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 CRISI DI GOVERNO. Mentre nel cuore dell’Europa infuriava la guerra, l’inflazione mangiava salari e pensioni, e la pandemia raggiungeva, in piena estate, il massimo dei contagi, in Italia, un febbrone da fine legislatura provocava la crisi del governo di unità nazionale

Le destre a cavallo della crisi Mario Draghi - LaPresse

Mentre nel cuore dell’Europa infuriava la guerra, l’inflazione mangiava salari e pensioni, e la pandemia raggiungeva, in piena estate, il massimo dei contagi, in Italia, un febbrone da fine legislatura provocava la crisi del governo di unità nazionale.

Forse le cronache di questa tribolata stagione racconteranno così l’avvitamento politico-istituzionale che da ieri coinvolge le forze politiche chiamate, sedici mesi fa, dal presidente Mattarella a unirsi per il bene comune: Un matrimonio forzato, dopo aver mandato a casa il governo giallorosso, appena seduto sulla montagna dei duecento miliardi europei, concessi a una Italia devastata da decine di migliaia di morti, vittime del virus.

A essere sinceri nemmeno Lenin avrebbe saputo

evitare il marasma pentastellato in cui è finito Giuseppe Conte, capo di un Movimento di radicale opposizione, azzoppato da una scissione ben orchestrata e attanagliato dallo spettro di un bagno elettorale, l’ennesimo, quando si apriranno le urne delle prossime elezioni politiche.

Naturalmente una mano alla rottura politica l’ha data anche il presidente del consiglio, quel deus ex-machina chiamato dal Capo dello Stato a lasciare il buen retiro per commissariare il paese. “La maggioranza che ha sostenuto il governo non c’è più. E’ venuto meno il patto di fiducia. Salirò al Quirinale a rassegnare le mie dimissioni”.

Draghi nulla ha concesso alle contorsioni politiche del suo predecessore, lasciandolo impigliato nella formula, bizantina e disperata, coniata dai 5Stelle: “Non votiamo la fiducia ma non usciamo dal governo”. Senza mettere nel conto il particolare che, intanto, dal governo sarebbe uscito Draghi (come raccontava ieri la vignetta di Giannelli sul Corriere della sera).

Alla fine Conte è rimasto solo, con l’alleato, il Pd di Letta, che gli volta le spalle, anche comprensibilmente visto che con lo smarcamento dei 5Stelle sul fronte dell’agenda sociale, resta l’unico partito filogovernativo a oltranza, insieme all’informe compagnia centrista.
Se il campo largo del centrosinistra tende a restringersi, tutta la destra festeggia vedendo profilarsi all’orizzonte dell’autunno il traguardo di una vittoria elettorale a portata di mano. Non è difficile immaginare Salvini, Meloni e Berlusconi tornare in piazza cavalcando le sofferenze dei più deboli, decisi a sventolare le bandiere della lotta contro il reddito di cittadinanza, il salario minimo, la riconversione ecologica, aizzando il partito dell’evasione fiscale. E naturalmente già pronti a farsi paladini di una politica estera intrisa di nazionalismo e di amore ricambiato per l’autocrazia putinista.

Del resto che il governo di unità nazionale, calato dall’alto del gotha economico-finanziario, avrebbe fatto male soprattutto alle forze della sinistra era abbastanza scontato. L’inasprimento delle povertà, così ferocemente fotografato dall’Istat, in mancanza di riforme strutturali e in presenza di un massiccio astensionismo delle periferie sociali, non promette niente di buono. Chi deve scegliere se mangiare o riscaldarsi non sente ragioni.

Draghi ieri, nel salutare i suoi ministri dopo le dimissioni (respinte in serata da Mattarella), li esortava e essere orgogliosi dei risultati raggiunti. Noi non ne vediamo di così rilevanti, né sul piano di una riforma fiscale o del welfare, né su quello dell’occupazione o della scuola.
Sarebbe bastato vedere in campo la metà delle misure promosse dal governo di Sanchez in Spagna (tasse per le banche e per le imprese energetiche, trasporti pubblici gratis, tanto per citare le ultime), subito accusato di populismo dalle destre del suo paese. Un populismo che ci piace.