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È stato il sabato della partecipazione. Tre piazze per i diritti dei lavoratori: Torino, Firenze, Bari. Sei città per i diritti della comunità Lgbtq: il Gay Pride ha riempito Ancona, L'Aquila, Faenza, Martina Franca, Milano e Roma.

Questo giugno è caldo non solo per l'ondata di calore che sta investendo il Paese, ma anche per chi ha rivendicazioni sul piano sociale.

Sul fronte del lavoro la fine il 30 giugno dello stop ai licenziamenti decisi in pandemia - prorogato solo il settore tessile - e per le sempre troppe morti sul lavoro - l'ultima, il bracciante morto di fatica in Puglia.

Sul fronte Lgbtq, l'affondo del Vaticano contro il ddl Zan che giace al Senato e di cui ora il cui futuro è incerto.

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Cinque Stelle. Uscirne con un passo indietro di Grillo non sarà facile e se la decisione sarà orientata alla separazione, i 5Stelle si troverebbero a replicare una postura da partito tradizionale. Se avvenisse una scissione, cosa ci sarebbe di diverso dagli altri partiti?

 

Nell’opaca cornice di un governo di unità nazionale, che in un modo o nell’altro tocca collocazioni e identità delle forze politiche che ne fanno parte, non dovrebbe stupire nessuno se a patirne le maggiori conseguenze è proprio la forza più giovane e dall’identità più fragile come il Movimento 5Stelle.

Una forza politica che in pochi anni conquista il vertiginoso 32 per cento dei consensi, che sale sul podio del partito di maggioranza relativa, che passa dall’opposizione al governo, che è stata determinante per tre governi consecutivi, non è poi così strano che si ritrovi sull’orlo di una scissione.

In fin dei conti voler tenere insieme Giuseppe Conte e Beppe Grillo è come cercare di unire il diavolo e l’acqua santa. Uno è istituzionale, parlamentarista, garantista per formazione, tanto quanto l’altro è anarchico, populista, giustizialista. Nella fase di crescita tumultuosa dei consensi ha prevalso l’anima movimentista, mentre con l’ingresso nella stanza dei bottoni ha ovviamente guadagnato terreno, tra gli eletti e gli iscritti la scelta di non voler recitare una parte secondaria nel futuro che verrà.

E ieri pomeriggio Conte, in una conferenza stampa, si è incaricato, di confermare il momento di grande difficoltà spiegando che “il Movimento ha criticità, carenze, ambiguità che spiegano gli elettori persi”, e che dunque “non esiste una leadership dimezzata e non serve imbiancare la casa che invece ha bisogno di profonde ristrutturazioni”.

In sostanza Conte dice che i 5Stelle per non morire devono avere “il coraggio di cambiare” non i valori su cui sono nati, ma tutta la struttura, non le fondamenta della casa ma ogni pilastro. Dunque le ragioni della crisi sono spiattellate insieme alla cura per uscirne : “Spetta ora a Grillo e agli iscritti la scelta” se aderire o sabotare.

Del resto, per restare ai travagli dello schieramento di centrosinistra, al quale Conte ha fatto riferimento come “campo largo” in cui ancorare i 5Stelle (mettendo fine all’ambiguità né di destra, né di sinistra), siamo tutti testimoni della recente, drammatica crisi di leadership del Pd.

Della fragile soluzione alle traumatiche dimissioni del segretario Zingaretti, sostituto senza discussione da un neo-segretario intervenuto sulla scena per puntellare il governo Draghi, ma impotente di fronte alle “bande” interne al partito.

D’alta parte, se il vento politico, che ha portato Draghi a palazzo Chigi in piena pandemia, è un vento che a dar retta alla maggior parte dei sondaggi continua a gonfiare le vele delle destre promettendo la primazia alla giovane erede del fascismo, non dovrebbero destare meraviglia le scosse che attraversano i partiti, ma, al contrario, andrebbero lette a conferma della debolezza del fronte democratico progressista.

Non da ultimo per il fatto stesso di vedere la maggiore forza, il Pd, stimata a malapena intorno al venti per cento dell’elettorato, per di più con le forze della sinistra – di governo e di opposizione – che sì e no ottengono il due per cento dei voti (a testa). E difficilmente potremmo aspettarci qualcosa di diverso se queste forze pur camminando nella stessa direzione, viaggiano su strade parallele, divise da muri di incomprensione e da personalismi degni di miglior causa.

Quello che accade ora tra i 5Stelle appare, anzi è, inevitabile. Probabilmente sarà decretata una tregua ma se anche le due componenti verranno in qualche modo incollate, l’amalgama difficilmente riuscirà a tenere. Oltretutto i numeri dei consensi sui quali potevano contare si sono dispersi, andando ad ingrossare in parte le fila della destra e in parte quelle dell’indifferenza, e la controprova è evidente: nessun partito progressista e di sinistra ha trovato giovamento dallo smarrimento grillino.

Adesso la contrapposizione non è tanto sulla scelta governista del movimento, ma sulla filiera di democrazia interna e sul radicamento politico e sociale nei territori. Sulla fine della monarchia assoluta incarnata dall’Elevato, su quei riti della comunicazione che facevano del corpo del re il principale veicolo del messaggio politico, che attraversasse lo Stretto a nuoto, o che navigasse con il canotto sulle folle in piazza. Anche perché ultimamente le sue doti di visionario sono sembrate un po’ usurate (vedi la cantonata di scambiare il ministro Cingolani per un ambientalista e Draghi per il salvatore della patria).

Naturalmente la scelta sarà alla fine determinata dal voto degli iscritti, finalmente liberi dalla catena proprietaria della piattaforma Rousseau.

Uscirne con un passo indietro di Grillo non sarà facile e se la decisione sarà orientata alla separazione, i 5Stelle si troverebbero a replicare una postura da partito tradizionale. Se avvenisse una scissione, cosa ci sarebbe di diverso dagli altri partiti? Ad esempio dal Pd che, dalla caduta del Muro, non trova pace, lacerato da continue divisioni? Oltretutto una dilaniante spaccatura farebbe un favore a chi, da destra a sinistra, passando per Calenda, ne vorrebbe l’estinzione; sarebbe uno schiaffo ai milioni di elettori che li hanno sostenuti; e potrebbe essere devastante per qualsiasi ipotesi alternativa alla preponderante coalizione di destra.

Se non troveranno la strada per una rifondazione, rischiosa ma necessaria, il loro futuro è già visibile tra le stelle cadenti.

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Intervista al Segretario Cgil. Il segretario Cgil: lo sblocco dei licenziamenti favorisce le imprese. Logistica: battaglia comune e una legge per applicare i contratti. Al governo chiediamo un confronto preventivo su Pnrr e riforme. Lo stato in economia è necessario per uno sviluppo equo. Serve un nuovo processo unitario che parta dai luoghi di lavoro

Una manifestazione della Cgil

 

Maurizio Landini, segretario generale Cgil, domani con Cisl e Uil tornate in piazza con tre manifestazioni a Torino – dove sarà lei – , Firenze e Bari. Quanto le è mancata la piazza in questa pandemia?
Scendiamo in piazza perché è il momento di cambiare. Vogliamo dare un senso di unità del paese e del fatto che la ricostruzione e gli investimenti devono fondarsi sul lavoro di qualità e dare una prospettiva a giovani, donne e sud. Questo perché se possiamo dire che si sta uscendo dalla pandemia è grazie al contributo dei lavoratori. Non è accettabile tornare alle condizioni pre pandemia: basta con la precarietà e la insicurezza sul lavoro. Le manifestazioni vogliono rimettere al centro il lavoro.

Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini

Lei evoca la rottura sociale per lo sblocco dei licenziamenti ma il vicepresidente di Confindustria, il moderato Maurizio Stirpe, la contesta e sostiene che «agita lo spettro per provare a cambiare certi provvedimenti».
Continuo a pensare che sia utile evitare che dal primo di luglio ci siano licenziamenti. Ricordo che riguarderebbero il settore industriale e manifatturiero: stiamo parlando di lavoratori che insieme alle aziende che pagano il contributo per la cassa integrazione ordinaria. Si può fare la riforma degli ammortizzatori e per le imprese che si devono riorganizzare si incentivino gli strumenti alternativi ai licenziamenti.

Il ministro Orlando ha promesso un nuovo incontro con voi prima di presentare la riforma degli ammortizzatori sociali. La Cgil cosa chiederà?
Noi abbiamo chiesto al governo e a tutte le forze politiche di prorogare il blocco fino a fine ottobre. La riforma degli ammortizzatori deve estendere le tutele a tutti i lavoratori in senso universale e deve essere fondata su un’idea mutualistica con tutte le imprese e i tutti i lavoratori che devono contribuire. Bisogna incentivare la formazione dei lavoratori fino al diritto permanente alla formazione. Serve una riforma del centri per l’impiego per iniziare vere politiche attive per il lavoro. Infine abbiamo chiesto che gli strumenti come la Naspi siamo più sostanziosi e senza il decalage che ne riduce l’importo e la durate.

Draghi secondo lei cercherà ancora una mediazione sui licenziamenti? In queste settimane lei, come Sbarra e Bombardieri, è stato avvistato a palazzo Chigi. Che rapporto ha con Draghi? Non siete stati troppo morbidi all’inizio con lui?
Noi con il governo abbiamo dimostrato che se coinvolti siamo capaci di risolvere i problemi. Sia con il governo Conte – con i protocolli sulla sicurezza, un esempio in Europa, che hanno permesso a tutte le attività di non fermarsi – e anche con il governo Draghi con i Patti sul lavoro pubblico e la scuola fino ai miglioramenti sul decreto Semplificazioni cancellando il massimo ribasso e garantendo che nei subappalti ci sia lo stesso trattamento economico e normativo dell’impresa madre. Da questo punto di vista noi stiamo rivendicando non solo il blocco dei licenziamenti ma, al governo che si appresta a implementare il Pnrr e le riforme collegate, stiamo chiedendo che si sancisca una sede di confronto preventivo e mi riferisco alle scelte di politiche industriali – su trasporti, rete unica, energie rinnovabile – senza dimenticare le pensioni. Queste scelte devono rispondere a una domanda: questi processi aumentano il lavoro in Italia o solo le importazioni? Con la manifestazione rivendichiamo che gli investimenti post pandemia devono avvenire con il coinvolgimento del mondo del lavoro, su un’idea di paese fondato sulla giustizia sociale con un nuovo stato sociale in cui si investa sulla conoscenza e sulla sanità.

Ci sono molte polemiche sul ruolo che Draghi ha dato ad una serie di economisti liberisti contrari al ruolo dello stato in economia sul Pnrr. È preoccupato?
Il mercato da solo non è in grado di definire un nuovo modello di sviluppo. Anzi, le logiche di questi ultimi 20 anni sono state smentite e hanno prodotto livelli di diseguaglianza, precarietà e impoverimento senza precedenti. Quindi siamo convinti che un intervento pubblico che indirizzi gli investimenti sia necessario. Del resto dalla siderurgia al settore aereo è utile e necessario il ruolo pubblico. Il problema non è solo vengono realizzati gli investimenti ma quali nuove filiere produttive si realizzano per il nostro paese.

Lei domani parlerà a Torino, la città della Fiat alle prese con i ritardi di Stellantis sulla sede del polo delle batterie elettriche.
Siamo di fronte a un grande cambiamento tecnologico e del concetto stesso di mobilità. In questo senso è necessaria la presenza del governo nel confronto sindacale in corso con un gruppo importante come Stellantis affinché gli investimenti siano in grado di progettare e costruire in Italia le batterie e utilizzare le capacità produttive e professionali presenti nel nostro paese.

La morte di Adil ha fatto conoscere a tutti l’escalation della violenza nella logistica. Un settore in cui – se la legge sulla rappresentanza che lei chiede da almeno 10 anni fosse realtà – i Cobas sono molto rappresentativi. Non sarebbe giusto farli entrare nei tavoli dei rinnovi contrattuali?
Innanzitutto c’è un primo tema che riguarda le leggi fatte in questi anni. Noi chiediamo che si applichi quello che è stato fatto negli appalti pubblici anche nel settore privato. Dal far west dei subappalti alle cooperative spurie, serve un provvedimento legislativo per dare valore generale ai contratti nazionali. Occorre uscire da una visione sbagliata: la rappresentanza della Cgil nel settore logistico è da anni in aumento. Poche settimane fa, il 18 maggio, dopo un grande sciopero nazionale, il contratto della logistica è stato rinnovato con tutte le associazioni datoriali che compongono la filiera. Proprio l’applicazione di quel contratto permette di garantire ai tutti i lavoratori gli stessi diritti e le stesse tutele. Così come vorrei far notare, a proposito di presenza sindacale, che in Amazon il primo sciopero mondiale di tutta la filiera è stato fatto dalle nostre categorie in Italia. Così come 6 mila rider sono stati assunti a tempo indeterminato da Just Eat applicando proprio il contratto della logistica, come chiedevamo noi. Dopo di che io sono da sempre per la libertà sindacale e per far votare i contratti da tutti i lavoratori. Il nostro problema non sono gli altri sindacati ma le imprese che non applicano i contratti. Questa è una battaglia comune che va fatta. Ma serve un cambiamento legislativo. Nulla in contrario ad una legge sulla rappresentanza che misuri anche quelle delle imprese. È il momento di aprire una grande discussione per un nuovo processo di unità e democrazia sindacale che parta dai luoghi di lavoro.

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Stato e Chiesa . Vogliamo davvero dire che la libertà della Chiesa e dei fedeli implica non già una mera manifestazione di pensiero, ma il sostegno a «condotte discriminatorie»?

Vaticano

 

Vaticano  © Lapresse

Sul disegno di legge Zan (AS 2005) si è addensata la tempesta. Una «nota verbale» della segreteria di stato vaticana del 17 giugno manifesta critiche. La destra esulta. Draghi ricorda la laicità dello Stato. Letta subito si accontenta. Ma la battaglia continua.

Certo, può darsi che il ddl Zan sia migliorabile, come tutte le leggi. Ma il punto è un altro. Ed è che traspaiono elementi di cattiva Chiesa in cattivo Stato. La nota è stata una forzatura? Sì, e non per la forma, dal momento che tra Stati la «nota verbale» è strumento di ordinaria comunicazione. La forzatura è nel momento in cui arriva e in quel che dice.

Una prima domanda. Perché il 17 giugno? Il testo è votato dalla Camera il 4 novembre 2020 ed è trasmesso al Senato il giorno successivo. L’approvazione in una camera è un momento di significativa definizione dell’architettura della legge. Una posizione, quale che fosse, avrebbe potuto essere assunta allora. Invece, viene manifestata ben otto mesi più tardi, a valle di un ostruzionismo malamente dissimulato della destra in commissione. Un ostruzionismo che avrebbe potuto essere battuto con il richiamo in aula del testo, come si cominciava a suggerire.

Una lettura non maliziosa è che il Vaticano abbia atteso per vedere se la destra riusciva da sola ad affondare il ddl Zan nella palude parlamentare. Potrebbe aver riservatamente comunicato alla destra l’orientamento delle gerarchie, fornendo benzina per l’ostruzionismo. Alla fine, temendo un fallimento dell’azione di contrasto, il Vaticano viene allo scoperto con la nota fatta sapientemente trapelare.

L’obiettivo di condizionare il lavoro parlamentare è esplicito. Si auspica che lo Stato italiano possa «trovare una diversa modulazione del testo normativo in base agli accordi che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa e ai quali la stessa Costituzione Repubblicana riserva una speciale menzione». La richiesta implicita è che il governo usi gli strumenti di cui dispone nel rapporto con il parlamento per riorientare il lavoro legislativo.

Una seconda domanda. Come si argomenta la richiesta di cambiamenti? Nella nota si afferma che «alcuni contenuti dell’iniziativa legislativa – particolarmente nella parte in cui si stabilisce la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi ’fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere’ – avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario». Notate bene: criminalizzare le discriminazioni incide negativamente.

Vogliamo davvero dire che la libertà della Chiesa e dei fedeli implica non già una mera manifestazione di pensiero, ma il sostegno a «condotte discriminatorie»? Sul posto di lavoro, nella fruizione di servizi, nei rapporti civili e sociali? È questa la Chiesa della carità cristiana e dell’amore universale? La chiesa di un Papa che scrive l’enciclica Fratelli tutti e dichiara, in una famosa esternazione, «chi sono io per giudicare?». Qui forse si vuol mandare il messaggio «attenti, ci siamo anche noi» non tanto alle istituzioni italiane, ma alla Chiesa stessa come organizzazione e come popolo. Bisogna scegliere con quale Chiesa stare, e si coglie la strumentalità degli attacchi al ddl Zan.

Torniamo ai fondamentali. Per l’art. 7 della Costituzione «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Nessuno dei due soggetti può ingerirsi nell’ordinamento dell’altro avanzando pretese. Quindi oggi si può – e a mio avviso si deve – portare il testo in Aula, e approvarlo nei termini che l’Aula ritiene opportuni, qualunque cosa pensi la Chiesa. Come Draghi ricorda in replica il 23 giugno in Senato, l’ordinamento italiano contiene tutte le necessarie garanzie, nell’iter legislativo e a legge approvata.

Dice esplicitamente «questo è il momento del parlamento, non del governo». Assumiamo perciò che il governo non interferirà, rimettendosi all’Aula nei pareri e non ponendo questioni di fiducia. Risponda in questi termini alla nota. La Chiesa potrà valutare come vuole la legge definitivamente votata. Sulla temuta lesione di libertà garantite della Chiesa si potrà poi da parte cattolica adire la Corte costituzionale.
E la nota verbale? Siamo caritatevoli, e la consideriamo un errore di gioventù.

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L'insostenibile leggerezza dell'autonomia “differenziata”: allegramente  verso l'eversione – laCostituzione.info

PD VOTA APPELLO LEGA, CORAGGIOSA-VERDI CONTRO: ORA FUORI LUOGO  (DIRE) Bologna, 23 giu. -

Lega e Pd sollecitano il presidente regionale Stefano Bonaccini a riprendere i negoziati per l'autonomia dell'Emilia-Romagna. Ma la sinistra ora dice no: dopo il Covid "non può essere la priorità".

E' accaduto oggi in commissione regionale, dove era in calendario il parere su una petizione popolare (promossa da Cgil, Arci e altri soggetti) critica nei confronti del percorso di autonomia intrapreso prima della pandemia da Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia e poi anche da altre Regioni.

Alla petizione era collegata una risoluzione della Lega che invitava l'amministrazione regionale a riprendere al più presto i negoziati. "E' arrivato il momento di accelerare sull'autonomia regionale: l'emergenza Covid ha dimostrato che sono i territori a dover dare le risposte più importanti a cittadini e imprese", afferma in proposito il capogruppo del Carroccio in Regione Matteo Rancan.     

Dopo una discussione sulle premesse del documento, emendate dal Pd, si e' arrivati ad un voto bipartisan, con Carroccio, dem e lista Bonaccini a favore da un lato, ma Emilia-Romagna Coraggiosa e Verdi contrari dall'altro.

Dunque, spaccatura netta nella maggioranza di centrosinistra che amministra in viale Aldo Moro. "Riteniamo fuori luogo riprendere quella discussione, figlia di una stagione passata nei rapporti tra Stato e Regioni, senza fare i conti con le conseguenze della pandemia, che ha cambiato tutto", ha scandito il capogruppo di Coraggiosa Igor Taruffi chiedendo di "aggiornare la discussione". 

All'opposto la Lega: per Rancan proprio l'attenuarsi della crisi pandemica "pone le condizioni, anche grazie alla recente volontà espressa dal Ministro per le autonomie, per ricominciare a ragionare di maggiori deleghe e risorse a favore del nostro territorio, in favore della nostra Regione".

In commissione, ad assistere alla discussione tra i partiti, c'era anche il sottosegretario alla presidenza della Regione Davide Baruffi.  

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Il caso. Il leader Pd: avanti fino al 2023. Il consigliere di Zingaretti: troppo eterogeneo, cadrà prima

Goffredo Bettini

 

Goffredo Bettini  © Lapresse

Enrico Letta e Goffredo Bettini divisi sulle prospettive del governo Draghi. «Credo sia difficile che arrivi al 2023. Potrà tentare alcune riforme indispensabili: Pa, giustizia, fisco. Ma alla fine il carattere eterogeneo dell’alleanza porterà ad una crisi inevitabile», dice al Foglio il dirigente e ideologo del Pd. «Senza Draghi l’Italia affonda. Senza una ripresa della dialettica democratica, la democrazia si snatura. A partire da questi due dilemmi va risolto il problema».

Letta la vede diversamente: «La crisi post pandemia e l’impegno per realizzare riforme necessarie a investire i fondi del Recovery richiedono stabilità quindi, nell’interesse del Paese, è bene che questo governo arrivi alla fine della legislatura», ha detto all’Ansa il leader Pd. E al Colle chi andrà? «La questione è bene aprirla il giorno dopo Natale, non prima. Ora c’è da guardare al via libera dell’Ue al Pnrr, che è una grande occasione per il nostro Paese. Draghi sta guidando il governo in modo determinato ed equilibrato, ci sentiamo a casa: secondo noi deve durare fino al 2023».

E i rapporti tra Pd e Lega? «Dopo una prima fase molto turbolenta, dovuta all’atteggiamento di Salvini, nelle ultime settimane le turbolenze si sono abbassate e invito a continuare a fare così. Ma non ho nostalgie di “caminetti” tra i leader di partito». «Non vedo M5s come un fattore di instabilità per il governo – ha aggiunto Letta – Guardo con attenzione a quello che succede al loro interno, ma non entro nel dibattito interno, ognuno ha i suoi».

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