LA LEGGE ELETTORALE. Fdi, Lega e Forza Italia compatti puntano a fare il pieno nei collegi uninominali
In un seggio - Aleandro Biagianti
Per capire perché la destra guarda alle elezioni con tanto ottimismo non serve prendere i sondaggi, quanto dare un’occhiata a come funziona la legge elettorale, il famigerato Rosatellum approvato in coda alla scorsa legislatura e che, dopo la tornata del 2018, si ripropone aggravato dal taglio dei parlamentari. Due terzi dei seggi (244 alla Camera e 122 al Senato) vengono assegnati in maniera proporzionale, con soglia di sbarramento al 3% per le liste e al 10% per le coalizioni. Il resto (148 alla Camera e 74 al Senato) si attribuisce con i collegi uninominali: passa chi arriva primo. Gli ultimi posti (8 alla Camera e 4 al Senato) spettano agli eletti nella circoscrizione estero.
Sin dalla sua promulgazione, è subito parso chiaro a tutti che il Rosatellum tende ad avvantaggiare le coalizioni: se nel 2018 non è accaduto fu solo perché il M5S vinse un gran numero di collegi uninominali nelle regioni del centro e del sud, compensando il pieno che fece il centrodestra al nord. In questo meccanismo, a rimanere schiacciato fu il centrosinistra, capace di imporsi solo in alcune zone della Toscana e dell’Emilia Romagna. La situazione che si andò a determinare in parlamento fu così complicata che per riuscire a fare una maggioranza (la prima, quella che vedeva come protagonisti la Lega e 5S) si resero necessari quasi tre mesi, per un governo che di mesi ne durò in tutto quindici.
Adesso, con la destra che si presenterà unita alle urne, un centrosinistra diviso in due (o in tre) non sarebbe competitivo praticamente in nessun collegio, spianando di fatto la strada a un trionfo pressoché epocale della coalizione di Meloni, Salvini e Berlusconi, che avrebbe buonissime probabilità di prendere la maggioranza assoluta in entrambi i rami del parlamento. L’idea del campo largo di Letta, più che da presupposti politici, nasce dalla banale osservazione della legge elettorale: solo mettendo insieme chi mai vorrebbe farlo (Azione e Italia Viva con M5S e sinistra) la partita si aprirebbe a risultati diversi dalla sconfitta. La fine del governo Draghi, però, sembrerebbe aver portato via con sé anche l’ipotesi che una coalizione del genere possa prendere vita e da qui alle prossime settimane, quando magari i bollori dell’immediato post crisi si saranno attenuati, Letta dovrà trovare una quadra. L’alternativa è del tutto evidente: qualsiasi coalizione con dentro il Pd, in sede di conteggio maggioritario, sarebbe fatalmente azzoppata sia dalla presenza di un raggruppamento centrista sia da una candidatura targata 5 Stelle.
Da considerare, poi, le variabili di stampo locale: il Svp, avvantaggiato dalla parte della legge che garantisce rappresentanza al Senato anche alle liste che superano il 20% su base regionale, strapperà probabilmente seggi, così come è facile ipotizzare che Iv raccoglierà in Toscana percentuali migliori che altrove. In assenza di accordi politici, però, questi sono ragionamenti astratti che nulla aggiungono né nulla tolgono al pantano da cui dovrà uscire il centrosinistra.
Dopo le elezioni, comunque vada, si porrà il problema della governabilità: meno parlamentari non significa solo meno eletti, ma anche numeri più piccoli per formare una maggioranza e, di conseguenza, un potere di trattativa e di condizionamento superiori per i gruppi meno numerosi. In altre parole, per provare a governare e a farlo bene, la destra non dovrebbe vincere ma stravincere, ipotesi percorribile solo se le altre forze non riusciranno a trovare un accordo e si presenteranno divise alle urne. Tutte le altre possibilità, così come testimoniato dal gran numero di simulazioni e di scenari che gli istituti di ricerca stanno già producendo, porterebbero a una situazione instabile, senza maggioranze o con maggioranze dai margini strettissimi. È la scommessa che, soprattutto dalle parti dei centristi, qualcuno sta già facendo: la palude, in fondo, è un habitat già noto ai più.