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EUGENIO SCALFARI. È morto il 14 luglio, l’anniversario della Rivoluzione francese. Una data che per lui, condottiero del laicismo, aveva un significato fondamentale

Eugenio Scalfari fu il primo a rompere il Muro in Italia La nascita di Repubblica nel 1976 - Ansa

Eugenio Scalfari fu il primo ad attraversare la cortina di ferro che, in quegli anni di guerra fredda, separavano non solo gli stati occidentali da quelli orientali, ma anche le loro rispettive società civili. In particolare quella italiana dove negli anni ’50, in particolare dopo il 18 aprile del 1948, non si sviluppò solo un duro scontro politico, ma crebbe una rigida e invalicabile distanza. I comunisti si vedevano fra loro, gli altri restavano chiusi nel mondo ufficiale. (Il nostro, intendiamoci, era povero, ma ricco di intellettuali che allora erano quasi tutti comunisti).

Quando nel 1955 esce l’Espresso, inventato da Scalfari, il Muro si incrina: per via della innata curiosità intellettuale del suo direttore, che era però anche una scelta politica. Importantissima. Fu così che a metà di quell’antico decennio cominciammo a frequentarci. Non solo a interloquire politicamente, proprio anche a conoscerci, a cenare assieme, persino ad andare a ballare in un neo-pub dietro via Ripetta dove in molti finimmo per passarci la sera.

Togliatti, che era anche lui curioso, volle conoscere «questo Scalfari»; e chiese a me e al mio ex marito Alfredo Reichlin di dagliene un’occasione. Fu così che l’incontro fra due esponenti primari dei due mondi avvenne a cena da noi: Togliatti con Nilde, Eugenio con Simonetta.

Cambiammo tutti, nel costume come nella cultura, cambiò la società italiana e con questa la politica italiana che in quegli anni perse molte delle sue rigidità, scoprì terreni comuni di lotta contro una destra anche golpista, grazie a una sinistra meno arroccata, un centrismo laico che divenne meno anticomunista. L’Espresso, e il suo direttore, si può dire che hanno segnato un passaggio d’epoca importante della storia italiana.

Diventammo persino amici. Non posso dimenticarmi che nel ’62, quando finii in galera per una manifestazione degli edili, e subii anche le sgridate del Pci che mi rimproverò di esser andata a ficcare il naso in una manifestazione sindacale così esponendo il Partito all’accusa di volerne ledere l’autonomia, Eugenio venne a testimoniare al processo in mio favore sostenendo che ero lì non per conto del Pci ma per un servizio giornalistico per l’Espresso. (Una bugia che mi aiutò molto).

Poi, dopo 20 anni di ormai consolidato rapporto, arrivò Repubblica, il capolavoro di Scalfari. All’uscita del nuovo quotidiano si tenne una sorta di battesimo, mi pare all’Eliseo, e io vi portai il saluto del Manifesto, ormai vecchio di ben 5 anni. Dissi, in quell’occasione, una sciocchezza. Feci infatti gli auguri alla nuova impresa che sentivo parente, ma espressi le mie perplessità: siete un giornale, dissi, non fate riferimento ad alcun movimento o partito – e ve ne vantate pure come si trattasse di un segno di indipendenza. Ma come si fa a fare un quotidiano senza una esplicita linea politica che lo ispiri? Fra breve, preannunciai, vi troverete nei pasticci.

Non avevo capito, nella mia stupida ingenuità, che anche un giornale può diventare un partito: Repubblica è stato per decenni il più importante partito politico italiano, l’espressione più significativa di un pensiero che non saprei nominare (centro sinistra? No, non è stato né craxiano nè democristiano. Repubblicano? Tutti sanno cosa è Repubblica, nessuno cosa è il Pri; riformista? La parola si presta a troppe interpretazioni per diventare un’etichetta credibile). È un fatto che – non a caso – negli ultimi tempi la sua linea è cambiata e per farlo non c’è voluta nessuna scissione di partiti!

Eugenio non è stato solo un politico acuto, ma un grande giornalista. È capitato anche a me di lavorare per Repubblica, per qualche servizio ed editoriale, all’inizio degli anni ’80. E se debbo dire quale è la cosa che più ho apprezzato nel suo modo di dirigere sono le sue quotidiane riunioni di redazione, cui invitava anche i collaboratori sporadici e non solo i redattori. Non solo. Nel corso della riunione così allargata prendeva il telefono e chiamava un sacco di gente per fare due chiacchiere: voleva il parere di tutti, per avere un rapporto stretto con il mondo reale, e a questo obiettivo sacrificava non poco del suo tempo. Un grande insegnamento.

Eugenio Scalfari è morto il 14 luglio, l’anniversario della Rivoluzione francese. Una data che per lui, condottiero del laicismo e ammiratore appassionato delle rivoluzioni dedicate alla libertà, aveva un significato fondamentale. Tanto è vero che per anni, sulla terrazza della sua casa a via Nomentana, invitava ogni anno, il 14, tutti gli amici a una grande festa. Era un figlio della migliore tradizione Europea, ben lontana dalla triste venerazione per quelli che oggi vengono spacciati per valori occidentali. Per il suo 70mo compleanno, ricordo, gli regalai una copia del Corano. «Perchè?» – mi chiese stupito del dono. Glielo avevo regalato perché una volta tanto prendesse atto che anche fuori dall’Occidente c’erano culture e mondi che non si potevano ignorare.

 

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 CRISI DI GOVERNO. Mentre nel cuore dell’Europa infuriava la guerra, l’inflazione mangiava salari e pensioni, e la pandemia raggiungeva, in piena estate, il massimo dei contagi, in Italia, un febbrone da fine legislatura provocava la crisi del governo di unità nazionale

Le destre a cavallo della crisi Mario Draghi - LaPresse

Mentre nel cuore dell’Europa infuriava la guerra, l’inflazione mangiava salari e pensioni, e la pandemia raggiungeva, in piena estate, il massimo dei contagi, in Italia, un febbrone da fine legislatura provocava la crisi del governo di unità nazionale.

Forse le cronache di questa tribolata stagione racconteranno così l’avvitamento politico-istituzionale che da ieri coinvolge le forze politiche chiamate, sedici mesi fa, dal presidente Mattarella a unirsi per il bene comune: Un matrimonio forzato, dopo aver mandato a casa il governo giallorosso, appena seduto sulla montagna dei duecento miliardi europei, concessi a una Italia devastata da decine di migliaia di morti, vittime del virus.

A essere sinceri nemmeno Lenin avrebbe saputo

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SINISTRA. I poveri, gli sfruttati, l’operaio spaventato dai cambiamenti, il popolo dei consumatori: diventano tutte “guardie del corpo” dei (pochi) ricchi che li hanno condannati

Diario di bordo di una discussione a sinistra Graffito di Gec da Pelliizza da Volpedo

Cosa potrebbe unire oggi il gruppo dirigente di un sindacato così “immerso nel gorgo” delle trasformazioni (fisiche, tecnologiche, sociali, etniche) come la Fillea Cgil, ovviamente gelosa della propria autonomia, un prodotto “classico” dell’evoluzione (e anche involuzione, per sua stessa ammissione) del fu glorioso Pci come Andrea Orlando, un giovane neo socialista come Roberto Speranza, un leader storico del movimento operaio come Sergio Cofferati e una raffinata intellettuale (radicale sarebbe riduttivo) come Luciana Castellina? La risposta potrebbe essere ricercata nelle stesse parole di Luciana che, chiudendo la tavola rotonda sulla “sinistra nel lavoro che cambia” all’interno dei festeggiamenti per i 136 anni della Fillea Cgil, ha semplicemente dichiarato che mai come oggi “la rivoluzione è un obbligo”.

Se vogliamo sopravvivere come genere umano dobbiamo assumere la giustizia ambientale e la giustizia sociale – ci invita Luciana – come obiettivo “minimo” per cambiare presto modello produttivo (dalla produzione al riuso, dalla linearità dello sviluppo alla circolarità) e modello di consumo (dal consumo privato ai consumi collettivi), quindi poteri ed equilibri geopolitici; ricostruendo senso, parole, narrazioni (ancor prima che pratiche organizzative, come ha sottolineato lo stesso Orlando) alternative ad una visione in cui tecnologie, saperi, finanza sono diventati tutti strumenti di “privatizzazione” del potere politico. Per cui “la finanza e le multinazionali decidono, i tecnici eseguono le scelte, i politici le raccontano in tv o sui social”.

Lotta alla precarietà, democrazia economica, centralità dei beni pubblici (categoria a cui ricorre Roberto Speranza), ruolo dello Stato (a livello come minimo europeo) per politiche industriali e reti di accompagnamento (il sottoscritto ha suggerito il trittico “protezione, promozione, emancipazione” per tenere insieme chi sarà “colpito” dalla transizione ecologica e digitale, ma anche i creatori/animatori dell’economia dei saperi), dentro un’Europa che assuma come strutturale la strategia del Next Generation Ue e del Programma Sure fino al 2050: queste le possibili prime coordinate per una contro pratica.

Dove sinistra politica, sinistra culturale, sinistra sociale (e qui il ruolo del sindacato confederale) provino a ridare senso alla parola politica.
Partendo dal territorio, dal tanto di molecolare e frammentato (nel lavoro come nella socialità) per “federare” quanto si muove (mi accontenterei oggi di avere sedi di confronto preventive e permanenti con quanto si muove, dal lavoro all’ambientalismo) e dare protagonismo alla democrazia.

Una democrazia che vada oltre i partiti e il sindacato per come li abbiamo conosciuti, sostiene Luciana; una democrazia – quella economica, della partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali secondo il mai attuato art. 46 della Costituzione e della reale rappresentanza, si veda anche l’attuazione dell’art. 39 sulla validità erga omnes dei contratti collettivi come ricordato dallo stesso Maurizio Landini– che mi permetto di dire sarebbe anche solo queste, “più semplicemente”, già importanti novità.

A fronte di una costatazione banale nell’evidenziare il problema (non certo le soluzioni): se milioni di lavoratori, di pensionati, di precari vedono le loro condizioni materiali oltre che esistenziali peggiorare ogni giorno che passa, se si sentono impotenti di fronte alle nuove stagioni della “de globalizzazione” post Covid, vittime della sbornia liberista e “adattativista” che in molti abbiamo subìto, è forse perché non riusciamo, tutti, a renderli protagonisti di lotte, percorsi, “vertenze”, mediazioni e passi avanti (grandi o piccoli che siano).

E allora soffre il sindacato confederale – soffre nel suo essere soggetto di interesse generale e nell’avere alleati in Parlamento come in Consiglio comunale – e soffre ogni idea di sinistra politica, di fronte democratico e progressista. Soffre l’idea stessa di azione politica collettiva per più giustizia e più libertà.

La sinistra, politica e sociale, soffre nel difendere il mondo che c’è e il mondo che sta già affacciandosi, nelle tante periferie dei saperi e del lavoro, nei tanti territori urbani attraversati da flussi informativi e simbolici globali. E soffrono (forze sociali e forze democratiche) per il semplice fatto che lo stesso sviluppo lineare e l’aumento delle disuguaglianze connesse alla detenzione, sempre in meno mani, degli strumenti di potere, non generano più quelle risorse, opportunità, dinamiche per mediazioni e compromessi; comprimono la mobilità sociale; polarizzano le società (con buona pace di quel ceto medio che le stesse lotte e conquiste sindacali hanno creato e fatto crescere).

E quando per mantenere il vecchio status ci si impoverisce ulteriormente, quando l’ascensore sociale si blocca ed ognuno vive nella bolla delle proprie origini familiari (i figli dei ricchi con i ricchi, i figli dei servi con i servi) l’impotenza diviene rabbia, la rabbia diviene anoressia democratica e allora – questa discussione non riguarda solo l’Italia, ma l’Europa e l’occidente più in generale sia chiaro – si svolta a destra.

I poveri, gli sfruttati, l’operaio spaventato dai cambiamenti e lasciato solo, il popolo dei consumatori, diventano tutte “guardie del corpo” di quei pochi ricchi che li hanno condannati. Chiamasi rivoluzione passiva, per tornare ai classici del pensiero gramsciano. A cui contrapporre – oggi più che mai – l’ottimismo della volontà. Da ricercare e soprattutto praticare tutti insieme, tutti i giorni.

*Segretario Generale Fillea Cgil

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Mattarella non aprirà al voto prima della legge di bilancio e della tempistica del Pnrr. Con l’esecutivo che c’è, con sufficienti voti, o con un rimpasto, o con un governo “di scopo”

draghi

Talvolta la politica si pone su un piano inclinato che rende difficile o impossibile frenare i processi in atto. Questo è quanto accade con l’uscita di M5S dall’aula al momento del voto sul decreto-legge “Aiuti”, dopo l’intimazione in nove punti di Conte a Draghi.
Era scritto, già quando si decise per Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi, che il governo avrebbe navigato in acque via via più agitate. Era anche chiaro che il punto di sofferenza poteva essere M5S. Nell’arco della legislatura, il non-partito ha disperso i consensi ottenuti nel 2018. Avrebbe potuto consolidarli se avesse avuto un vero gruppo dirigente, capace di costruire un vero progetto politico oltre le bandiere identitarie e la sommatoria di proteste. Non è accaduto. Nel documento Conte si delinea un Movimento sotto attacco. Ma il dissolversi del tesoretto elettorale non si può addebitare ad altri. E la scissione dimaiana ha solo messo in chiaro un processo comunque in atto.

Ora la battaglia navale è iniziata, con l’uscita dall’aula di M5S e Draghi al Colle. Diffide incrociate. Due cose sembrano ragionevolmente certe. La prima: Mattarella non aprirà al voto subito, per garantire l’approvazione della legge di bilancio e la tempistica di attuazione del Pnrr. Questo si può avere o con l’esecutivo che c’è a Palazzo Chigi con sufficienti voti, o con un rimpasto che adegui la composizione del governo ai comportamenti parlamentari delle forze politiche, o ancora con la formazione di un nuovo governo “di scopo” (rumors su un governo Franco). La specifica modalità forse rileva solo ai fini di un nuovo possibile governo Draghi dopo il voto.

La seconda ragionevole certezza è che nel clima in atto, superate le scadenze di bilancio e Pnrr, si imbocchi subito la via delle urne, bruciando i pochi mesi che sarebbero ancora disponibili. Fin da ora nessuna forza politica vorrà lasciare ad altri la possibilità di piantare bandiere su cui lucrare elettoralmente. In specie, si dice a sostegno dei nove punti che la comunità M5S “pretende” discontinuità. Nessuno concederà a M5S il vantaggio che questa si realizzi secondo i desideri del Movimento. Forse qualcosa, attraverso vie parallele come l’incontro con i sindacati. Certo non tutto. E dunque questa formula, se rigidamente sostenuta, si traduce nella anticipazione di una uscita dalla maggioranza di governo, subito o comunque in tempi brevi.

Dopo i nove punti tutti avanzeranno richieste, per non essere da meno. Ad esempio, la Lega ha già richiamato l’autonomia differenziata come obiettivo prioritario. Ma è probabile – e nel caso dell’autonomia anche auspicabile – che tutti rimangano fermi al palo. Niente jus soli, o jus scholae, o cannabis. E soprattutto nemmeno legge elettorale con passaggio al proporzionale.
Il favor del centrodestra per il Rosatellum era già noto. Il collegio uninominale maggioritario offre a un centrodestra unito la prospettiva di un sostanziale cappotto sul 36% dei seggi, e alla Lega in specie quella di riguadagnare qualche posizione nell’arco del Nord. Si aggiunge ora che con il proporzionale il Pd potrebbe più facilmente svincolarsi dal campo largo, e M5S riguadagnare identità e qualche percento di consensi. A parte il conto profitti e perdite delle forze politiche, rileva che il Rosatellum renderebbe ancor meno rappresentativo un parlamento già colpito dallo sciagurato taglio degli eletti.

Preoccupano allora i passi indietro sui possibili correttivi. Il 29 giugno, rispondendo a una interrogazione del deputato Magi sulla attuazione della piattaforma pubblica per la raccolta delle firme online per referendum e proposte di legge di iniziativa popolare, il ministro Colao afferma che l’online non si estende alla “autenticazione delle firme o alla raccolta dei certificati elettorali che sono disciplinate ancora in maniera analogica”. Cosa vuol dire? Cosa si fa online? A che serve una digitalizzazione parziale? Rimarrà possibile il ricorso alla piattaforma privata già utilizzata? O i referendum eutanasia e cannabis rimarranno uno storico e irripetibile esperimento di vasta partecipazione popolare?

Avremmo capito e apprezzato se M5S avesse incluso nella discontinuità richiesta la questione firme online. Ma a quanto sappiamo non c’è. Sul tema, il ministro Colao afferma di dare seguito a pareri dell’Autorità privacy e del Ministero della giustizia volti a tutelare i diritti dei cittadini. Sarebbe davvero un paradosso se si volessero garantire cancellandone uno.

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Parlare del pericolo della spirale prezzi-salari, quale concausa dell’inflazione, serve per bloccare o contenere al minimo l’incremento delle retribuzioni

Tra governo e sindacati l’ospite sgradito dell’inflazione 

Ieri si è aperto il nuovo “cantiere sociale”, così è stato chiamato con una certa enfasi il confronto che un traballante Governo terrà con le organizzazioni sindacali e poi con le imprese. Pare si voglia ripercorrere il metodo ispirato al patto Ciampi del 1993. Non proprio un richiamo felice per il mondo del lavoro. Il primo incontro, assai breve per la complessità dei temi, ha lasciato insoddisfatto il segretario della Cgil, Landini, che ha definito buono il metodo ma inesistenti le risposte di merito, mentre il segretario della Cisl, Sbarra, ha sfruttato l’occasione per attaccare la Cgil nel nome di un fantomatico patto sociale.

Al tavolo siede anche un “ospite inquietante” e poco desiderato: l’inflazione. Porta qualche sollievo al Tesoro per la diminuzione del debito dovuta all’incremento nominale del Pil. Ma per gli altri c’è poco da gioire. La “tassa diseguale”, come è stata definita l’inflazione – in un paese nel quale è stato demolito lungo gli ultimi anni lo stesso principio costituzionale della progressività del prelievo fiscale – pesa assai di più su chi è già povero. L’Istat ci fa sapere che per le famiglie a reddito più basso nel marzo di quest’anno l’inflazione era pari al 9,4%, cioè ben 2,6 punti percentuali in più rispetto al dato mensile medio. I peggio che modesti aumenti salariali di quest’anno (0,7%) sono stati spazzati via dall’aumento dei prezzi retrocedendo il potere d’acquisto a quello del 2009. In sostanza ai lavoratori a reddito fisso viene a mancare un mese di stipendio.

Per non parlare dei pensionati la cui triste condizione è stata illustrata in un corposo rapporto dal presidente dell’Inps. Lavoro povero e pensioni da fame si tengono per mano: 4,3 milioni di lavoratori stanno sotto i 9 euro lordi all’ora, un pensionato su tre deve campare con meno di mille euro al mese. Parlare oggi del pericolo della spirale prezzi-salari, soprattutto nel caso italiano, quale concausa dell’inflazione, è una pura provocazione che serve per bloccare o contenere al minimo l’incremento indispensabile delle retribuzioni.

In Europa e in Italia, in particolare, non siamo affatto di fronte ad una ripresa rigogliosa della domanda aggregata. Né si può sostenere che la causa scatenante l’impennata inflazionistica sia dovuta alla politica monetaria particolarmente espansiva delle banche centrali. Prova ne sia, come ha giustamente commentato Andrea Fumagalli su queste pagine, che a fronte di un’immissione di liquidità in sette anni pari al 20% del Pil europeo, il tasso di inflazione è stato contenuto entro il 2%. Per questo motivo l’inversione di tendenza con l’innalzamento dei tassi di interesse, sia della Fed che soprattutto della Bce, rappresenta la risposta sbagliata che prepara l’avvento della stagflazione. Il nesso causale fra la creazione di moneta e aumento dei prezzi è stato reciso dalla finanziarizzazione sempre più spinta del sistema.

Quella liquidità ha solo lambito l’economia reale, fermandosi nelle capaci sacche di quella finanziaria. E’ stata dunque la guerra, la dinamica delle sanzioni e delle contromisure messe in atto dalla Russia, a delineare il nuovo quadro inflattivo che ha perciò dimensione mondiale. Lo sfilacciarsi delle catene del valore, il brusco contrarsi dell’accesso a materie prime indispensabili alla produzione ad alto valore tecnologico, la crescita del prezzo del gas e l’incertezza sulla continuità delle forniture, l’incremento dei costi della logistica e dei trasporti, nonché la tormentata vicenda del grano, sono solo alcuni degli elementi che descrivono un’inflazione da offerta.

I sommovimenti monetari – la guerra delle valute – fanno il resto. Uno vale uno non è più il consunto slogan dei 5Stelle, ma il rapporto fra dollaro ed euro raggiunto in questi giorni. L’innalzamento dei rendimenti dei titoli Usa rispetto a quelli europei, attira flussi di capitali sul dollaro. A fare le spese di questa “ri-dollarizzazione” sono soprattutto quei paesi in via di sviluppo che hanno dovuto indebitarsi in dollari e ora subiscono senza sconti il rincaro della valuta Usa su interessi o acquisti. Anche qui piove sul bagnato, ovvero come la guerra ha innescato la retromarcia in tutti i processi trasformativi, compresi quelli più blandi, quali la transizione ecologica, così le differenze economiche e sociali nei e tra i paesi tornano ad accentuarsi.

D’altro canto la riorganizzazione della produzione su scala globale, dovuta alle mutazioni geopolitiche indotte dalla guerra, non potrà avvenire gratis e alimenterà la spirale inflazionistica dal versante dell’offerta. Torna d’attualità, ma su una scala ben più ampia, l’insegnamento di Augusto Graziani che nel 1977 scriveva che “l’inflazione ha una funzione specifica da svolgere nel meccanismo capitalistico; lungi dall’essere un puro fenomeno nominale, essa assolve alla funzione delicata di redistribuire ricchezze e potere da un gruppo all’altro”. Come allora, a favore del capitale finanziario.

Se la causa determinante dell’accelerazione inflazionistica è la guerra, la lotta in difesa delle retribuzioni da lavoro si sposa con la causa della pace e la lotta all’inflazione deve avvenire su un terreno almeno europeo.

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MEDIO ORIENTE. Messi da parte i giornalisti Khashoggi e Abu Akleh, il presidente Usa parte per un viaggio di real politik: in cerca di petrolio e di un accordo ufficiale tra Israele e Arabia saudita

Biden in tour da Tel Aviv a Riyadh, la diplomazia Usa tra armi e inchini Biden, all'epoca vice presidente di Obama, nello Studio ovale con re Salman - LaPresse

C’è un forte sentore di gas, petrolio e polvere da sparo nell’imminente viaggio di Biden in Israele e Arabia saudita, due Paesi avviati, in maniera sotterranea, sul sentiero del Patto di Abramo anti-Iran, già stretto tra alcune monarchie arabe e lo Stato ebraico.

Lo stesso sentore (armi escluse) che si respira nella visita improvvisa a Roma e in Vaticano del ministro degli esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian. Un tentativo della diplomazia italiana di riprendere un minimo di iniziativa dopo l’inchino di Draghi al Sultano Erdogan.

Ma ora tocca a Biden fare il suo inchino.

In questo caso al principe assassino Mohammed bin Salman (Mbs): al di là della retorica sugli sbandierati valori occidentali, ogni giorno trangugiamo forti dosi di realpolitik e cinismo. La guerra in Ucraina e la crisi nei rifornimenti energetici dalla Russia mettono in moto una diplomazia contraddittoria che non ferma i conflitti, non abolisce (ancora) le sanzioni a Teheran ma si agita assai e per una semplice ragione: la sopravvivenza economica occidentale e quella politica dei suoi leader.

È proprio Biden a spiegare, in un articolo sul Washington Post, perché va a incontrare Mbs, mandante dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, che lui stesso aveva ostracizzato definendolo un «pariah».

«Abbiamo bisogno di Paesi come l’Arabia saudita per la sicurezza nazionale e per rispondere all’aggressione della Russia», scrive il presidente sul medesimo giornale dove pubblicava i suoi articoli Khashoggi, fatto a pezzi nel 2018 dentro al consolato saudita di Istanbul.

Tradotto: i cittadini americani ormai pagano la benzina oltre 5 dollari al gallone (3,8 litri) e si avviano nell’incertezza alle elezioni di midterm mentre si prevede negli Stati uniti – e ancora di più in Europa – un inverno in cui la rottura con la Russia crea mancanza di energia, inflazione e disoccupazione.

Sul mondo occidentale si sta addensando una tempesta perfetta mentre stati come Israele e Arabia saudita, pur condannando l’aggressione all’Ucraina, si sono ben guardati dall’imporre sanzioni a Mosca e nel caso di Riyadh non hanno messo in discussione né gli accordi militari con Putin né la partecipazione russa a’Opec+, lo storico cartello petrolifero che per ora frena significativi incrementi di produzione e contribuisce all’impennata delle quotazioni energetiche.

Il capo della Casa bianca punta a un consistente aumento della produzione petrolifera da parte dell’Arabia saudita e dei suoi alleati del Golfo nel tentativo di raffreddare prezzi e inflazione prima delle elezioni di medio termine per il rinnovo del Congresso, in cui il partito democratico rischia una severa batosta.

Il viaggio di Biden è talmente critico che verrà accompagnato da un gesto concreto e simbolico al tempo stesso.

Venerdì 15 luglio, dopo una visita a Gerusalemme est e nei Territori, Biden partirà dall’aeroporto Ben Gurion per atterrare direttamente in Arabia saudita: è il primo volo di un presidente Usa da Israele verso uno Stato arabo non riconosciuto dall’alleato mediorientale.

Atterrando a Gedda, Biden parteciperà al Consiglio di cooperazione del Golfo (allargato a Egitto, Iraq e Giordania). E qui ci sarà il faccia a faccia con l’anziano re Salman al quale parteciperà anche il tenebroso principe Mbs, indicato come il mandante dell’omicidio Khashoggi dalla stessa intelligence americana.

La retromarcia di Biden sul principe va inquadrata nell’orizzonte degli Accordi di Abramo che hanno contribuito a ridisegnare il Medio Oriente.

L’intesa firmata nel 2020 tra Israele, Emirati e Bahrein (cui si è poi aggiunto il Marocco) ha ricevuto il benestare di Riyadh che tuttavia finora non ha voluto farne parte, nonostante le forti pressioni dell’allora presidente Trump e le aspettative dello stesso Stato ebraico.

Nelle scorse settimane, in vista della missione di Biden, sulla stampa si è parlato di una «road map per la normalizzazione» delle relazioni tra Israele e Saud sulla quale gli Usa sono impegnati a lavorare. A partire dalla mediazione di Washington tra Arabia saudita, Israele ed Egitto per il trasferimento della sovranità dal Cairo a Riyadh su due isole strategiche nel Mar Rosso, Tritan e Sanifar, con il via libera dello Stato ebraico. E si lavora pure a un accordo che permetta a Israele di usare lo spazio aereo saudita per i voli verso India e Cina e voli diretti tra i due Paesi per i pellegrini musulmani.

Ma è niente rispetto al capitolo sui armamenti e accordi strategici. Alla fine di giugno il ministro della difesa Benny Gantz ha rivelato che Israele è impegnato, con il sostegno degli Usa, nella creazione di una «Middle East Air Defense Alliance» – già in parte operativa – per rafforzare la cooperazione con i Paesi arabi contro l’Iran.

Ecco perché il premier ad interim Yair Lapid e i monarchi arabi srotolano il tappeto rosso a Biden: si aspettano dagli Usa nuove armi, sistemi anti-missile, anti-drone e caccia. Da schierare contro l’Iran ma anche contro Hezbollah (Israele) e gli Houthi yemeniti (Arabia saudita), tutti alleati di Teheran considerata una minaccia per i suoi programmi nucleari e che Israele, il poliziotto regionale, tiene nel mirino facendo fuori scienziati e generali iraniani.

Il fatto singolare è che in Occidente riteniamo tutto questo legale, così come l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Senza mai applicare sanzioni allo Stato ebraico. Se bin Salman la fa franca per l’assassinio di Khashoggi, Israele la passerà liscia per l’uccisione a Jenin della giornalista di al Jazeera, Shireen Abu Akleh.

I palestinesi speravano in una chiara condanna di Washington mentre il dipartimento di Stato ha concluso che la reporter è stata uccisa dai soldati «ma non intenzionalmente»: una formula pilatesca e insoddisfacente. Si va avanti così, con un inchino al principe, uno al Sultano e un altro a Israele, sempre in nome dei «valori occidentali», naturalmente.

 
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