Nel tempo dell’emergenza e della lotta alla pandemia, in Emilia-Romagna si disegna un futuro diverso. Per tutti, nessuno escluso. Un progetto di rilancio e sviluppo della regione fondato sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Per creare lavoro di qualità, accompagnarla nella transizione ecologica, contrastare le diseguaglianze e ridurre le distanze fra le persone, le comunità e le aree territoriali, ricucendo fratture acuite dalla crisi in atto. Con un investimento senza precedenti sulle persone, il welfare e la sanità pubblica, l’innovazione tecnologica e digitale – con la scienza al servizio dell’uomo, in ogni campo – i saperi e la scuola, la formazione, le eccellenze della nostra manifattura, l’economia verde e circolare, il turismo, il commercio, l’agricoltura, il mondo delle professioni e il terziario, la messa in sicurezza del territorio. Con l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 e il 100% di energie rinnovabili entro il 2035.
È il Patto per il Lavoro e per il Clima che la Regione Emilia-Romagna sigla con 55 firmatari: enti locali, sindacati, imprese (industria, artigianato, commercio, cooperazione), i quattro atenei regionali (Bologna, Modena e Reggio Emilia, Ferrara, Parma), l’Ufficio scolastico regionale, associazioni ambientaliste (Legambiente, Rete Comuni Rifiuti Zero), Terzo settore e volontariato, professioni, Camere di commercio e banche (Abi).
Un percorso comune che nasce dalla convinzione che da questa crisi l’Emilia-Romagna debba uscire con un progetto di sviluppo nuovo. Un progetto che migliori la qualità della vita di donne e uomini e del pianeta, che punti a una reale parità di genere, che attui la transizione ecologica creando lavoro di qualità, valorizzando tutte le potenzialità e gli spazi che questo cambiamento offre al territorio e alle nuove generazioni. Senza lasciare indietro nessuno. Perché creare nuova occupazione – di qualità, dipendente o autonoma che sia, ma stabile e adeguatamente remunerata - che scaturisca e accompagni la svolta verde, non è solo possibile, è anche necessario.
Il Patto si fonda sulla qualità delle relazioni tra istituzioni, rappresentanze economiche e sociali. L’intera comunità regionale impegnata su obiettivi strategici definiti sulla base di una partecipazione democratica e di una progettazione condivisa, e la conseguente assunzione di responsabilità di ciascuno e dell’intera ‘squadra’. Guardando al 2030, in linea con l’orizzonte e gli obiettivi fissati dall'Agenda delle Nazioni unite e dell’Unione europea: in un tempo in cui la pandemia e la crisi costringono ad aggiornare le previsioni giorno per giorno, l’Emilia-Romagna non rinuncia ad un progetto di medio-lungo termine per orientare le scelte strategiche.
Gli obiettivi delineati nel documento saranno oggetto di ulteriori e successivi accordi per definire più nel dettaglio, con lo stesso metodo di confronto e condivisione, come programmare le risorse europee, statali e regionali, ordinarie e straordinarie, che l’Emilia-Romagna avrà a disposizione per un rilancio degli investimenti pubblici e privati, in un momento che rappresenta anche una grande occasione storica. L’Europa ha infatti battuto un colpo decisivo con il Next Generation EU, che destina all’Italia 209 miliardi di euro per il proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che per i sottoscrittori del Patto dovrà vedere protagoniste le Regioni e le autonomie locali.
Impossibile immaginare la realizzazione di un piano di ricostruzione del Paese senza il loro pieno coinvolgimento. Sulla base delle azioni indicate nel nuovo Patto, l’Emilia-Romagna è pronta a presentare al Governo proposte e progetti da finanziare con i fondi del Next Generation EU. Ci sono poi i Fondi europei della nuova programmazione 2021-2027 destinati a crescere per la nostra Regione (nel settennio precedente 2,5 miliardi di fondi strutturali e 660 milioni di euro di FSC, di cui 55 milioni gestiti dalla Regione) e quelli che il territorio saprà aggiudicarsi candidandosi ai diversi programmi europei (per il solo Horizon 2020 il contributo di cui ha beneficiato il territorio regionale è stato pari a oltre 280 milioni di euro), unitamente alle risorse regionali e statali.
Solo la Giunta regionale ha previsto nel bilancio di previsione 2021 investimenti per un miliardo mezzo di euro, nel contesto più ampio del piano di investimenti per quasi 14 miliardi di euro al 2022 presentato già prima dell’estate, anche in questo caso considerate tutte le fonti di finanziamento, per una ricostruzione partecipata e condivisa da territori, parti sociali, comunità locali.
L’Emilia-Romagna continua dunque a fare sistema. Le firme di oggi confermano e rafforzano il metodo avviato nel 2015 con la firma del Patto per il Lavoro, che in cinque anni ha permesso all’Emilia-Romagna di recuperare terreno rispetto alla lunga crisi economica apertasi nel 2008, portandosi ai vertici italiani ed europei per crescita, occupazione, export e valore aggiunto. Cinque anni nei quali il Patto per il Lavoro ha generato investimenti e movimentato risorse per oltre 22 miliardi di euro (ben oltre i 15 preventivati all’inizio).
Uno scenario radicalmente cambiato nell’ultimo anno con la diffusione della pandemia mondiale e l’esigenza, ora, di fare tesoro dalle lezioni apprese dall’emergenza e di impostare un modello di sviluppo che sia sostenibile. Per affrontare quattro sfide che l’Emilia-Romagna, al pari e più di altri sistemi territoriali, è chiamata ad affrontare: crisi demografica, emergenza climatica, trasformazione digitale, contrasto alle diseguaglianze.
Il Patto per il Lavoro e per il Clima indica come proprio orizzonte il 2030, assumendo una visione di medio e lungo periodo, indispensabile per affrontare la complessità dei temi aperti, allineando il percorso dell’Emilia-Romagna agli obiettivi previsti dall’Agenda 2030 dell’Onu, dall’Accordo di Parigi e dall’Unione europea per la riduzione delle emissioni climalteranti di almeno il 55% entro il 2030.
Adesso la transizione ecologica e la neutralità carbonica sono obiettivi concreti e condivisi. Abbiamo dato un indirizzo chiaro e coraggioso alle scelte per il contrasto ai cambiamenti climatici e alle disuguaglianze sociali, di genere e territoriali. Questo Patto segna l’impegno condiviso a fare ciascuno la propria parte per ripartire insieme, avviando un percorso di cambiamento urgente e ineludibile per il futuro della nostra comunità e delle prossime generazioni. In un momento difficile come questo in cui nel Paese, per affrontare la crisi pandemica, sono richieste unità e responsabilità in Emilia-Romagna siamo riusciti a costruire una cornice strategica per non tornare alla normalità di prima, ma migliorare la qualità della vita delle persone e del pianeta.
Il Patto per il Lavoro e per il Clima si conferma un atto importante di democrazia e responsabilità condivisa, in rete con le più grandi progettazioni innovative del nostro Paese, e che si relaziona con l’Europa. La grande novità di questo nuovo documento è contenuta nel titolo, che affianca al ‘Lavoro’ la parola ‘Clima, perché non c’è sviluppo senza sostenibilità ambientale, economica e sociale. Non può esistere contrapposizione fra ambiente e lavoro anzi, al contrario, proprio attraverso il green new deal e l’investimento sui saperi possiamo creare occupazione di qualità, riducendo la forbice delle disuguaglianze.
Sindacato/Ambiente. I nostri avversari hanno cercato di dividerci. Soprattutto da quando si è cominciato a parlare di dissesto ambientale, di cui è stata offerta una versione spesso del tutto infondata: una rivendicazione dei privilegiati, un po’ più di verde e di aria pulita per vivere meglio
Cari compagni della Cgil, non siamo certo le sole che sono rimaste sconcertate leggendo quanto i sindacati Filctem-Cgil, Femca e Flaei-Cisl e Unitec-Uil hanno proposto qualche giorno fa per far fronte alle urgenze del disastro ambientale. Ci rivolgiamo a voi perché, pur con diverse sensibilità legate alle nostre età differenti, ci sentiamo, per storia e collocazione politica, parte integrante di un fronte di cui da sempre la Cgil ha costituito il nucleo decisivo.
Per questo partiamo da voi, ma cercheremo il confronto anche con Cisl e Uil. Per dirvi con sincerità che proprio per via di questo legame non ci sembra giusto limitarsi ad esprimere sconcerto, sentiamo l’obbligo di rendere pubblico il nostro dissenso per avviare fra noi una discussione seria che impedisca che un tema decisivo come le sorti della Terra che abitiamo venga utilizzato per dividerci. Sappiamo bene che la linea assunta dai sindacati menzionati non è quella delle confederazioni,e però ci sembra non possa esser passata sotto silenzio.
I nostri avversari hanno cercato di dividerci. Soprattutto da quando si è cominciato a parlare di dissesto ambientale, di cui è stata offerta una versione spesso del tutto infondata: una rivendicazione dei privilegiati, un po’ più di verde e di aria pulita per vivere meglio.
Insomma, l’odioso ricatto imposto agli operai dell’Ilva: «meglio morire di cancro che di fame».
E però, adesso siamo arrivati a un punto cruciale, il processo di distruzione del nostro ecosistema ha fatto un salto di qualità, la pandemia, che ne è un aspetto, è lì a provarlo. Se non innestiamo subito la svolta indispensabile, che significa governare la riconversione verso un diverso e nuovo progetto di produzione e di consumo, il prezzo che pagheranno i più deboli sarà tremendo.
Può il sindacato tirarsi fuori dallo scontro che si aprirà, lasciando che chi lucra su questo modello di economia e di società decida del nostro destino? O non deve, al contrario, decidere di stare in prima linea nella lotta per chiedere e imporre che si imbocchi un’altra strada? L’urgenza di affrontare seriamente i nodi irrisolti del nostro confronto l’abbiamo avvertita quando abbiamo preso conoscenza delle proposte del documento unitario dei tre sindacati che rappresentano i lavoratori dell’energia, del tessile e dei chimici. Il documento unitario proposto ci sembra abbia lo sguardo rivolto al passato, un passo indietro per l’intero movimento sindacale, in particolare per un sindacato come la Cgil.
Può la Cgil, che si è sempre distinta proprio perché ha sempre saputo guardare lontano, oltre la rivendicazione immediata, rinunciare a svolgere il proprio ruolo storico proprio nel momento in cui la rivoluzione forse più difficile del nostro tempo è entrata nel nostro ordine del giorno?
Siamo anche noi consapevoli che nel porre mano al progetto di una trasformazione del sistema energetico non si può non prevedere una fase di transizione, ma vorremmo segnalare che se si parla di transizione bisogna indicare la nuova sponda dove si vuole arrivare, che non può essere il ritorno alle centrali a gas a ciclo combinato, solo poco meno inquinanti di quelle a carbone, sapendo peraltro che quelle avviate già 15 anni fa sono restate sottoutilizzate.
Non si transita, ma si ristagna, se non si indica, anzi nemmeno si nomina, l’approdo strategico: di fare dell’Italia un paese capace di ridurre i suoi bisogni di energia e di produrre quella di cui necessita con le fonti energetiche rinnovabili, quelle vere e non quelle assimilate, già oggi anche più economicamente convenienti.
Citate fra le rinnovabili solo l’idroelettrico, ma sapete anche voi che questa è stata una fantastica risorsa usata dai nostri avi, oggi tuttavia insufficiente, soprattutto in Italia, e comunque incapace di offrire una produzione energetica quale quella possibile ricorrendo al solare fotovoltaico e termico, o all’eolico, le tecnologie su cui tutto il mondo sta puntando.
Altrettanto sconcertante è la proposta di fare centrali a metano per produrre l’idrogeno blu, come a Civitavecchia, una scelta che fa capire la centralità che viene data dal documento sindacale al gas rispetto alle rinnovabili, visto che viene pressoché ignorato l’idrogeno verde, quello prodotto con fonti rinnovabili, come sostenuto da gran parte del mondo scientifico. Così non si transita, si rafforza solo la catena che ti inchioda alla riva da cui dovresti salpare.
C’è da chiedersi, infine, quali siano i centri di ricerca scientifica che forniscono queste indicazioni ai tre sindacati e colpisce negativamente che la sola società ricordata nel documento sia la Sogin, quella incaricata di gestire i rifiuti nucleari, tristemente famosa per aver totalmente fallito il suo compito. Ma c’è anche un altro, decisivo aspetto:: quello relativo al decentramento della produzione e distribuzione, universalmente riconosciuto come essenziale al nuovo modello fondato su altre fonti, ma anche sul risparmio energetico.
In proposito non c’è nel documento neanche una parola sul carattere democratico e di partecipazione popolare di cui è portatore. E questo sebbene stia qui la vera chiave di un progetto che vuole davvero «transitare» verso le fonti rinnovabili. Se manca finisce per prendere piede uno sviluppo come quello realizzato in quasi tutto il mezzogiorno dove si sono sottratti migliaia di ettari all’agricoltura per riempirli di pale eoliche e successivamente di pannelli solari, senza alcun criterio programmatorio, ma spesso solo per una corsa, a volte mafiosa, agli incentivi.
Un nuovo modello energetico non può che avere al suo centro le comunità energetiche, nel quadro dell’invocata economia circolare. Non si può cioè fare affidamento solo su ciò che sono oggi, pur nelle loro diversità, Enel e Eni, grandi aziende ricche di competenze, ma figlie di un modello centralizzato e monopolistico in larga parte da superare.
Sappiamo tutti quali e quanti sono i temi su cui ragionare assieme. Negli anni ’50 Di Vittorio lanciò il Piano del lavoro; negli anni 90 Sergio Cofferati sottoscrisse con Legambiente un patto di consultazione che portò a numerose piattaforme unitarie ed infine prima Epifani e poi Susanna Camusso avevano cercato di dare continuità a queste iniziative; Maurizio Landini ha subito e più volte riproposto questo tema ora annunciando una conferenza di programma; e indicando nella sua prima relazione a segretario generale a Bari, anche un nuovo modo di organizzarsi del sindacato: non più solo in categorie ma anche in «sindacato di strada», capace di aggregare i tanti soggetti diversi che vivono nel territorio e che potrebbero costituire un nuovo assai interessante soggetto rivendicativo capace di tradurre il discorso ecologico in vertenza.
Oggi abbiamo l’occasione di un finanziamento pubblico, quello del piano europeo Next Generation, per innescare la transizione. Evitiamo che queste risorse vengano disperse per soddisfare i tanti «ecofurbi» in circolazione. Abbiamo poco tempo: ancora ieri un’altra esondazione di fiumi in Sardegna, altri morti, altri danni. Investire in un rinnovamento profondo non è spesa, è risparmio.
* Portavoce Taskforce Natura e Lavoro
** Deputata LeU, ex presidente Lega Ambiente
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Sono giorni, questi, di un autunno che si annuncia difficile per il mondo intero, e che invitano a riflessioni che ci impongono di mettere il naso fuori di casa. Almeno con il pensiero che - non di rado - aiuta molto più di tanti affannosi spostamenti.
E’ trascorso più di un mese dal referendum costituzionale, vicenda grande per l’Italia e quasi invisibile nel resto del mondo. Per chi, come è il mio caso, ne esce con una annunciata sconfitta, è doveroso fermarsi e cercare di capire. La sconfitta era annunciata, per non meno di due ragioni. Una ragione parte dai numeri. Quando, in marzo, il referendum sembrava imminente, le proiezioni ci dicevano che il nostro NO si aggirava sul 9%. Per il resto, erano tutti Sì. A seguire, un lock down che ha fatto mettere tutto, tranne il virus, in secondo piano. Alle parole - in questo caso lock down - ci abituiamo troppo velocemente, soprattutto quando diventano vulgata ripetuta ogni momento. Down, giù, per terra. Come chi getta le armi. Un linguaggio fra il miliare e il rinunciatario. Perché, mi dice un caro amico di lingua madre inglese, non lock in? Chiudere la porta al pericolo, è qualcosa di più attivo e razionale del gettarsi giù per terra. Ma noi, tutte e tutti, a dire e a ripetere lock down. Almeno per quanto riguarda il virus. Ma per quanto riguarda il referendum costituzionale, noi “resistenti costituzionali”, ci siamo ritrovati in, e molto connessi fra di noi.
Abbiamo avviato esperimenti di attivismo civile a distanza, di riflessione sulla inedita esperienza in corso, tutte e tutti dentro casa, ma non per terra. Ci siamo preparati al referendum, pur sapendo che non lo avremmo vinto. La seconda ragione della sconfitta annunciata? L’opinione popolare, ampiamente diffusa, che il Parlamento, pur con tutti i suoi alti numeri, lavorasse male. Ma non da poco tempo. Da molto, moltissimo tempo. Quale migliore occasione di un referendum popolare, per dirlo con voce alta e forte? La voce del popolo che parla è sempre alta, anche se non sempre è giusta. Ma noi “resistenti costituzionali”, con ostinazione, a partire da luglio, e durante un agosto vacanziero e troppo imprudente, con grandissime difficoltà, e scarsi mezzi - media in altre faccende affaccendati -, con pazienza quasi certosina, abbiamo cercato di portare la discussione sul piano del ragionamento, storico e politico. E’ tagliando che si migliora il Parlamento? Vale la pena reagire con la rabbia e punire, in questo caso, la incolpevole Costituzione, anziché criticare chi ha fatto leggi elettorali incostituzionali e mandato in Parlamento personale politico quasi sempre, e da molto tempo, al di sotto di quanto esige l’art.54 della Costituzione “ … I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore …”? Abbiamo cercato, con poche forze a disposizione, di metterla in politica, di entrare nel merito, di informare, discutere, parlare, chiarire le nostre ragioni. Il contrario dell’immaginare una bacchetta magica che taglia e rimodella, a prescindere. Non abbiamo vinto, ma dal 9% di marzo abbiamo superato il 30% di settembre.
Sconfitti, ma in piedi e dignitosamente. E avendo fatto incontri importanti. Con giovani colti e impegnati che stanno scoprendo il valore della politica, fatta in prima persona, e organizzata in modo permanente. Un giovane del partito democratico ha scritto una Lettera ai miei compagni, in cui rendeva pubbliche le ragioni del suo NO. La lettera si conclude con una citazione. Nella vita a volte è necessario saper lottare, non solo senza paura, ma anche senza speranza. Sandro Pertini. Una lezione di buona politica, che mi ha commosso e che mi incoraggia, nonostante questi giorni difficili in cui il Parlamento è troppo silente, dimostrando così ancora una volta che i parlamentari non hanno compreso quanto sia ampia la sfiducia popolare in chi lo abita. Con un Presidente del Consiglio che sembra non avere fiducia neppure nel Governo che presiede, se è vero che continua la pratica di suoi Decreti, a volte sconosciuti anche ai suoi ministri, che poi protestano. Parlano poco fra di loro, i ministri del Governo. E parlano poco fra di loro anche i parlamentari. Sembrano spesso preferire conferenze stampa o esternazioni extraparlamentari. Non va bene. E non c’entra la Costituzione, ma il danno è fatto da chi la onora poco e male.
Vedo però novità che credo di potere definire di natura sicuramente politica. Giovani, fino a non molto tempo fa poco visibili, che si muovono in autonomia, per il clima e per l’ambiente - questioni politiche di prima grandezza - e con ostinazione, nonostante il covid. Le sardine in Italia, che non vogliono legarsi. Cercano interlocuzioni che trovano con fatica, ma insistono, anche se i media ultimamente le trascurano, le sardine. Invece hanno agito molto nei luoghi dove in settembre si sono avute le elezioni amministrative e regionali. C’è un certo risveglio democratico, in Italia? Lo spero. Alcune intelligenze politologiche che ascoltiamo sempre con attenzione, anche dopo il referendum, insistono su un tasto che sarà difficile fare risuonare in positivo. Debbono rinascere i Partiti - dicono - senza i quali il populismo vince. Già, ma a cosa è dovuta la crisi della democrazia rappresentativa, e non solo in Italia? Cosa erano un tempo i Partiti, cosa sono poi diventati, e perché? Il nostro faticato 30% è il risultato di un nostro impegno che ha messo al centro la Costituzione e la cultura politica che la attraversa. Possono i Partiti - nessuno escluso - fare la stessa affermazione, per quanto riguarda per lo meno gli ultimi decenni? Stanno, i Partiti, studiando bene i risultati che il Cattaneo ci ha spiegato, in merito al risultato referendario? Lo sta facendo la sinistra, variamente collocata? Quanto populismo c’è nel 70% dei Sì?
Non mi nascondo - sto cercando di non accantonare il problema - che un numero non grande ma significativo di costituzionalisti si è espresso per il Sì, o non si è espresso. Pensando e dicendo, a ragione, che la grave crisi in cui versa l’Istituzione Parlamento non è questione di numeri, ma di strumenti per fare funzionare bene il Parlamento, a partire da una legge elettorale che rimetta nelle mani dei rappresentati il diritto di scegliere i propri rappresentanti. Grandi promesse in tal senso, prima del referendum. Ora il tema è silente. Come ridare ai Partiti il ruolo che la Costituzione indica, se non rinasce una cultura politica, per quanto plurale, che alla politica ridia valore? Le giovani e i giovani che stanno agendo e facendo proposte, sono, in genere, studenti o persone di buon livello culturale. Conoscono la storia, la politica e il mondo. Studiano. E, in buona misura, hanno votato NO al referendum, dicono le analisi del Cattaneo. E’ una buona notizia. Ci consente - penso alla mia generazione - di passare la mano. Sarà questa nuova generazione che, forse, farà rinascere il ruolo dei Partiti. Se i Partiti avranno una forma, una cultura e metodi diversi da quelli che li hanno resi morituri, o stravolti. C’è un ritardo di molti decenni. Poche mosche bianche, e inascoltate, lo dicevano, ben prima di Mani Pulite.
E, sempre per mettere il naso fuori di casa, quello che più ci preoccupa, in queste giornate di fine ottobre, sono le elezioni presidenziali in USA. Una parte - vedremo presto quanto grande - di popolo americano ha vissuto questi quattro anni di Trump come un incubo. Non è una metafora, è stato veramente un incubo, che testimonia quanto anche una democrazia di lunga durata come è quella statunitense, possa contenere demoni latenti, ma che esplodono quando trovano una fenditura, o un vuoto. Ma le democrazie contengono anche anticorpi. E’ quello che abbiamo visto quando straordinarie manifestazioni di donne hanno protestato contro la volgare misoginia di Trump. Quando manifestazioni antirazziste hanno scosso tutti gli Stati dopo la orrenda uccisione di George Floyd. Quando, recentemente, idee socialiste sostenute da giovani e bravissime donne del Partito democratico, stanno arrivando nelle Istituzioni, al Congresso e al Senato. Ho pensato, nei lunghi e difficili mesi del covid.
Chissà che non si inveri, in questo nostro tempo, la previsione di Marx, smentita fin qui. Che il socialismo si faccia strada nei paesi a capitalismo maturo. Ma di nuovo smentendo Marx, almeno in parte. Non sarà la classe operaia a fare la rivoluzione. Stanno facendo una rivoluzione culturale senza armi donne, uomini, giovani e non, che hanno studiato, che conoscono la storia, che non intendono più vivere in un mondo dove economia, politica e scienza marciano separati e non di rado ostili a ciò che è comune. Il vivere, il soffrire, e la ricerca della felicità. Come Jefferson scrisse all’inizio della prima rivoluzione moderna perché repubblicana. Res publica, grandi parole. Che siano in mente ai più di settanta milioni di cittadine e cittadini statunitensi che hanno già votato? Un numero così alto di voti prima del tre novembre non si era mai visto, nel secolo scorso e fino ad oggi, negli States. Per uscire subito dall’incubo? Lo speriamo. In caso contrario, l’incubo continuerebbe anche per noi.
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La seconda fase della pandemia è in pieno svolgimento e, ormai assuefatti alle difficoltà, ci predisponiamo ad altre lunghe giornate in casa, al lavoro di smart working, se studiamo in DAD o se siamo madri, svolgendo anche il secondo e terzo lavoro in famiglia, con bimbi, mariti, cucina, pulizie ecc.
Speriamo non sia come la prima ondata che ci travolse, spingendoci in una fase di angosciosa attesa del cataclisma, con il bollettino montante di infetti, i morti, gli ospedali al collasso, i divieti assoluti, i runners inseguiti dai droni, spaesati in una vicenda più grande della nostra immaginazione.
Ora siamo alle prese con uno stato d’animo in parte diverso, dall’angoscia alla rassegnazione fatalistica che “adda passà a nuttata”, ma già sappiamo quale potrebbe essere il trend, almeno fino a febbraio, se nel frattempo non arriva, come promesso “Babbo natale vaccino”, ma sappiamo che potrebbe essere un’illusione e quindi restiamo calmi e non ci facciamo prendere dall’euforia.
Come invece sembra fare Trump, ormai assediato dalla catastrofe che non ha voluto accettare e che oggi lo sta stritolando, mentre lui cerca disperatamente di contrastare ed esorcizzare con innaturale e illogico ottimismo, la paura diffusa dei suoi concittadini.
Così ci avviciniamo alla fine di questo “Annus horribilis” bisestile come si conviene nella più tradizionale delle tregende, sembrava ieri gennaio in cui festeggiavamo l’ingresso nel terzo decennio del nuovo millennio, rinfrancati dallo scampato pericolo di una vittoria leghista in terra emiliano romagnola, per poi ritrovarci in men che non si dica nell’incubo di Alzano, e di mezza Italia squassata dalla più incredibile delle epidemie pensabili.
Ora che sappiamo come possiamo difenderci, che bisogna rispettare la trilogia “indossare la mascherina, mantenere la distanza (non sociale) e lavarsi le mani, ora ci appare meno sopportabile il sacrificio di non poter andare al bar la sera, o al cinema, mentre per centinaia di migliaia di persone, torna l’incubo di perdere il lavoro magari da poco a fatica ricominciato.
Sappiamo che la soluzione di questa crisi sarà un affare lungo, ma soprattutto che se non cambia il modello socio economico e non si va verso una società veramente diversa, in cui i diritti fondamentali sono garantiti: in primo luogo quello alla salute e ad una vita degna, non ci sarà pace sociale, perché non si può pensare che la gente accetti di soccombere, altrimenti sarà “mors tua vita mea” e allora si salvi chi può.
I sintomi di questa disgregazione ci sono tutti, è bastato l’ennesimo discorso fuori posto del Governatore della Campania per far esplodere la rabbia a Napoli, strumentalizzata o meno che sia, immediatamente replicata in tutt’Italia.
Ovviamente la destra, in combutta con i gruppi di violenti, cerca di soffiare sul fuoco e di trarre vantaggio dal malessere. È solo un primo segnale di quel che può accadere, rendiamocene conto tutti prima che sia troppo tardi.
Emerge in questa difficile situazione, la contraddittorietà inefficace dell’attuale rapporto stato-regioni mal gestito, l’acuirsi di differenze, di conflitti, di sperequazioni, mentre sarebbe necessaria come mai, un’azione coerente di governo di un’emergenza complessa come questa. Ai profeti e difensori ad oltranza dell’autonomia differenziata, occorre evidenziare questa evidente verità. Non servono a niente Regioni-principato!
Commenta (0 Commenti)Un interessante dibattito si è sviluppato sulla stampa e sui social a seguito delle recenti affermazioni di Papa Francesco, che sempre più sembra orientare la sua dottrina sui problemi e sulle necessità dell’uomo in carne e ossa. Questo spostamento evidente dalla liturgia impalpabile alla concretezza dei problemi terreni sta accentuando una spaccatura evidente in seno alla Chiesa e ai fedeli. A Papa Francesco viene contestata la “teologia del popolo” che sarebbe espressa nella sua enciclica Fratelli Tutti. L’altro giorno, in una lunga intervista sulla stampa, l’ex punk Lindo Ferretti, una volta fervido contestatore di sinistra e ora cattolico conservatore, spiegava bene quali sono i termini della questione. Come li spiega bene anche l’amico Gian Ruggero Manzoni sulla sua pagina fb di ieri.
Si critica aspramente l’egualitarismo ideologico dell’enciclica, che sembra volere annientare tutte le differenze. In sostanza, si dice, non esiste più storia, non esiste più geografia, non esiste passato, presente e futuro. Siamo tutti fratelli, facendo così perdere il significato vero della parola e del concetto di fratellanza.
Non è la stessa cosa essere nati a Cerreto Alpi o a Ulan Bator, non è la stessa cosa nascere ebreo o palestinese, bianco o nero, ricorda Lindo Ferretti. Si condanna esplicitamente, quindi, un papato che invece di occuparsi del sacro e dello spirito è più orientato verso l’assistenza sociale, per dirla in termini brutali.
Questa critica verso in tramonto della sacralità della Chiesa, è ripresa e portata avanti anche dallo psichiatra Umberto Galimberti, che sottolinea come sia importante per l’uomo non perdere il contatto con la dimensione sacrale di Dio.
Il dibattito è, a mio avviso, estremamente interessante e complesso perché si sviluppa su tematiche importanti con sfumature diverse. Condivido questo richiamo alla tradizione e ad una identità decisa, richiamo che deve venire anche dalla Chiesa. Tradizione e identità sono fondamentali per tutti, come insegna anche la psicologia e dico che questa tematica non può essere lasciata solo alla destra, che, oltretutto molto spesso, la riduce a grotteschi stereotipi, la bandiera, l’inno, le sfilate militari, la famiglia felice del Mulino Bianco. Concordo anche sull’importanza del sacro per quella ricerca di senso che da sempre attanaglia l’umanità e soprattutto penso che la dimensione fondamentale della religione debba essere quella spirituale, una visione che riconosce nell’uomo la capacità di andare oltre la materialità della vita, oltre ai propri limiti ristretti per abbracciare un senso più grande, un senso divino. E la fratellanza, il sentimento di interconnessione fra tutti gli esseri è un elemento spirituale altissimo e fondamentale in questo percorso di elevazione. Sono però perplesso quando, per sfuggire ai cambiamenti, ci si aggrappa ad una liturgia spesso ipocrita e vuota di significato, come è stato per secoli.
Poi quando si critica il Papa per la sua dimensione troppo umana, si dimentica che la religione cristiana, mi pare unica nel suo genere, attraverso Gesù Cristo è scesa sulla terra. Dio si è fatto uomo, questa è la sua identità e, direi, la sua forza e commovente bellezza. Se si rinnega questo avvicinamento all’uomo e si vuole solo un Dio antico e lontano, bisognerebbe avere anche il coraggio di rinnegare Gesù e tutto il Vangelo. Non si può sfuggire a questa contraddizione.
Commenta (0 Commenti)da “il Manifesto” del 21.07.2020
Non mi sembra sussistano le condizioni di fatto, né quelle di diritto, che possano giustificare la proroga dello stato d’emergenza. In base alla normativa vigente la deliberazione del Consiglio dei Ministri è subordinata al verificarsi di eventi calamitosi, ovvero nella loro imminenza, che devono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari (articoli 7 e 24 del decreto legislativo n. 1/2018). Ora, in via «di fatto», l’evento calamitoso (il ritorno della pandemia) rappresenta attualmente solo una previsione, incerta nell’an e nel quomodo. Si ricorda, a scanso di equivoci, che il termine «imminenza» utilizzato dalla norma deve essere assunto nel suo significato proprio e restrittivo di «fatto prossimo ed inevitabile», non dunque di «evento futuro e incerto». Questo tanto più nel caso di un’attribuzione di poteri straordinari.
Poteri che saranno utilizzati in deroga alle normali competenze, ritenendo che non sia possibile contrastare la situazione eccezionale con gli ordinari mezzi e poteri previsti dall’ordinamento giuridico. Ed è questo un secondo presupposto (“di diritto”) che, nella situazione nella quale ci troviamo, non è dato riscontrare. Il nostro ordinamento prevede disposizioni specifiche finalizzate a fronteggiare le emergenze sanitarie. Previsioni normative che forse erano insufficienti per fermare la pandemia nella fase più drammatica ed inaspettata, ma che ora, nella fase del contenimento e della convivenza con il virus, appaiono valide ed adeguate.
In primo luogo, l’articolo 32 della legge n. 883 del 1978 prevede che il Ministro della sanità possa emettere ordinanze contingibili e urgenti, in materia di sanità pubblica con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso nel caso dovessero riscontrarsi nuovi focolai o recrudescenze epidemiche. Inoltre, la nostra Costituzione contiene due strumenti d’emergenza che possono garantire interventi immediati e coordinati assunti dall’intero Governo, ma che coinvolgono anche gli altri soggetti sovrani (il presidente della Repubblica e il Parlamento), per fronteggiare eventuali ulteriori straordinarie necessità che dovessero sopravvenire. Da un lato i decreti legge, dall’altro i poteri sostitutivi.
Con i primi si può garantire un intervento immediato dell’intero Governo per fronteggiare imprevedibili situazioni che si dovessero venire a determinare, atti che sarebbero emanati dal capo dello Stato e, successivamente, convertiti dal Parlamento, nonché soggetti al sindacato della Corte costituzionale. Con i secondi si assicurerebbe l’omogeneità e coerenza degli interventi emergenziali in tutto il territorio nazionale, evitando
Leggi tutto: Le misure urgenti e necessarie che già abbiamo - di Gaetano Azzariti
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