Sulla frontiera europea c’è un paese che coltiva esplicite aspirazioni neo-imperiali, invadendo i propri vicini, e che negli ultimi anni ha vissuto una drammatica involuzione autoritaria. Questo paese è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, con una presenza militare ben radicata in tutto il Mediterraneo, per non parlare del Caucaso. Silurata ogni forma di dialogo con i curdi, rinchiuso in carcere il popolare leader del partito Hdp Demirtas, Ankara si è prodigata in questi anni per ritagliarsi una propria fascia di sicurezza in territorio siriano.
DAL 2016, ANNO di insediamento di Donald Trump, i carri armati turchi per tre distinte volte hanno passato il confine siriano, avanzando sempre di più nel Rojava, occupando territori dove le strutture di autogoverno costruite dal confederalismo democratico curdo hanno combattuto e sconfitto i miliziani Isis. L’obiettivo, ancora oggi, è spazzare via i curdi in una fascia di Siria profonda 30 km, nella quale peraltro si trovano campi di detenzione dei ‘soldati del Califfato’ e delle loro famiglie. A questo obiettivo strategico si riferiscono, in questi giorni, le dichiarazioni della diplomazia turca circa una nuova operazione militare oltre confine, una quarta invasione per la quale Ankara ritiene di non dover chiedere il permesso a nessuno.
OLTRE A continuare a depredare i raccolti, reindirizzando i prodotti di questi fertili territori verso i nostri mercati, l’obiettivo dell’occupazione turca, sbandierata come operazione antiterrorismo nel nome della sicurezza nazionale, è procedere a ingegneria etnica del territorio, creando le condizioni di fatto che portino alla sostituzione della popolazione autoctona, in maggioranza curda, con altri siriani rifugiati di cui liberarsi.
DI CERTO c’è che la Turchia in questi anni ha potuto contare su una certa condiscendenza di Washington, ma anche di Mosca (come dimenticare come Mosca ritirò last-minute le proprie truppe consentendo la conquista del cantone di Afrin?) e degli altri governi della regione, a partire da quello di Baghdad e quello curdo-iracheno di Erbil, espressione di un notabilato etnocratico che si sente minacciato da un progetto di radicale ripensamento della democrazia e della società. Significativamente, a partire da marzo, dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, l’azione militare turca oltre confine si è notevolmente intensificata, con una serie di pesanti bombardamenti sulle montagne del Kurdistan iracheno.
BOMBE SOSTANZIALMENTE volte a spezzare le reti di solidarietà transfrontaliere. Nel silenzio dei governi della regione numerose testimonianze documentano attacchi sempre più frequenti e indiscriminati, che nelle ultime settimane hanno investito pesantemente attivisti curdi a Kobane e dintorni.
LA CRISI IN UCRAINA gioca in favore di Erdogan nelle partite di stretto e immediato interesse, sullo sfondo dell’apprensione circa l’esito dell’elezione presidenziale turca, prevista il prossimo anno. Quest’ultima preoccupa l’autocrate neo-ottomano, considerate le difficoltà della moneta, la spinta inflattiva e le sconfitte elettorali registrate nelle principali città, Istanbul e Ankara incluse. Sul versante della guerra in Ucraina abbiamo visto la Turchia – fino a prova contraria il secondo esercito della Nato – recitare diversi copioni, da cliente di sistemi d’arma russi alla fornitura di droni da combattimento a Kyiv, fino ai buoni uffici della diplomazia nell’ospitare negoziati faccia a faccia fra russi e ucraini. Da ultimo, dopo aver lasciato passare per Bosforo e Dardanelli navi-cargo russe cariche di grano ucraino trafugato e caricato nel porto di Sebastopoli, oggi vediamo i turchi offrirsi a facilitare l’apertura di una via d’uscita del grano ucraino dai porti.
IL PROTAGONISMO turco nel dossier della guerra in Ucraina va dunque letto come un tentativo di Erdogan di giocare l’anticipo e forzare la mano in vista di un recupero di consensi domestici. Così, nel momento in cui la Nato si riprende dal trauma dell’era-Trump e si appresta a incorporare Finlandia e Svezia all’imminente summit di Madrid, vediamo Erdogan minacciare sfrontatamente il veto, qualora le democrazie nordiche, come ha tuonato il ministero degli esteri turco, non riscrivano le proprie leggi, quelle leggi in base alle quali viene data ospitalità, voce e riconoscimento, ad attivisti curdi e fuoriusciti gulenisti.
A CONSACRARE la propria immagine di specchiata democrazia efficiente ed efficace nel combattere il terrore, qualche giorno fa la Turchia ha annunciato di aver arrestato il nuovo leader dell’Isis, stanato in un appartamento di Istanbul. Così, a dispetto di una lunga e documentata storia di manipolazione e tolleranza delle forze jihadiste, ampiamente ricondizionate nelle formazioni armate filo-turche che, spesso sparandosi fra loro, si rendono protagoniste delle vessazioni nei territori occupati della Siria, Ankara conquista credito oggi agli occhi di alcuni osservatori occidentali di marca realista.
«BISOGNA ANDARE in guerra con la Turchia che c’è, non con quella che si vorrebbe» – scrivono gli apologeti, che chiedono all’Occidente di comprendere e far proprie le «legittime preoccupazioni di Ankara in materia di sicurezza». Un po’ come quando il premier Draghi, davanti all’umiliazione di protocollo riservata alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen durante una visita ad Ankara, parlò di dittatori con cui occorre essere franchi, ma di cui le democrazie hanno altrettanto francamente bisogno. Tra Ucraina e Siria l’erdoganesimo si gioca oggi la propria sopravvivenza, e intende farlo – potevamo aspettarci diversamente? – a partire dalla vita del popolo curdo e dell’idea radicale e partecipata di democrazia che ha saputo costruire nel momento più buio.
ANCORA una volta la difesa della democrazia nel mondo nordico, così come in Europa e in Medio Oriente, passa anche per il destino e la lotta dei curdi. Il ricatto di Erdogan cerca una blindatura autoritaria sotto l’occhio indulgente dell’Occidente in guerra, e solo la democrazia può sconfiggerlo.