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da "il Manifesto" del 23 aprile 2022

Nella guerra delle bandiere che si annuncia per le manifestazioni del 25 aprile, vorrei che una, su tutte, colorasse quei cortei, ed è la bandiera multicolore della Pace. Perché quello era il vero valore, e il vero obiettivo, di chi combatté la «guerra di liberazione»: la fine della guerra. La fine di tutte le guerre. La condanna della guerra, come male non riparabile. E la ricerca della pace, come principio di civiltà contrapposto alla barbarie di ogni ideologia della morte.

Di cui il fascismo era (e portava sulle proprie divise) l’emblema. Per questo credo che non ci sia modo peggiore di celebrare il 25 aprile (di tradirne nell’essenza lo spirito) che sull’onda di questo accanimento, reiterato e prolungato oltre ogni limite, nell’aggressione alla principale associazione partigiana italiana, l’Anpi. Una polemica spesso volgare (penso a quell’irridente trasformazione della sua sigla in “Associazione nazionale putiniani d’Italia”), altre volte maligna, condotta contrapponendo anziani resistenti ad altri, e falsificante delle posizioni, quasi che fosse stata espressa un’equidistanza tra aggressori ed aggrediti che non emerge da nessuna presa di posizione ufficiale, anzi.

Il 24 febbraio la Segreteria nazionale dell’Anpi aveva diffuso un comunicato di ferma condanna dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa: «È un atto di guerra che nega il principio dell’autodeterminazione dei popoli, fa precipitare l’Europa sull’orlo di un conflitto globale, impone una logica imperiale che contrasta col nuovo mondo multipolare, porta lutti e devastazioni», vi si diceva, in termini che non possono in nessun modo prestarsi a equivoci.

 Nello stesso comunicato si aggiungeva l’auspicio che «non si avvii una ulteriore escalation militare come reazione all’invasione, che si lavori per l’immediato cessate il fuoco riaprendo un canale diplomatico, che l’Italia rimanga fuori da ogni operazione bellica nel pieno rispetto dell’art. 11 della Costituzione», ed è stata questa «sfumatura», unita al rifiuto di aderire alla pressante campagna per l’ «invio di armi» all’Ucraina, a scatenare gli odiatori.

Ora, sull’invio di armi «al popolo ucraino» si possono avere legittimamente posizioni diverse, e infatti il «popolo della sinistra» italiano si è diviso. Fanno parte dei «dilemmi mortali» che lacerano ognuno di noi di fronte a questa maledetta guerra, spaccati tra paura e impotenza, indignazione e frustrazione, solidarietà e responsabilità. Quello che non si può legittimamente fare, è negare le ragioni di chi a quella opzione «militare» rimane contrario. O quantomeno perplesso. E liquidarlo come «amico del nemico».

 Quelle ragioni sono solide, non certo accusabili di pregiudizio ideologico o di ambiguità, e vale la pena considerarle nella loro articolazione. In primo luogo quello che costituisce un principio primo di ogni pensiero pacifista orientato alla nonviolenza: l’affermazione che «le armi non costituiscono mai la soluzione, fanno parte del problema». Concetto che, se applicato allo scenario ucraino, si declina nella considerazione di buon senso secondo cui  più armi entrano in campo, più vittime (soprattutto civili) si conteranno. È comprensibile che per chi, aggredito, si trovi a doversi difendere, l’arma appaia il primo strumento a cui pensare. Ma noi sappiamo, o dovremmo quantomeno rifletterci, che se è vero che ogni giorno in più che dura la guerra si misura la forza della «resistenza ucraina» è anche vero che ogni giorno che passa vuol dire vittime innocenti, distruzione e morte di massa. Non è una «passione triste» questo stile di pensiero: è un modo (forse poco eroico, ma certamente umano) per tentare di cogliere le ragioni della vita contro quelle della morte.

Vogliamo aggiungere, a questa, la considerazione – a mio avviso decisiva – secondo cui ogni giorno in più di guerra aumenta il rischio non solo che essa s’incrudelisca (come abbiamo visto in questi due mesi) ma che salga di grado, e di scala. Che si estenda e contagi il contesto, in uno scenario in cui l’esplodere di un conflitto mondiale (che sullo sfondo significherebbe un conflitto atomico) diventa un rischio reale, di cui non si può non tener conto. Vale, al proposito, un precedente – mi rendo conto opinabile – cioè la guerra civile spagnola e la posizione che allora assunsero le «potenze democratiche», in primo luogo la Francia del socialista Leon Blum, che rifiutarono di fornire armi alla repubblica spagnola aggredita, (contrariamente alle fasciste Italia e Germania che armarono il golpista Franco) con la preoccupazione di non innescare un conflitto mondiale. Allora, una figura straordinaria come Simone Weil, che pure in Spagna era andata a combattere – in Aragona, con Durruti approverà la politica di «non-intervento» francese, con questa motivazione: «Perché? Perché l’intervento, invece di ristabilire l’ordine in Spagna, avrebbe messo a ferro e fuoco tutta l’Europa».

Quattro anni più tardi, quando l’Europa verrà messa a ferro e fuoco dai fascismi, Simone si arruolerà nella Resistenza, ma quell’argomento, del 1936, rimarrà pur sempre valido, come espressione di un pensiero che si misura non solo sull’«etica dei principi» ma anche su quella «della responsabilità». Non solo sui valori morali, ma anche sulle conseguenze pratiche delle proprie azioni. Scontando, drammaticamente, anche il prezzo da pagare: «Se noi abbiamo accettato di sacrificare i minatori delle Asturie – è la successiva sua riflessione -, i contadini affamati di Aragona e di Castiglia, gli operai libertari di Barcellona piuttosto di scatenare una guerra mondiale, nient’altro al mondo deve portarci a scatenare la guerra. Niente, né l’Alsazia Lorena, né le colonie, né i trattati». Vorrei che su queste righe – su questo pensiero tragico e umanissimo, agli antipodi di ogni nazionalismo – ci si soffermasse, nella preparazione spirituale alla “Festa della liberazione”, per non tradirne l’anima.

Marco Revelli