Vela Celeste, cede un ballatoio, in 15 precipitano dal terzo piano: due vittime, 13 i feriti, centinaia gli sfollati. Nel quartiere napoletano di Scampia si muore per assenza di manutenzione. Il dramma di un rione che dagli anni Settanta ha imparato a doversi salvare da solo
LA FAGLIA DI SCAMPIA. Il ballatoio del terzo piano ha ceduto travolgendo due famiglie: 13 i feriti, tra cui sette minori. Cinque sono in condizioni gravi
Il sopralluogo dei Vigili del fuoco dopo il crollo - foto Ansa
«Ho visto l’inferno». Salvatore, 52 anni, che abita nella Vela Celeste da qualche mese («mi appoggio a mio figlio») è uno di quelli che nella tarda serata di lunedì hanno partecipato ai primi soccorsi delle persone precipitate a causa del crollo di un ballatoio al terzo livello, che ha trascinato quello al secondo e al primo. «A terra – racconta – acqua, ferro, travi. Si sentiva il crepitare dei cavi elettrici spezzati. Una bambina aveva le ossa del bacino deformate e chiedeva del suo papà. Un uomo non dava più segni di vita. Un altro si lamentava per il dolore quando cercavamo di sollevarlo». Ieri mattina si contavano due morti: Roberto Abbruzzo, 28 anni; Margherita Della Ragione, 35. Tre donne sono in codice rosso al Cardarelli. Sette bambine al Santobono: due, di 4 e 7 anni, versano in condizioni estremamente gravi.
Sono precipitate tre passerelle in acciaio, in pessimo stato di manutenzione. Il problema sono proprio queste strutture
VA AVANTI SALVATORE: «Le ambulanze sono arrivate dopo molto tempo». Davanti alla Vela c’è rabbia. L’edificio, che Celeste non è più da un pezzo, è previsto sia l’unico a rimanere in piedi per essere riqualificato, ospitare funzioni pubbliche e istituzionali. Molti chiamano in causa i lavori del comune che erano stati avviati a maggio. «Non si fa con le persone dentro, avrebbero dovuto prima costruire e darci le case lì davanti (indica con la mano) che sono destinate a noi», protesta una donna. «Nel mio appartamento tremava tutto da settimane», incalza. Il cantiere è quello di Restart Scampia e la tabella ora sta
Decine di milioni in 24 ore nelle casse elettorali della vicepresidente, che miete un appoggio dopo l’altro, dai Clinton a Ocasio Cortez. Primo discorso alla Casa bianca per lodare Biden che se ne va. Repubblicani furiosi: «Vogliamo i danni». Di colpo, The Donald è battibile
HARRIS VERSO LA CANDIDATURA . In 24 ore la vicepresidente ottiene il sì di parlamentari e governatori. E un fiume di dollari ricomincia ad affluire nelle sue casse elettorali
La vicepresidente Kamala Harris parla dal South Lawn della Casa Bianca a Washington Ap/Susan Walsh
La decisione di Joe Biden di abbandonare la corsa presidenziale, e sostenere la candidatura della vicepresidente Kamala Harris, è arrivata senza preavviso, e ha lasciato ad Harris pochissimo tempo per ribaltare la sua posizione pubblica, passata da vice del commander in chief a probabile candidata alla presidenza. A poco più di 100 giorni dalle elezioni presidenziali, Harris ha ora il difficile compito di ottenere la nomina ufficiale dei Dem e di conquistare detrattori e indecisi.
LUNEDÌ LA VICEPRESIDENTE ha fatto la sua prima apparizione pubblica dal momento del ritiro di Biden, parlando dal South Lawn della Casa Bianca, nel corso di un evento pubblico già in calendario. Harris non ha commentato la sua corsa, e ha preferito concentrarsi sull’«eredità» dei risultati ottenuti da Joe Biden negli ultimi tre anni. «Non ha eguali nella storia moderna – ha detto Harris – in un solo mandato ha superato l’eredità della maggior parte dei presidenti che hanno servito due mandati. Il nostro presidente combatte per il popolo americano e siamo profondamente grati per il suo servizio alla nostra nazione.
L’eredità e i risultati di Joe Biden sono senza pari nella storia moderna». Lodando «l’onestà e l’integrità» del presidente e dicendosi grata per il suo lavoro Harris ha abbracciato la legacy della sua presidenza, dopo aver scritto su X: «È il primo giorno della nostra campagna, più tardi andrò a Wilmington, nel Delaware, per salutare il nostro staff nel quartier generale. Mancano 105 giorni. Insieme, vinceremo».
Harris, dalla procura di San Francisco alla corsa per la Casa bianca
Il presidente ha capitolato in 48 ore, dopo aver studiato i sondaggi ed essersi convinto di essere diventato una complicazione per
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ISRAELE/PALESTINA. Storico parere della Corte internazionale: Tel Aviv ha di fatto annesso i Territori palestinesi. «Smantelli tutto e risarcisca». Il premier Netanyahu rivendica: è terra nostra. Il presidente Abu Mazen: «Vittoria della giustizia»
La polizia perquisisce un giovane palestinese all’ingresso di un quartiere a Gerusalemme est - Ap/Oded Balilty
Da sei mesi a questa parte, dalla storica sentenza della Corte internazionale di Giustizia sul genocidio plausibile in corso a Gaza, lo scorso 26 gennaio, il diritto internazionale è stato scongelato. Considerazioni finora confinate al mondo degli invisibili (il popolo palestinese) e all’associazionismo internazionale (Amnesty, Human Rights Watch, B’Tselem) rimbombano dentro il tribunale più importante del pianeta. Ora far finta di non ascoltare diventa pratica complessa.
Ieri il presidente della Corte Nawaf Salam ha letto le 32 pagine di un parere consultivo che è un terremoto: l’occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est è illegittima. È un’annessione di fatto che ha generato un regime di apartheid e segregazione razziale. E deve finire, subito: «Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza nei Territori occupati palestinese il prima possibile».
I GIUDICI buttano fuori una sentenza (chiesta nel dicembre 2022 dall’Assemblea generale dell’Onu) che disegna la complessa rete con cui dal 1967 Israele ingabbia e soffoca l’autodeterminazione palestinese.
Una rete che mescola – e che tenta di istituzionalizzare – militarismo, burocrazia, colonizzazione e pulizia etnica. Costruzione ad libitum di colonie e
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LA SOTTILE LINEA VERDE. La presidente nel suo discorso cerca di accontentare tutti. Standing ovation sulla critica a Orbán, convitato di pietra
Quarantuno e quattrocento uno: i numeri non mentono, neanche nella loro simmetria. Quarantuno sono i voti che hanno permesso a Ursula von der Leyen di essere rieletta per un secondo mandato di cinque anni alla guida della Commissione Ue. Quattrocento uno è il totale degli eurodeputati che si sono espressi a favore dell’Ursula bis, mentre i contrari sono stati 284, gli astenuti 15 e le schede nulle 7. Quattrocento era anche la somma dei deputati della coalizione Ppe-socialisti e liberali che sosteneva la rielezione. «Meglio dell’altra volta», scherza Ursula dopo il voto. Quindi ha avuto tutti i consensi che doveva? Più probabilmente ne ha avuti altri che si sono sostituiti ai franchi tiratori, ovvero almeno una parte dei 50 dei Verdi. Il voto è segreto, quindi dobbiamo stare alle dichiarazioni spontanee dei grandi elettori.
L’ALTRO FATTO È CHE si è finalmente risolto il lunghissimo balletto dei meloniani. Subito dopo la proclamazione, Nicola Procaccini ha dichiarato il no di FdI: «Votare a favore avrebbe significato andare contro i nostri principi». Poi però esclude ripercussioni sul commissario italiano e annuncia: «Vogliamo avere un rapporto estremamente costruttivo» con il nuovo esecutivo europeo.
In mattinata, la presidente della Commissione aveva tenuto un discorso di oltre mezz’ora dall’intento decisamente ecumenico, spaziando dall’economia alla sicurezza, dall’immigrazione all’allargamento dell’Unione fino ai temi sociali. Il lungo applauso finale, con tanto di standing ovation di una parte dell’Aula, è stato preceduto da un altro forse più fragoroso, nel passaggio di critica a Viktor Orbán, convitato di pietra del discorso per la rielezione.
La presidente non lo cita neppure pe
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GIOCO DI RUOLO. La premier punta sulla riconferma ma ancora ieri sera il sì di Fdi era in forse. Socialisti, Liberali e Verdi in allarme su suo sostegno
Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni al G7 - foto Ansa
Giorgia Meloni si dibatte in un labirinto, ma solo oggi sapremo se riuscirà a uscirne. Ieri per tutto il giorno le linee telefoniche tra Roma e Bruxelles si sono intasate alla ricerca di una soluzione che permetta a FdI di giustificare il voto a favore del ritorno di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea. Ma che sia stata trovata è ancora del tutto incerto. Chiedere ieri sera agli eurodeputati FdI se avessero deciso di votare pro o contro significava farsi ridere garbatamente in faccia: «Vorrei saperlo anche io». Una decisione diventata di giorno in giorno più sofferta verrà presa solo dopo aver letto le «linee guida», nelle quali la candidata riassumerà i contenuti del discorso programmatico che svolgerà poi in aula.
Probabilmente non ci saranno annunci ufficiali nemmeno a quel punto: qualcosa si capirà dagli interventi in aula prima del voto ma l’ufficializzazione arriverà solo nella conferenza stampa già convocata dai capidelegazione Carlo Fidanza e Nicola Procaccini per le 15, due ore dopo l’inizio delle votazioni che a quel punto saranno concluse. Fino a quel momento, come per tutta la giornata di ieri, bocche cucite e consegna del silenzio. Su tutto, anche sugli eventuali contatti tra la premier e la candidata. Il massimo che si strappa è un laconico: «Sono sempre in contatto».
ALMENO IN PARTE si tratta di una situazione tra le più classiche. La premier italiana vorrebbe votare per una presidente con la quale è andata sempre d’accordo invece di farsi sbalzare nel
Leggi tutto: Meloni nel labirinto scommette sul bis: ma il voto è in bilico - di Andrea Colombo
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NEI FATTI, si tratta di un tassello fondamentale per l’Unione europea e i singoli Stati membri, impegnati da anni nel tentativo di esternalizzare le proprie frontiere marittime e affidare a paesi terzi il controllo del fenomeno migratorio. Nel corso degli anni Bruxelles e l’Italia in particolare hanno fornito mezzi, equipaggiamenti e tenuto corsi di formazione alla Garde nationale tunisina, il corpo securitario che si occupa delle operazioni marittime, per aumentare le capacità d’intervento e intercettazione.
Oggi, in quel tratto di mare, anche attraverso le forniture messe a disposizione dalla sponda nord del Mediterraneo si moltiplicano le denunce nei confronti delle autorità di Tunisi, accusate da più parti di pratiche violente che hanno portato in alcuni casi alla morte diretta o indiretta di persone migranti di origine subsahariana. Accuse che vanno avanti da più di un anno, almeno da quando la Tunisia ha superato la Libia per numero di partenze lungo la rotta del Mediterraneo centrale.
Speronamenti volontari, furti di motori, accerchiamenti pericolosi che causano onde alte e l’instabilità delle precarie imbarcazioni in ferro utilizzate per la traversata, lancio di gas lacrimogeni, pestaggi con bastoni e mazze d’acciaio. È nei racconti e nelle testimonianze di chi sopravvive alle intercettazioni la chiave per interpretare e conoscere il volto più violento della Garde nationale, apparato che dipende dal ministero degli interni e che da un anno si sta rendendo anche protagonista delle espulsioni di massa di migranti subsahariani verso le zone desertiche al confine con l’Algeria e la Libia. In alcuni casi non c’è solo la voce diretta di chi racconta.
Un’immagine satellitare – elaborata da Placemarks, progetto che analizza le immagini satellitari per evidenziare i cambiamenti ambientali, sociali e territoriali in corso nel continente africano – scattata la mattina del 6 aprile scorso del porto di Sfax, seconda città della Tunisia e zona dove si registra un alto numero di partenze, mostra circa 100 persone sdraiate o sedute lungo la banchina, di fronte ad alcune imbarcazioni della Garde nationale. Sono controllate a vista dalle autorità locali.
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DA LÌ A QUALCHE ORA la maggior parte di loro si troverà espulsa in Libia e rinchiusa nei centri di detenzione. «Per tutta la notte le persone sono rimaste distese senza vestiti, cibo e acqua». Le parole sono di Ousman, originario del Gambia, che ha raccontato in tempo reale a il manifesto ciò che è successo quella mattina,
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