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REGIONALI. Una volta qui era tutto campo largo. Ci saranno, ognuno per conto proprio, Europa Verde, Sinistra civica ecologista e i «progressisti per Conte»

Nel Lazio i rossoverdi si dividono in tre Alessio D'Amato - Ansa

La Regione Lazio va verso il voto. Presentata la candidatura delle destra, nella persona del presidente della Croce rossa Francesco Rocca, il quadro che va componendosi tra i suoi oppositori rappresenta ancora la divisione che si è data sul piano nazionale alle scorse elezioni politiche: il centrosinistra di Alessio D’Amato da una parte (alleato col Terzo polo) e il Movimento 5 Stelle dall’altra. Per di più, ci saranno tre liste che rivendicano la loro identità «rossoverde».

Una è quella dei Verdi Europei, che a differenza dello scorso 25 settembre non si presentano con Sinistra italiana. Il co-portavoce Angelo Bonelli ha da tempo annunciato che avrebbe sostenuto D’Amato: i suoi probabilmente comporranno la lista assieme agli esponenti di Possibile.
Ed eccoci alla seconda lista rossoverde: con D’Amato andrà anche Sinistra civica ed ecologista che a capo all’europarlamentare indipendente dei Socialisti & Democratici (oltre che a lungo vice di Zingaretti in Regione) Massimiliano Smeriglio. Sce è il soggetto che più di ogni altro ha provato a ricucire il campo largo che da due anni già amministra la Regione, invano. Alla fine, dopo aver esplorato in diverse formule quantomeno la creazione di un soggetto rossoverde più unitario possibile, ha scelto di sostenere l’ex assessore alla sanità. «Siamo soddisfatti della scelta di D’Amato di porre come primo punto di programma il reddito a 800 euro al mese per i giovani dai 15 ai 34 anni che sono fuori dal mercato del lavoro e dai circuiti formativi – spiega Claudio Marotta – Abbiamo scelto di andare in continuità con la stragrande maggioranza delle forze che hanno sostenuto Zingaretti e con le forze che sostengono Gualtieri a Roma, per coerenza rispetto alla nostra storia». Proprio l’allineamento tra Roma e il Lazio è uno dei temi che ha tenuto banco in queste settimane. L’accelerazione di Gualtieri sul termovalorizzatore, in controtendenza anche rispetto al Piano regionale rifiuti definito dalla giunta Zingaretti, rischia di divenire un segnale più generale, come hanno fatto intendere sia la Cgil del Lazio che l’Arci di Roma.

Infine, c’è la lista, anch’essa rossoverde, che fa capo al Coordinamento 2050 costituito tra gli altri dagli ex parlamentari di Leu Stefano Fassina e Loredana De Petris e che andrà in coalizione con il Movimento 5 Stelle. Di questa compagine dovrebbero far parte anche gli esponenti di Sinistra italiana nel Lazio, che non avranno a disposizione il simbolo del partito di Nicola Fratoianni ma in questa occasione hanno scelto di sostenere l’esperimento del «fronte progressista» di Giuseppe Conte. «Nei prossimi giorni – annuncia Paolo Cento anche lui ex parlamentare verde che fa parte del Coordinamento 2050 – daremo vita a cinque assemblee aperte in ognuno dei cinque capoluoghi di provincia». Da qui partirà il processo di formazione della lista, il cui nome è ancora in fase di definizione.

Soprattutto, è in fase di definizione il nome del candidato presidente del M5S e dei suoi alleati. Nei giorni scorsi sono venuti fuori quelli dell’attrice Sabrina Ferilli (che presenta un profilo de sinistra pciista e una simpatia recente per Virginia Raggi) e dell’ex ministro dell’ambiente e segretario dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio (che da tempi non sospetti ha individuato il 5 Stelle come interlocutori privilegiati). Il dossier è sul tavolo di Conte, che sta lavorando all’identikit di un candidato civico di area progressista che dovrebbe essere privo di un percorso politico strutturato. Al momento è meno probabile che punti su un esponente dei 5 Stelle

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SISTEMATI PER LE FESTE. Testo rispedito in commissione per 44 correzioni. Deputati imbavagliati per fare in fretta

Alla prima manovra la destra sbanda. Stasera la fiducia Camera dei deputati - Ansa

La manovra arranca e per procedere il presidente della commissione Bilancio Giuseppe Mangialavori imbavaglia il Parlamento tagliando il tempo degli interventi dei deputati. Le opposizioni scelgono di disertare il voto. La maggioranza fa tutto da sola e in serata la manovra arriva finalmente al momento chiave della richiesta di fiducia. Sarà votata stasera dalle 20.30 e domani arriverà l’approvazione del testo, riveduto e corretto per tappare i buchi apertisi un po’ ovunque anche all’ultimo momento. Era già successo in passato più volte, anche l’anno scorso, ricorda la sottosegretaria all’Economia Lucia Albano ed è vero. Però mai in maniera tanto scomposta e sgangherata.
QUARANTAQUATTRO emendamenti in fila per sei, col resto di due. Tante sono le modifiche alla manovra sulle quali

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VERSO IL CONGRESSO. Cronaca semiseria di una riunione di famiglia al Nazareno, ospiti i tre candidati leader. Bonaccini gioca in casa: «Siamo riformisti, surreale tornare alla lotta tra capitale e lavoro». Picierno sarà la sua vice: no alle abiure. Schlein rassicura: non sono qui per sostituire qualcuno

Nel Natale in casa Pd i parenti litigano sul conflitto di classe Elly Schlein e Paola De Micheli - LaPresse

Il Natale in casa Pd si celebra nella grande sala del Nazareno, dove i parenti-serpenti tentano di mettere in scena una mattinata conviviale. L’invito è arrivato dal “gruppo del Lingotto”, una pattuglia di fan del Pd delle origini, quello di Veltroni e della vocazione maggioritaria (tra loro Roberto Morassut, Walter Verini e Stefano Ceccanti).

All’invito di questa pattuglia di parenti assortiti che tenta di tenere insieme i cocci della famiglia hanno risposto il cugino di provincia ruvido e arrembante Bonaccini, la zia Paola De Micheli ed Elly Schlein nella parte della cognata che arriva dall’estero (è nata in Svizzera) e rischia di scombinare tutti i piani. Collegato da casa per una improvvisa influenza il patriarca Enrico Letta che, pur ancora giovane, è nei panni del vecchio saggio di cui tutti vorrebbero liberarsi al più presto.

I PARENTI CERCANO in ogni modo di lustrare i gioielli di famiglia, l’Ulivo, il Lingotto del 2007, guai a buttare il bambino con l’acqua sporca, «una riedizione della sinistra Ds sarebbe un errore storico», tuona Marianna Madia nei panni della cugina sempre giovane e upper class. «Mica possiamo cancellare il jobs act in nome di tutele astratte che non sono più nella realtà o rievocare il conflitto di classe. Noi dobbiamo parlare al ceto medio!». Non sia mai.

Nel mirino ci sono i parenti comunisti, come Andrea Orlando, che nelle riunioni del comitato per il nuovo manifesto hanno osato criticare la «deriva liberista». Orrore. «Sono stati 15 anni straordinari», si scalda Pina Picierno. «No alle abiure, nessuna delle ragioni fondative del partito è venuta meno».

Da Trento si collega Giorgio Tonini, uno degli ideologi di Veltroni. «Le radici non si toccano». Verini lo prende in giro: «Sembri Mauro Corona». Debora Serracchiani, che era nata ribelle ai tempi del Franceschini segretario, si è fatta più concreta: «Mica possiamo pensare di cambiare la classe dirigente, dobbiamo fare i conti con quello che siamo…». È pronta per un nuovo giro di giostra.

BONACCINI SI COLLEGA dalla periferia di Bologna, vicino alla sede delle moto Ducati. «Sento riproporre contrapposizioni tra capitale e lavoro come se fossimo agli inizi del 900, è surreale: poi con chi le facciamo le politiche industriali?». S’ode il rombo delle moto, l’Emilia che produce, e il governatore suona i suoi cavalli di battaglia, il «valore sociale dell’impresa», il «riformismo», la «cultura di governo».

«Avverto pulsioni a cambiamenti regressivi per un ritorno alle casematte precedenti. Le contrasterò, sarebbe la fine del Pd, ci porterebbe su binari minoritari. È già successo altrove in Europa, il rischio c’è anche qui». Arriva il piatto forte: «Dobbiamo tornare a fare il Pd con la vocazione maggioritaria». Sospiri di sollievo.

Il rischio invece è una separazione tra riformisti e radicali, reso ancor più plastico dal recente annuncio di Pierluigi Castagnetti («Se il Pd cambia natura i cattolici se ne vanno») e dalla esplosiva intervista di ieri a Repubblica di Arturo Parisi, che ha accusato Letta e Franceschini di voler rifare il Pci.

Se Bonaccini è in totale sintonia con il sinedrio dei promotori, la cognata Schlein cammina sulle uova: «Tutte le culture fondative devono interrogarsi sui cambiamenti che abbiamo vissuto in questi anni». E ancora: «Questa comunità va tenuta insieme, ma serve una visione chiara, la coerenza di un profilo netto»!. Brividi nella sala. «C’è un modello di sviluppo che non funziona più, che crea disuguaglianze e distrugge il pianeta, anche il Papa nella sua enciclica “Laudato si’” parla del grido dei poveri e della terra».

La citazione di Francesco è come un passepartout per rassicurare la platea, pare suggerito dal neo coordinatore della mozione Francesco Boccia, cattolico. «Fuori il mondo è cambiato, dobbiamo cambiare anche noi», insiste Schlein. «Io sono nativa democratica, non sono qui per sostituire qualcuno, ma per rinnovare insieme il Pd, non sono un outsider». «È brava ehhhh», gongola Boccia col suo vicino di sedia. De Micheli insiste sugli iscritti: «Devono contare di più, finora non è stato così».

LETTA ARRIVA PER ULTIMO, la voce claudicante per la febbre, rilancia «l’orgoglio e la centralità del Pd nonostante le difficoltà», ribadisce che «chi verrà dopo di me saprà fare meglio», prova a rassicurare gli altri decani che la vecchia casa di famiglia non è in vendita: «È stata fatta una caricatura della discussione nel comitato costituente, ma in questi 15 anni sono successe cose enormi, il clima, le diseguaglianze, il ruolo della tecnologia. Non c’è nulla di male nell’aggiornare il nostro manifesto dei valori e la costituente andrà avanti anche dopo le primarie, cambieremo anche lo statuto».

Alla fine i promotori si fregano le mani: «Abbiamo sventato i rischi, non ci sarà nessun cambio del manifesto prima delle primarie di febbraio, i lavori del comitato saranno solo un contributo». «Abbiamo difeso i principi originari del Pd», assicura Verini. Circola una battuta: «Il candidato leader ideale sarebbe Veltroni».

In realtà l’assemblea costituente, il 22 gennaio, dovrebbe votare il nuovo manifesto. Per l’occasione sarà allargata da 1000 a 1200 componenti in rappresentanza di chi si è unito solo negli ultimi mesi, come le sardine e Articolo 1. Al Nazareno ritengono che le primarie resteranno il 19 febbraio, anche se Matteo Ricci e De Micheli insistono per un anticipo a gennaio.

Nel Natale in casa Pd tutti pensano che, in un modo o nell’altro, saranno loro ad averla vinta. Intanto Picierno sembra in pole position per un ruolo di primo piano nella squadra di Bonaccini. Sarà la sua vice, o forse la portavoce. Comunque in prima linea

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CRISI UCRAINA. È il primo viaggio del presidente ucraino dall’inizio della guerra. Soft power americano tra batterie terra-aria e copertura mediatica. Visita e rifornimenti serviti per togliere ogni dubbio sul sostegno Usa alla causa ucraina

Zelensky in mimetica alla Casa Bianca per prendere i Patriot L'arrivo alla Casa bianca, accolto da Joe Biden, del presidente ucraino Volodymyr Zelensky - Ap/Patrick Semansky

Il presidente ucraino Zelensky è atterrato ieri a Washington per incontrare il presidente americano Biden e, in serata, tenere un discorso a una sessione congiunta del Congresso. Con questo viaggio Zelensky ha coronato due giorni straordinari, che lo hanno visto spostarsi dal punto in Ucraina dove il fronte di guerra è più violento, alla capitale del suo alleato più potente, per una forte dimostrazione di solidarietà.

Il viaggio del leader ucraino si è svolto nei più rigidi parametri di sicurezza: in treno fino in Polonia, da dove è partito, dall’aeroporto di Rzeszow, e poi su un aereo scortato da un jet militare americano.

MENTRE ZELENSKY viaggiava, Washington DC si preparava ad accoglierlo in un crescendo di livelli di sicurezza per i target sensibili (palazzi governativi, ambasciate) e con i servizi segreti che bloccavano la strada pedonale davanti alla Casa Bianca. Le bandiere ucraine sono state messe accanto a quelle americane in diversi luoghi iconici di Washington, e lungo i viali di fronte a Capitol Hill come nei pressi della Casa Bianca.

Apparato di sicurezza, accoglienza, dichiarazioni, incontri e copertura mediatica sono stati messi in campo per un incontro senza sorprese che ha segnato una stretta di mano già avvenuta, su un accordo già preso, quello sull’ulteriore aiuto militare Usa all’Ucraina. Un pacchetto di quasi 2 miliardi di dollari che comprende l’invio dei primi missili Patriot.

Già l’acronimo, Patriot, che sta per Phased Array TRacking to Intercept Of Target, é tutto un programma. L’idea era nata nel 1964 con il sistema di difesa aria-aria “Surface-to-Air Missile, Development” (SAM-D), rinominato nel 1976 “Sistema di Difesa Aerea PATRIOT”, che combinava nuove tecnologie per la difesa anti aerea, poi nel 1988, nel primo di tanti aggiornamenti, furono impiegati per l’intercettazione di alcuni tipi di missile balistico tattico. Ora gli attuali MIM-104 Patriot sono un sistema missilistico terra-aria che è stato già impiegato nella prima guerra del Golfo contro i missili Scud iracheni.

Il “Patriot System” è una batteria mobile servita da 80-90 soldati (che andranno addestrati, in Germania). I missili partono da una stazione di lancio che può gestire fino a 4 missili PAC-2, della portata di 160 chilometri, oppure 16 nuovi PAC-3 da 40 chilometri che assicurano maggiore precisione.

L’INVIO DEI PATRIOT marca una differenza che cambia l’intera narrativa. Ora il piccolo paese attaccato non è più quello militarmente più raffazzonato, ma quello che possiede le tecnologie migliori e più potenti per rispondere ad un’aggressione.

Abbiamo visto come proprio l’utilizzo dei due sistemi NASAMS, con il loro 100% di intercettazione, hanno contribuito a limitare i danni del bombardamento russo del 17 novembre, ora i Patriot rafforzeranno quest’opera di respingimento, dando potenzialmente il via ad una infinita situazione di stallo, dove la superpotenza Russia continuerà ad attaccare la piccola Ucraina, armata fino ai denti dagli alleati occidentali.

Questo passo per gli Usa significa comunque una grande operazione di soft power, del caro vecchio soft power bellico novecentesco con cui Biden è cresciuto e che conosce benissimo. Gli Usa, dopo l’uragano Trump, la pandemia, una crisi economica che fa sempre capolino, nuove superpotenze che sgomitano per prendere più spazio, si ripresentano al mondo come i paladini della causa giusta per antonomasia, quella fra Davide e Golia, rinforzando la fionda di Davide con i più potenti missili terra aria disponibili sulla piazza.

A QUESTO È SERVITO l’incontro a Washington, e a spazzare i dubbi che stavano insorgendo sull’affievolirsi dell’appoggio statunitense all’Ucraina. Il sostegno all’Ucraina è anche uno dei pochi temi su cui Biden può contare su un sostegno bipartisan.

Si era capito anche dal tweet della speaker democratica alla Camera Nancy Pelosi che prima ancora dell’arrivo di Zelensky, aveva scritto: “Aspettatevi molte meritate standing ovation quando Zelensky parlerà stasera al Congresso. Non farebbe questo viaggio se il sostegno negli Stati Uniti fosse diminuito mentre i russi eliminano le fonti energetiche e bombardano le città”

 

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L’UDIENZA DI BERGOGLIO E L’INIZIATIVA DELLA CEI A BARI . Francesco ricorda i bambini sotto le bombe. Nella cattedrale del santo che unisce anche i cristiani ucraini e russi il ricordo di Tonino Bello a 30 anni dalla storica marcia di Sarajevo. Il cardinale Zuppi: «Spingiamo perché sia preparata una conferenza come quella di Helsinki». E il governo manda Rauti

 Papa Francesco durante l’udienza di ieri in Vaticano - Ap

Sarà un Natale di guerra quello che fra qualche giorno si vivrà e si celebrerà anche in Ucraina. Lo ha ricordato ieri mattina papa Francesco, al termine dell’udienza generale del mercoledì in Vaticano, salutando i fedeli in lingua italiana.
«In questa festa di Dio che si fa bambino, pensiamo ai tanti bambini ucraini» che «hanno perso la capacità di sorridere», ha detto il pontefice. «Questi bambini portano su di sé la tragedia di quella guerra che è così inumana, così dura. Pensiamo al popolo ucraino, in questo Natale: senza luce, senza riscaldamento, senza le cose principali per sopravvivere». E dopo l’udienza il papa ha incontrato brevemente la moglie e il figlio di uno soldati dei prigionieri di guerra ucraini che erano rimasti asserragliati nell’acciaieria Azovstal di Mariupol.

L’umanità ha sconfitto il Covid, ma la guerra è un virus più potente, per il quale non sembra esserci antidoto, aveva ricordato Bergoglio qualche giorno fa, illustrando il messaggio per la Giornata mondiale della pace del prossimo primo gennaio: «Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano».

Iniziativa per la pace anche della Cei, ieri sera a Bari, insieme alle chiese e alle comunità ortodosse, nella cattedrale di san Nicola, a cui sono devoti anche i cristiani ucraini e russi. «San Nicola non vuole la violenza e ordina la pace! Non si dica che non ci sono le condizioni! Quelle si trovano! Smettiamo i combattimenti che portano solo alla distruzione! La pace non è un sogno è l’unica via per vivere», ha detto nella sua omelia il cardinale Matteo Zuppi, che ha ricordato il vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi, Tonino Bello, a trent’anni dalla storica marcia per la pace a Sarajevo sotto le bombe dell’11 dicembre 1992.

Se il profeta Isaia invitava a trasformare le spade in vomeri e le lance in falci, oggi «ci sovrasta l’ombra di un minaccioso anti-Isaia, dove sono i vomeri a trasformarsi in spade e le falci in lance», scriveva allora Bello, a proposito della crescente militarizzazione della Puglia. E Zuppi ieri ha rilanciato: «Spingiamo perché sia preparata una conferenza che, come saggiamente avvenne a Helsinki ormai troppi anni fa, possa risolvere tanti conflitti e creare le basi di una convivenza pacifica. Rinnoviamo l’appello perché nei giorni di Natale non si compiano azioni militari» e «non si profani quel giorno», «non ci abituiamo alla guerra».

A Bari c’era anche il governo Meloni, che fra le tante possibili opzioni ha scelto di farsi rappresentare da Isabella Rauti, figlia del fascista Pino fondatore di Ordine nuovo, ma soprattutto sottosegretario al ministero della Difesa guidato dall’ex piazzista di armi Guido Crosetto: il messaggio inviato alla chiesa pacifista è chiaro.

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REGIONALI LOMBARDIA. Della Vedova: «Con i populisti in Lombardia non si vince e non si governa». Majorino però non demorde: «Con +Europa ci sarà ancora un dialogo costruttivo»

Conte dà l’ok a Majorino. Ma +Europa se ne va 

Arriva il sì ufficiale di Giuseppe Conte alla candidatura di Pierfrancesco Majorino alle regionali lombarde. In realtà gli iscritti si erano già pronunciati a favore dell’alleanza col Pd nel voto online della settimana scorsa, ma il capo dei 5S negli ultimi giorni ha chiesto un ulteriore approfondimento dopo la bufera del Qatargate che ha investito il gruppo Pd a Bruxelles (di cui Majorino fa parte).

In sostanza: ha preteso che nelle liste ci sia un vaglio molto rigido dal punto di vista della legalità. «Con Majorino abbiamo condiviso l’esigenza di segnare questo percorso attraverso i principi legati all’etica politica e alla trasparenza», spiega il coordinatore lombardo del M5S Dario Violi. «Sul Qatargate Majorino ha dato dimostrazione nei fatti, con i suoi voti e i suoi emendamenti, di essere totalmente estraneo». «Ho chiesto al candidato di essere garante di questi principi per ciò che concerne tutte le liste che sosterranno la sua candidatura», chiude Violi.

Se entra il M5S, +Europa lascia il centrosinistra. «Cambiare la coalizione è un errore politico ed elettorale a cui +Europa non parteciperà», dice Benedetto della vedova. «Con i populisti in Lombardia non si vince e non si governa». Majorino però non demorde: «Con +Europa ci sarà ancora un dialogo costruttivo».
Due ex consiglieri regionali grillini scelgono invece Letizia Moratti. Si tratta di Roberto Cenci, che ha lasciato da poco il Movimento e di Monica Forte, da tempo nel gruppo misto e presidente della commissione antimafia al Pirellone

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