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Afghanistan oggi. L’inconfessabile ruolo di Washington e dei suoi alleati, Arabia saudita e Pakistan in primis, nella "talebanizzazione" del Paese.

L’arrivo della delegazione talebana a Doha per i colloqui con l’emissario di Trump

 

L’arrivo della delegazione talebana a Doha per i colloqui con l’emissario di Trump © Ap

Durante l’«Operazione Afshar» del febbraio 1993 l’allora comandante tagiko Ahmad Shah Masud rivestì un ruolo di primo piano nell’uccisione di migliaia di Hazara afghani, impegnati, per larga parte degli anni Novanta, in una lotta senza quartiere contro i talebani.
Suo figlio, il 32enne Ahmad Masud, formatosi in Gran Bretagna, è oggi l’idolo di numerosi intellettuali, analisti e politici occidentali. Molti di essi sono alla ricerca di una «figura affidabile» (a good guy, per usare un’espressione adottata da alcuni studiosi e analisti) sulla quale puntare: una dinamica peraltro già osservata in numerosi altri contesti in cui gli Stati uniti e i loro alleati sono intervenuti in anni e decenni recenti.

TALE APPROCCIO, così come i sempre attuali dibattiti sul «valore della promozione della democrazia» e i filmati dei soldati Usa intenti a «salvare civili afghani» all’aeroporto di Kabul (civili che saranno ospitati in paesi come gli Emirati Arabi Uniti e non sul suolo statunitense), servono due obiettivi principali.
Da un lato relegano in secondo piano il ruolo storico che gli Stati uniti e i loro alleati hanno rivestito nella destabilizzazione e “talibanizzazione” dell’Afghanistan. Dall’altro forniscono una semplicistica percezione che contrappone un “Occidente” illuminato a un “Oriente” arretrato, intrinsecamente violento, rappresentato in questo caso dall’Afghanistan.

Dal 2015 a oggi numerosi scontri hanno visto contrapposti i Talebani al cosiddetto “Stato islamico”: la frattura e le violenze che la sottendono sono ancora ben visibili. Il principale punto di collegamento tra il neo sovrano talebano dell’Afghanistan, Abdul Ghani Baradar, e il defunto capo dello Stato islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, è rintracciabile nel fatto che entrambi sono stati scarcerati su pressione degli Stati uniti: Washington è risultata determinante nel processo che ha (ri)portato queste figure al centro delle scene.

Osama bin Laden in Asghanistan nel 1998, foto Ap

 

BARADAR, IN PARTICOLARE, è stato rilasciato il 20 ottobre 2018, divenendo ben presto l’interlocutore locale di riferimento dell’ex presidente americano Donald Trump. Quest’ultimo ha avviato negoziati formali che hanno escluso il governo afghano, guidato dal controverso presidente Ashraf Ghani. Ha inoltre revocato le sanzioni imposte ai talebani e fatto rilasciare dalle carceri circa 5.000 militanti.
Oltre due decenni prima dell’ascesa politica di Trump, nel settembre del 1994, Baradar co-fondò insieme al mullah Omar il movimento dei Talebani. Due anni più tardi (1996), lo stesso mullah Omar istituì l’Emirato islamico dell’Afghanistan, nominando Baradar come suo vice. Da allora e fino all’ottobre del 2001, all’alba dell’invasione dell’Afghanistan, solo tre paesi riconobbero il neonato stato-terrorista talebano: Emirati Arabi Uniti, Arabia saudita e Pakistan.

I TORBIDI INTRECCI FINANZIARI sull’asse Afghanistan-Emirati Arabi Uniti sono stati documentati da un ampio numero di fonti ufficiali. Per citare un documento reso pubblico da WikiLeaks e connesso al clan Masud, Ahmad Diya Masud (fratello di Ahmad Shah Masud) è entrato negli Emirati Arabi Uniti con «52 milioni di dollari» in contanti, vedendosi accordare dalle autorità locali la facoltà di non dover fornire dettagli «sulla provenienza o la destinazione di tale denaro».
Per quanto concerne il «grande alleato strategico di Washington» nella regione (l’Arabia saudita), sin dai tempi della brutale, per alcuni «genocidaria», invasione sovietica dell’Afghanistan, Riyad ha rappresentato il principale finanziatore regionale dei mujaheddin – molti dei quali venuti per liberare la «nazione musulmana dell’Afghanistan» dai «comunisti e atei» invasori sovietici – e di una serie di gruppi poi confluiti nel movimento talebano.

Stando a un dispaccio redatto il 30 dicembre 2009 dall’allora segretaria di Stato Usa Hillary Clinton, «i donatori presenti in Arabia saudita rappresentano a livello mondiale la più significativa fonte di finanziamento dei gruppi terroristici sunniti. L’Arabia saudita resta una fondamentale risorsa di sostegno finanziario per Al Qaeda , i Talebani, LeT (Lashkar-e-Taiba) e altri gruppi terroristici».
Sia pur in misura più limitata, un discorso simile vale anche per il Pakistan – Paese, almeno sulla carta, alleato degli Usa nonché rifugio sicuro e primaria fonte di finanziamento per i combattenti talebani – dove il leader di Al Qaeda, Osama bin Laden (ucciso ad Abbottabad nel maggio 2011) fuggì insieme ai suoi più fedeli seguaci nel dicembre 2001.
Tale fuga avvenne nei giorni in cui il portavoce dei talebani annunciò una resa incondizionata e appena due mesi dopo la proposta dei talebani di consegnare Bin Laden: entrambe le offerte vennero respinte dall’allora presidente George W. Bush e dal suo segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld.

Ahmad Massoud, AP

DA UNA PROSPETTIVA STORICA, Al-Qaeda ha dunque molto più a che vedere con fondi e politiche legate ai tre paesi citati – oltre al fatto che 15 dei 19 terroristi implicati negli attentati dell’11 settembre erano cittadini sauditi – piuttosto che con l’Afghanistan o qualsiasi altro paese della regione.
Cui prodest? Negli ultimi due decenni gli Stati uniti hanno investito oltre 2 trilioni di dollari, larga parte dei quali al fine di addestrare ed equipaggiare una forza militare afghana. Quest’ultimo si è sciolto come neve al sole nell’arco di appena una settimana. La ragione è riconducibile alla natura stessa della guerra in Afghanistan (e in Iraq). Essa non ha infatti mai avuto tra i suoi principali obiettivi l’addestramento militare, né tanto meno la «promozione della democrazia».

Il motore trainante di questi ultimi due decenni va invece rintracciato in valutazioni di carattere storico e geostrategico – le prime radicate negli anni Settanta, le seconde connesse all’accesso alle risorse energetiche e a molto altro – nonché negli enormi profitti connessi al comparto Difesa, che, nei soli Stati uniti, è passato da 305 a 754 miliardi di dollari di budget tra il 2001 e il 2021.
Più nello specifico, è stato stimato che circa l’80-90% degli investimenti di Washington in Afghanistan è rientrato negli Stati uniti tramite contratti stipulati con una miriade di compagnie private. In questo senso, Lockeed Martin (che produceostruttrice tra l’altro di elicotteri Black Hawk, F-35 Stealth e lanciarazzi MLRS) e le altre quattro principali società abitualmente citate (Boeing, Raytheon, Northrop Grumman and General Dynamics) andrebbero intese come la punta di un iceberg assai più ampio.

Ciò ha avuto un costo umano enorme per milioni di afghani (metà della popolazione ha meno di 19 anni). Qui basti accennare al fatto che, stando a dati forniti dal dipartimento di Stato degli Stati uniti, tra il 2001 e il 2014 gli attentati terroristici sono aumentati del 3800%, passando da 355 nel 2001 a 13.500 nel 2014: circa la metà di essi sono avvenuti in Afghanistan e in Iraq. A ciò si aggiunga che, stando ai dati forniti dal Bureau of Investigative Journalism, nei 5 anni successivi (2015-2020) Washington ha lanciato oltre 13.000 attacchi con droni: hanno causato la morte di circa 10.000 afghani, compresi numerosi civili.

LE RADICI IDEOLOGICHE del movimento talebano sono storicamente riconducibili all’India coloniale e precisamente al 1867 (dieci anni dopo la “rivolta dei Sepoy”, la rivolta nazionalista indiana in chiave anti-britannica), quando il neonato movimento Deobandi diede forma a un movimento anticoloniale progettato per «rivitalizzare l’Islam».
Quanto all’Afghanistan, che in epoca moderna ospitava alcuni dei centri urbani più avanzati e cosmopoliti del mondo, è stato a lungo considerata dalla Gran Bretagna come una sorta di “stato cuscinetto” funzionale all’obiettivo di limitare l’espansione russa in Asia centrale. Un significativo esempio legato a questo tipo di approcci è ravvisabile nella cosiddetta «Linea Durand», tracciata da Londra in Afghanistan nel 1893: un confine, da sempre controverso, che ancora oggi spiega il motivo per il quale gli afghani chiamano «Pashtunistan» la parte occidentale del Pakistan.

Tra l’epoca di Durand e l’invasione sovietica del 1979/89 – quando gli Stati uniti (insieme a Pakistan, Gran Bretagna e Arabia saudita) finanziarono e armarono i mujaheddin arabi poi confluiti nel movimento dei talebani – l’Afghanistan ha acquisito gran parte delle sue attuali caratteristiche. È stato dimostrato che anche i libri di testo utilizzati in Afghanistan (dai talebani stessi) negli anni Ottanta furono prodotti (in pashto e in dari) e finanziati dalla Cia.

MOLTI OSSERVATORI ESTERNI alla regione, in particolare in Europa e negli Stati uniti, tendono a trascurare questo retroterra, approcciando il drammatico presente dell’Afghanistan come fosse qualcosa che appartiene a popoli largamente avulsi dalla “nostra” storia, passata e presente. È necessario superare questa segregante interpretazione che divide la “nostra storia” dalla “loro storia”, aprendo la strada a un approccio più umile verso i popoli della regione e il loro carico di sofferenza.

Gli “stati occidentali”, fatti salvi pochi casi isolati, non stanno aiutando gli afghani, né lo hanno fatto in passato: le politiche di questi stessi paesi vanno al contrario annoverate tra le ragioni strutturali che hanno condannato milioni di esseri umani ad affrontare decenni di guerre, umiliazioni e violenze.
Eppure, come ci ha insegnato più volte la storia, ciò che inizia in Afghanistan non rimane in Afghanistan.