I gorghi della giustizia penale e amministrativa si stanno ingoiando quel che resta del più grande impianto siderurgico d’Europa. Una tempesta perfetta, una sequenza che restituisce un clima. Una percezione del tempo degna della migliore filmografia: da “Il giorno della marmotta” al più recente “È già ieri”.
È come se un algoritmo, un’intelligenza artificiale, ci avesse catapultati in uno di quei videogiochi in cui all’inizio ti compare davanti un mostro alieno, lo abbatti, stai per rilassarti, ma ecco che ti compare davanti un altro terribile mostro, abbatti anche quello, ma non fai in tempo a gioire per la vittoria che ne arriva un terzo, ancora più terribile dei primi due. E i “mostri” non hanno identità riconoscibili, così come rischiano di non averne più i protagonisti nella vita reale.
L’”inquinamento” e i “veleni” non si fermano alla bocca degli altoforni. Corruzione diffusa, accuse incrociate, magistrati coinvolti, arresti “eccellenti”. A Taranto non fonde solo l’acciaio: “Anche lo Stato si è liquefatto negli altoforni” ha scritto Gad Lerner.
E così assistiamo allo spettacolo di ministri, ex ministri, sottosegretari ed istituzioni locali che agitano i problemi invece di contribuire a risolverli; al proliferare di dichiarazioni che nella loro irresponsabilità vanno ad alimentare il vasto repertorio della comicità involontaria e inconsapevole. Com’è possibile che dopo il danno di “un’alternativa esistenziale inaccettabile” consumata tra salute e lavoro, tutto ciò che il Paese prospetta, non solo a Taranto ma a sé stesso, sia una beffa insopportabile?
Sì, una beffa e una “diserzione” irresponsabile. Oggi che dal punto di vista degli investimenti e delle convenienze di mercato (dal versante delle tecnologie è già tutto disponibile da tempo) è possibile rendere sostenibili quelle produzioni, si agita l’illusione della “liberazione dal mostro”. Perché convenienza di mercato? Perché gli obiettivi di decarbonizzazione in Europa e, soprattutto, le dinamiche di prezzo dei certificati ETS (emettere una tonnellata di CO2 costa oggi tra 43 e 45 euro) spingono in tutta Europa la transizione dalla produzione a ciclo integrale a quella da forno elettrico alimentato a preridotto.
Ma una transizione ha bisogno di tempo, non di illusioni. C’è una “questione siderurgica” che non può non essere parte di una strategia europea che guarda alle “next generation” e al dovere di indicare loro, non una scorciatoia, ma la faticosa strada di una riconciliazione tra diritti costituzionalmente tutelati come la salute e il lavoro.
C’è bisogno di una strumentazione di politiche attive del lavoro, di ammortizzatori sociali, a livello comunitario, paragonabile da quella che fu adottata dagli anni ’80 con il “Piano Davignon”.
Chi pensa alla “liberazione dal mostro” non sa, o fa finta di non sapere, di allevarsene in casa uno ancora peggiore: la deindustrializzazione e l’inquinamento permanente di quelle aree.
“Qui a Taranto nulla ha più senso…”: bisogna non arrendersi, bisogna dare a Taranto il senso di una transizione che non riguarda una terra desolata del Sud ma il “cuore” e le prospettive della moderna industria europea.
L’autore è Segretario naz. Fiom-Cgil
Commenta (0 Commenti)Acqua bene comune. Esponenti storici e più recenti dell'ambientalismo, della sinistra non rassegnata, sindacalisti e esponenti dell'associazionismo più vario si unirono nella consapevolezza che non si poteva fare passare impunemente il capovolgimento della volontà popolare, anche se erano passati più di 2 decenni e non erano pochi quelli che avrebbero preferito abbozzare
La vittoria dei referendum del 2011 per l’acqua bene comune e contro il nucleare è importante sia perché le sfide vanno affrontate, sia perché ci fu una mobilitazione eccezionale. Che capovolse le previsioni nefaste basate sui referendum falliti nei 2 decenni precedenti, dopo la vittoria del 1987 contro il nucleare.
L’acqua bene comune aveva un radicamento e un lavoro di anni di preparazione. Il No al nucleare ha dovuto decidere con grande rapidità, perché fu il governo Berlusconi, insediato nel 2008 con un margine di maggioranza di quasi 100 deputati e 50 senatori, a tentare il colpaccio del ritorno al nucleare, malgrado il No all’80 % nel referendum del 1987 ne avesse decretato la fine.
Esponenti storici e più recenti dell’ambientalismo, della sinistra non rassegnata, sindacalisti e esponenti dell’associazionismo più vario si unirono nella consapevolezza che non si poteva fare passare impunemente il capovolgimento della volontà popolare, anche se erano passati più di 2 decenni e non erano pochi quelli che avrebbero preferito abbozzare. Quindi occorreva sfidare Berlusconi e Scaiola in un nuovo referendum contro il nucleare. Unico modo per fermare una macchina affaristica e politica che sembrava ormai inarrestabile.
Così fu. Si arrivò al referendum sul nucleare, visto all’inizio da alcuni come un disturbo a da altri perso in partenza. Di Pietro organizzò la raccolta delle firme necessarie, pur avendo concordato con le 5 associazioni ambientaliste dell’epoca di non fare fughe solitarie. Non era un estraneo, era l’alleato scelto da Veltroni nel 2008. Perfino il quesito fu concordato con la supervisione del mai abbastanza rimpianto Gianni Ferrara.etro capì rapidamente che un conto era raccogliere le firme, altro era vincere il referendum e convenne di lasciarsi alle spalle le polemiche per convergere nella campagna referendaria sul No al nucleare.
Il presidente di Lega Ambiente fu indicato dalle associazioni ambientaliste come riferimento per realizzare questa convergenza, per fare vincere il No. Il coinvolgimento di esponenti dell’ambientalismo fu enorme, esperti di vario tipo si mobilitarono (Giorgio Parisi grande fisico, Umberto Guidoni primo astronauta italiano) portando un contributo di argomenti e di idee formidabile. La mobilitazione crebbe in svariati ambienti. Anche in quelli che nel referendum dell’87 non si erano mobilitati.
Il contributo di una parte importante del sindacato fu la grande novità, non l’unica. La sinistra tentennò a lungo, non era convinta, non credeva fosse possibile vincere e comunque il rapporto con lo strumento referendum è sempre stato controverso. Eppure come dimenticare l’importanza civile, culturale e politica dei referendum sul divorzio, sull’aborto. Il referendum è uno strumento di cui non abusare, come hanno imparato i radicali, ma quando c’è occorre schierarsi.
Ad esempio sui 6 referendum sulla giustizia promossi dalla Lega e dai radicali non si può restare a guardare, occorre schierarsi per il No senza ambiguità perché al centro c’è l’autonomia della magistratura. Certo la magistratura è in crisi, riforme sono necessarie, ma se passano i referendum la sua autonomia sarà travolta e l’assetto democratico dell’Italia potrebbe entrare in affanno.
Le sinistre sbagliarono perché non entrarono con la necessaria decisione nella campagna referendaria del 2011, in cui l’imputato era il governo Berlusconi, e ancora di più perché non hanno risposto alle attese dopo la vittoria, lasciandosi influenzare da un lobbismo che punta, ne ha scritto Marco Bersani sulle pagine de il manifesto, a quotare in borsa l’acqua bene comune. Ne ha approfittato chi del rapporto con i movimenti ha fatto la ragione della sua avanzata travolgente.
Il Movimento 5 Stelle ha avuto un risultato importante nelle elezioni del 2013 perché si è attribuito ruoli che altri non hanno saputo rivendicare, finendo con il lasciare orfana una mobilitazione di milioni di persone senza riferimenti adeguati a sinistra. Qui ha messo radici né di destra né di sinistra. Le sinistre debbono re-imparare a scegliere sulla base dei loro valori senza avere timori della mobilitazione di massa, che non è un pranzo di gala ma consente di premere per svolte o impedire sfondamenti.
Commenta (0 Commenti)Riferendomi ai soli ultimi episodi delle grandi disgrazie nel nostro paese, una rappresentanza politica di sinistra che volesse essere tale dovrebbe attaccare senza remore, senza riflettere, senza misura contro le privatizzazioni. L'abbiamo visto bene con il covid cosa ha voluto dire aver privatizzato la sanità in termini di riduzione del servizio di cura.
Il privato, l'imprenditore pensa solo ai suoi interessi, pensa solo a far soldi. Lo stato deve tutelare l'incolumità dei cittadini e non deve affidare ad un privato i servizi fondamentali. Una persona non può morire perché il privato che gestisce l'autostrada non fa manutenzione al ponte Morandi, ed a tanti altri ponti che sono crollati.
I pendolari che viaggiano in treno non possono morire per deragliamento perché non si è fatta manutenzione ai binari. I cittadini di Viareggio che dormivano in un quartiere vicino alla ferrovia non possono morire bruciati perché un privato che usa le linee ferroviarie per far girare vagoni pieni di gas usa vagoni con ruote che non girano.
14 persone non possono morire nella funivia di Mottarone perché vengono rimossi i sistemi di sicurezza per far viaggiare più persone possibili. Cioè per vendere più biglietti. Cioè per fare soldi. Anche in questo caso una linea di proprietà pubblica data in gestione ad un privato.
Il mio è un pensiero ideologico, non ho dubbi. Ma consentire di fare soldi sulla pelle delle persone cos'è? Per me un politico di sinistra, soprattutto se proviene dalla militanza nei partiti storici di sinistra non può firmare le privatizzazioni ma deve urlargli contro, nello stesso tempo non può firmare la cessazione del blocco dei licenziamenti indotti dal covid ma deve fare la guerra a chi vuole licenziare.
Aggiungo che il sig. Bonomi presidente degli industriali dovrebbe avere qualche problema nella sua attuale campagna per liberalizzare e licenziare, invece niente. Nessuno lo metterà in relazione come responsabilità di rappresentare persone che si definiscono imprenditori e che causano orrende disgrazie.
No questo non accade perché poi nei processi, come in quello di Viareggio un operaio che osasse di raccontare come non venivano fatte le manutenzioni ai carrelli, viene a sua volta condannato perché si era espresso contro l'azienda per cui lavorava. Ecco come siamo messi!
Commenta (0 Commenti)I drammatici e sanguinosi avvenimenti in terra di Israele ci chiamano alla solidarietà verso i civili, palestinesi e israeliani.
Nel mondo occidentale, anche in Italia, ci si è schierati subito con lo Stato d’Israele, guidato da Netanyahu, inquisito per corruzione; corruzione che da anni ha delegittimato anche l’attuale gruppo dirigente palestinese guidato da Abu Mazen.
In uno Stato che giuridicamente contempla due diverse categorie di cittadini – gli Israeliani di religione ebraica e gli arabi israeliani , non pari davanti alla legge nei diritti e nei doveri; in uno Stato che nei confronti di Gaza e di quello che rimane un aborto di pseudo stato palestinese esercita, né più né meno, un neocolonialismo indiretto ed è sempre pronto ad intervenire con la forza armata, si è giunti, per compiacere gli estremisti religiosi di casa propria, ad espropriare famiglie che abitavano le loro case da oltre duecento anni senza soluzione di continuità, provocando così un’esplosione di violenza come da anni non si vedeva in quelle terre martoriate.
Ci giungono notizie di orribili di violenze inaccettabili: estremisti israeliani alla caccia di arabi, sinagoghe devastate, bambini uccisi, bombardamenti, razzi sparati a casaccio per uccidere e terrorizzare.
Schierarsi subito da una parte, senza riflettere, senza cercare di capire, non aiuta la causa della pace, non aiuta i più deboli: le popolazioni civili. Sarà perché tra i pensieri e le parole che mi hanno formato ci sono quelle di David Grossman e di Edward Said, ma trovo superata qualsiasi divisione manichea, utile solo ad estremismi e fanatismi simmetrici che si autoalimentano.
A Rabin, poco prima di essere assassinato da un’estremista israeliano, sono attribuite le seguenti parole: “La pace si fa con il nemico”. Questo dovrebbe essere l’orizzonte dell’Europa e della comunità internazionale: farsi carico con serietà, ostinazione e coraggio di iniziative diplomatiche di pace, tutto il resto è inutile retorica che sconta profondi e inconsci sensi di colpa.
Martino Albonetti
Commenta (0 Commenti)OPINIONE
Il 25 aprile della LIBERAZIONE e della LIBERTA’
Con una risposta a Giuseppe De Rita
Giuseppe De Rita sostiene che il 25 aprile è una festa che non ha più senso. Cosa avrà voluto dire? E’ necessario chiedercelo. Non ho dubbi che De Rita sia antifascista.
Quindi? E’ la constatazione di un sociologo che legge la realtà e la interpreta? Ma da un sociologo della sua fama ci si aspettano descrizione e analisi.
Non flash che assomigliano a battute amare. Per non dire irritate.
Il 25 aprile non ha più senso. Per chi?
Per chi ne conosce il significato, ha un doppio senso. Per i fascisti e gli eredi politici del fascismo, di sfumature varie, ha un senso negativo, da cancellare. Il senso della sconfitta.
Per chi proviene, in prima persona o per storia familiare, dall’antifascismo militante, è una festa imprescindibile nel suo enorme valore.
Il valore della libertà. La libertà, diceva Piero Calamandrei, che ha il valore dell’aria. Ne conosci veramente il valore quando l’aria viene meno.
Per gli afascisti, gli indifferenti rispetto ad ogni questione civile che non li riguardi in prima persona, è un giorno come un altro, salvo il godere di una giornata di riposo.
Gli indifferenti. Quelli che Antonio Gramsci detestava. Il tarlo che rode dall’interno ogni democrazia, un tarlo pericoloso perché silenzioso e invisibile. A volte, si vede il marciume quando è troppo tardi.
Il 25 aprile divide, o non dice più niente a nessuno, quindi mettiamoci una pietra sopra? Divide ancora? Perché?
Non c’è una sola festa, e non solo in Italia, che sia vissuta allo stesso modo, felice o infelice che sia.
Anche il 14 luglio, in Francia, non ha lo stesso valore in ogni ambito e per ogni persona. Ma nessun francese ignora cosa accadde il 14 luglio del 1789.
Il 4 luglio, negli USA, è festa molto sentita. Chi ne gioisce va dai radical democratici ai sovranisti, con spirito opposto. Ma nessuno, negli USA, dice che è una festa priva di significato.
La generazione italiana giovane non conosce il significato del 25 aprile? Tutta la gioventù? Strana generalizzazione. Questo sarebbe un vero e grande guaio, e non solo per il 25 aprile.
La vera e drammatica questione è che la conoscenza della storia è merce rara, nel nostro paese. Nei piani bassi e nei piani alti.
Credo che De Rita dovrebbe preoccuparsi di un paese che ha pochi parlamentari che conoscono la nostra storia, Costituzione compresa.
E che il primo vulnus alla nostra Repubblica, sia stato, poco dopo il suo inizio, il mettere molta polvere sotto il tappeto.
Molti fascisti, anche criminali, nei ministeri, nell’esercito, nella magistratura, nella scuola. L’armadio della vergogna docet.
Non sono soltanto i giovani che conoscono poco la storia. Pochi sanno che i nodi individuati dal Risorgimento democratico non sono stati sciolti. Neppure Giolitti lo ha fatto. Che la prima guerra mondiale ha sconvolto il mondo, e non solo l’Italia. Che il fascismo sembrò la risposta che, andando per le spicce, metteva ordine.
De Rita ridicolizza gli uomini del CLN che, a Liberazione compiuta, sfilano in giacca e cravatta. Ma dietro di loro c’era tanta gioventù armata. Di questo non parla, De Rita. Come dovevano sfilare, i rappresentanti del CLN, con fucili spianati? La nostra non fu solo una Resistenza armata di armi. Ci furono tante altre buone armi, se proprio vogliamo usare la parola armi. Quelle del pensiero, della politica, dell’etica civile, opposte a quella del regime. Claudio Pavone lo ha spiegato in modo magistrale. E molte donne storiche hanno spiegato il significato liberatorio, per le donne, della Resistenza delle donne antifasciste. Una per tutte, Anna Rossi-Doria.
Gli uomini del CLN, sfilando così vestiti, vollero significare che la gioventù antifascista armata aveva consentito loro di ritornare a una vita civile finalmente senza armi. In pace, con abiti in borghese, che non vuole dire abiti borghesi, come De Rita dovrebbe sapere. Gli uomini del CLN comprendevano bene il significato dei simboli, esperti di semiotica più di De Rita.
La nostra gioventù, quella che studia, quella civilmente impegnata, nel volontariato, nell’ambientalismo, per i diritti civili e sociali, non sa cosa significhi il 25 aprile? De Rita non conosce questa gioventù.
E’ una gioventù innamorata della Resistenza, del 25 aprile, di Bella Ciao.
La gioventù a cui mi riferisco è tutta la gioventù? Certamente no. Forse sono in maggior numero gli indifferenti? Non lo escludo.
C’è anche una gioventù fascista o neofascista?
C’è, si vede, si sente. Non si nasconde. E’ rumorosa. E’ di numero superiore alla gioventù antifascista, impegnata quotidianamente per l’attuazione della Costituzione, molto più di quanto non facciano molti parlamentari?
Non credo. Ma sono modi di essere giovani su fronti opposti, non c’è retorica di necessaria riconciliazione che tenga. Piero Calamandrei disse che la patria era stata uccisa dal fascismo e che l’antifascismo l’avrebbe fatta rinascere. Recentemente Maurizio Viroli ci ha ricordato una espressione di Norberto Bobbio, che sceglieva le parole con cura. L’antifascismo deve essere intransigente e sprezzante. Sprezzante? Certo, perché privo di valore, da disprezzare. E, aggiungeva Viroli, noi antifascisti siamo in difficoltà, se pensiamo di dovere comprendere e perdonare. Comprendere nell’accezione della comprensione storica dei fatti, premesse, contesti, conseguenze? Certamente. Ma comprensivi come con un fanciullo che, per inesperienza, ha sbagliato? Sicuramente no.
Perdonare? Impossibile. Altri totalitarismi hanno compiuto altri disastri? Non è l’alibi per perdonare.
Nessuna tragedia della storia va perdonata. Il perdono non è una categoria della storia e della politica.
Con questi pensieri andrò, fra poche ore, alla cerimonia del 25 aprile.
Ben sapendo che il 25 aprile, e la nostra Costituzione, sono ancora poco onorati.
E che avrebbero meritato, e meritano, molto più, e meglio, di quanto il popolo italiano e i sui rappresentanti abbiano fino ad oggi fatto.
Maria Paola Patuelli
25 aprile 2021
Commenta (0 Commenti)Questa mattina di buon’ ora ho ricevuto un dono prezioso. Mi stavo chiedendo come inviare a chi ci segue da anni, per difendere la nostra Costituzione, un sensato augurio di BUON PRIMO MAGGIO.
Il dono è arrivato al momento giusto, inviato da una amica come noi resistente.
Parole di Italo Calvino, scritte un minuto dopo avere deposto il fucile, un minuto dopo la sconfitta del fascismo e del nazismo. Nelle parole di Calvino c’è tutto lo spirito di quei giorni, una gioia intensa, la più intensa mai provata prima, in Italia. Contiene già interrogativi che ancora oggi non sono sciolti. Fascismo parentesi? Già Gobetti aveva scritto che il fascismo era, in realtà , l’autobiografia della nazione. Non è parentesi, incidente eccezionale di percorso, perché i conti con il fascismo - conti risolutivi – non si sono fatti. Scrive Calvino. Polizia, esercito, burocrazia trovarono nel clima fascista l’ambiente ideale a prosperare in una corruzione beata e incosciente. Possono oggi queste istituzioni continuare a funzionare se non profondamente rivoluzionate? Molto dobbiamo distruggere se molto vogliamo ricostruire. Nella Repubblica nata dopo queste meravigliose giornate polizia, esercito, burocrazia – aggiungo ministeri, magistratura, come ha dimostrato Davide Conti con ricerche esemplari - erano ancora zeppi di fascisti, anche di criminali di guerra. Poco si distrusse, del passato, e nelle radici della Repubblica continuarono a vivere veleni, che fioriscono ancora oggi. Calvino ricorda che per vent’anni il primo maggio fu festa proibita.
Ho sentito raccontare, fin da bambina, che ci furono resistenze antifasciste, a tavola. Anche nelle famiglie antifasciste più povere, il primo maggio spuntavano i cappelletti, il più prelibato dei nostri cibi romagnoli.
L’ultimo interrogativo di Calvino. La fratellanza – aggiungo anche sorellanza – universale è utopia? Fino ad oggi lo è. Nel senso che non è in nessun luogo, se non in ambiti religiosi - di varie confessioni - alquanto circoscritti. Non ho la certezza che trovo nelle ultime parole di Calvino. Fratellanza e sorellanza farebbero un passo avanti solo se si insediassero definitivamente nei partiti e nei movimenti politici che li proclamano. Di rado a parole buone seguono fatti altrettanto buoni.
BUON PRIMO MAGGIO, comunque.
Maria Paola Patuelli
PRIMO MAGGIO VITTORIOSO
Italo Calvino
Prendiamoci per mano, oggi, uomini e donne di tutto il mondo, sfiliamo per le strade delle nostre città in rovina, cantiamo, se il nodo di commozione che ci stringe la gola non ce lo impedisce: è il primo maggio, il primo maggio più radioso che l’umanità abbia festeggiato finora.
Sogniamo? o forse fu un sogno quello che trascorremmo, un torbido incubo che terrorizzò il mondo per una lunga teoria d’anni ed ora è svanito? Il momento atteso per anni con impazienza sempre più assillante, invocato giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, trasfigurato dalle nostre menti quasi in un mito irraggiungibile. Quel momento ora è giunto.
Chi pensa più ai lutti, alle sofferenze, alle rovine? La vittoria è arrisa alle forze della libertà, della giustizia, del progresso. La stanca umanità oggi appunta garofani rossi sulla sua veste di lutto.
La storia continua. Il cammino dell’uomo verso il completo affrancamento morale non poteva arrestarsi contro i muraglioni e i «bunker» dell’Organizzazione Todt. Le costruzioni di cinque secoli di progresso non potevano crollare per le esplosioni delle V2. Il fascismo – e con questo termine comprendiamo anche il nazismo e i vari movimenti reazionari affini sorti in Europa dopo la prima guerra mondiale – il fascismo che si proponeva di cancellare le conquiste di almeno cinque secoli e di riportare la società al livello morale del medioevo, non rappresenta che una oscura parentesi di un venticinquennio nel bilancio della storia.
Parentesi? Possono nella storia del progresso esistere parentesi? Come si spiegano? Che fu insomma questo fascismo che arrecò al mondo più rovine di qualsiasi catastrofe ed ora agonizza sotto l’impeto delle armate di tutte le nazioni, unite contro di lui?
In questo primo maggio di eccezione – di eccezione soprattutto per noi Italiani ai quali per oltre vent’anni fu impedito di festeggiarlo – noi salutiamo i grandi ideali cui la festa è dedicata: l’affrancamento del lavoro dal tallone capitalista che usa del lavoratore come una merce o di uno strumento, l’unione fraterna di tutti i popoli, senza più frontiere né mercati da conquistare a mezzo di periodiche guerre, l’eguaglianza di diritti di tutti i lavoratori di fronte ai beni che il lavoro produce.
Fu contro questi ideali umanitari, i più sublimi cui mai uomo aspirasse, che sorse il fascismo; a essi ideali mosse guerra e ad essi tentò di sostituire le folli e retoriche ideologie imperialiste e razziste, il reazionario culto delle tradizioni e una sua cosiddetta etica fatta di sopraffazione e violenza. Perché? Quali le ragioni ultime di tutto questo?
Troppo facile ed insoddisfacente sarebbe l’additare come sola causa la volontà di due folli megalomani, il prodotto di due cervelli malati, ricoperti rispettivamente da un cranio pelato e quadrato e da un ciuffo sbilenco ed obliquo. La storia è risultato di complicati giochi di forze economiche, non prodotto di volontà individuali.
Alla luce dei recenti avvenimenti i due dittatori ci appaiono immensamente piccini al confronto degli eventi da loro scatenati.
Il fascismo fu la sbirraglia scatenata contro il proletariato per impedire la sua emancipazione: questa la manifesta realtà dei fatti. Il mostruoso fu che essa venne posta al governo del paese. Nel ’22 la libertà politica fu venduta pur di conservare la libertà economica.
Sotto la nera bandiera della reazione trovarono subito un comodo usbergo istituzioni, che mutato il vento furono le prime a trasferirsi all’opposizione.
Polizia, esercito, burocrazia trovarono nel clima fascista l’ambiente ideale a prosperare in una corruzione beata e incosciente. Possono oggi queste istituzioni continuare a funzionare se non profondamente rivoluzionate?
Molto dobbiamo distruggere se molto vogliamo ricostruire.
Ma più infami di tutte furono le recenti imprese, da quando, dopo il collasso del ’43, tramontati i miti imperialisti, perduto l’appoggio del capitalismo e passato all’incondizionato servizio del padrone tedesco, il fascismo scoprì d’essere nientemeno che repubblicano e sociale.
C’era contraddizione nei termini ma tanto, erano solo parole e nessuno le prese sul serio. Di fatto il cosiddetto fascismo repubblicano non fu che una organizzazione poliziesca e spionistica al soldo dei tedeschi e non occorre rinnovare il troppo fresco ricordo dell’infamia di cui si coperse.
Questo fino a ieri, a pochi giorni fa. E adesso …
Ancora pochi giorni or sono mentre combattevamo sotto le raffiche dei “mitra” fascisti e dei “machine-pistole” nazisti, ancora non osavamo sperare che il 1° Maggio avremmo lasciato il moschetto per la penna. Ma sia impugnando la penna, sia il moschetto noi continueremo a combattere per il medesimo ideale.
L’ideale che in un 1° Maggio non lontano gli uomini si riconoscano tutti liberi e fratelli, le fabbriche cessino di forgiare strumenti di morte, ci sia per tutti lavoro e riposo, la produzione non subisca carestie né congestioni, l’arte e la scienza, veri fini dell’umanità attingano a nuove conquiste.
Utopie? Ci si arriverà, siatene certi. Dipenderà da noi l’arrivarci in dieci anni o in dieci secoli. Solo allora potremo dire che il sacrificio dei tanti caduti nella lotta non è stato sterile.
Commenta (0 Commenti)