna entro il 2030 e 50 milioni di tonnellate all’anno entro il 2050, per una capacità complessiva di stoccaggio del sito fino a 300-500 milioni di tonnellate di CO₂.

ENI stima un costo di circa due miliardi di euro per il CCS ravennate e lesina finanziamenti pubblici per realizzarlo. L’Ente Nazionale Idrocarburi è partecipato al 30% dalla Cassa Depositi e Prestiti (controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze), di fatto è sostenuto dal settore pubblico italiano, con i soldi di tutt*. Questo impone scelte collettive e condivise su come attuare una reale transizione energetica e abbandonare il vigente sistema tossico della finanza fossile.

Il Governo deve rispondere al mandato costituzionale che gli impone di proteggere la salute della popolazione. Il Governo deve fare scelte coraggiose e introdurre le assemblee dei cittadin*, reale strumento di democrazia deliberativa su questioni che, come il CCS, riguardano il benessere e il futuro di tutt*. Sulla base delle migliori evidenze scientifiche, le assemblee delibereranno su strategie e percorsi da attuare per trasformare la società in chiave di neutralità di emissioni e rispetto dei sistemi ecologici, in equità con tutti gli esseri viventi.

Extinction Rebellion chiede al Governo di agire ora, di dire la verità, di andare oltre la politica.

Commenta (0 Commenti)