Giuseppe De Rita sostiene che il 25 aprile è una festa che non ha più senso. Cosa avrà voluto dire? E’ necessario chiedercelo. Non ho dubbi che De Rita sia antifascista.
Quindi? E’ la constatazione di un sociologo che legge la realtà e la interpreta? Ma da un sociologo della sua fama ci si aspettano descrizione e analisi.
Non flash che assomigliano a battute amare. Per non dire irritate.
Il 25 aprile non ha più senso. Per chi?
Per chi ne conosce il significato, ha un doppio senso. Per i fascisti e gli eredi politici del fascismo, di sfumature varie, ha un senso negativo, da cancellare. Il senso della sconfitta.
Per chi proviene, in prima persona o per storia familiare, dall’antifascismo militante, è una festa imprescindibile nel suo enorme valore.
Il valore della libertà. La libertà, diceva Piero Calamandrei, che ha il valore dell’aria. Ne conosci veramente il valore quando l’aria viene meno.
Per gli afascisti, gli indifferenti rispetto ad ogni questione civile che non li riguardi in prima persona, è un giorno come un altro, salvo il godere di una giornata di riposo.
Gli indifferenti. Quelli che Antonio Gramsci detestava. Il tarlo che rode dall’interno ogni democrazia, un tarlo pericoloso perché silenzioso e invisibile. A volte, si vede il marciume quando è troppo tardi.
Il 25 aprile divide, o non dice più niente a nessuno, quindi mettiamoci una pietra sopra? Divide ancora? Perché?
Non c’è una sola festa, e non solo in Italia, che sia vissuta allo stesso modo, felice o infelice che sia.
Anche il 14 luglio, in Francia, non ha lo stesso valore in ogni ambito e per ogni persona. Ma nessun francese ignora cosa accadde il 14 luglio del 1789.
Il 4 luglio, negli USA, è festa molto sentita. Chi ne gioisce va dai radical democratici ai sovranisti, con spirito opposto. Ma nessuno, negli USA, dice che è una festa priva di significato.
La generazione italiana giovane non conosce il significato del 25 aprile? Tutta la gioventù? Strana generalizzazione. Questo sarebbe un vero e grande guaio, e non solo per il 25 aprile.
La vera e drammatica questione è che la conoscenza della storia è merce rara, nel nostro paese. Nei piani bassi e nei piani alti.
Credo che De Rita dovrebbe preoccuparsi di un paese che ha pochi parlamentari che conoscono la nostra storia, Costituzione compresa.
E che il primo vulnus alla nostra Repubblica, sia stato, poco dopo il suo inizio, il mettere molta polvere sotto il tappeto.
Molti fascisti, anche criminali, nei ministeri, nell’esercito, nella magistratura, nella scuola. L’armadio della vergogna docet.
Non sono soltanto i giovani che conoscono poco la storia. Pochi sanno che i nodi individuati dal Risorgimento democratico non sono stati sciolti. Neppure Giolitti lo ha fatto. Che la prima guerra mondiale ha sconvolto il mondo, e non solo l’Italia. Che il fascismo sembrò la risposta che, andando per le spicce, metteva ordine.
De Rita ridicolizza gli uomini del CLN che, a Liberazione compiuta, sfilano in giacca e cravatta. Ma dietro di loro c’era tanta gioventù armata. Di questo non parla, De Rita. Come dovevano sfilare, i rappresentanti del CLN, con fucili spianati? La nostra non fu solo una Resistenza armata di armi. Ci furono tante altre buone armi, se proprio vogliamo usare la parola armi. Quelle del pensiero, della politica, dell’etica civile, opposte a quella del regime. Claudio Pavone lo ha spiegato in modo magistrale. E molte donne storiche hanno spiegato il significato liberatorio, per le donne, della Resistenza delle donne antifasciste. Una per tutte, Anna Rossi-Doria.
Gli uomini del CLN, sfilando così vestiti, vollero significare che la gioventù antifascista armata aveva consentito loro di ritornare a una vita civile finalmente senza armi. In pace, con abiti in borghese, che non vuole dire abiti borghesi, come De Rita dovrebbe sapere. Gli uomini del CLN comprendevano bene il significato dei simboli, esperti di semiotica più di De Rita.
La nostra gioventù, quella che studia, quella civilmente impegnata, nel volontariato, nell’ambientalismo, per i diritti civili e sociali, non sa cosa significhi il 25 aprile? De Rita non conosce questa gioventù.
E’ una gioventù innamorata della Resistenza, del 25 aprile, di Bella Ciao.
La gioventù a cui mi riferisco è tutta la gioventù? Certamente no. Forse sono in maggior numero gli indifferenti? Non lo escludo.
C’è anche una gioventù fascista o neofascista?
C’è, si vede, si sente. Non si nasconde. E’ rumorosa. E’ di numero superiore alla gioventù antifascista, impegnata quotidianamente per l’attuazione della Costituzione, molto più di quanto non facciano molti parlamentari?
Non credo. Ma sono modi di essere giovani su fronti opposti, non c’è retorica di necessaria riconciliazione che tenga. Piero Calamandrei disse che la patria era stata uccisa dal fascismo e che l’antifascismo l’avrebbe fatta rinascere. Recentemente Maurizio Viroli ci ha ricordato una espressione di Norberto Bobbio, che sceglieva le parole con cura. L’antifascismo deve essere intransigente e sprezzante. Sprezzante? Certo, perché privo di valore, da disprezzare. E, aggiungeva Viroli, noi antifascisti siamo in difficoltà, se pensiamo di dovere comprendere e perdonare. Comprendere nell’accezione della comprensione storica dei fatti, premesse, contesti, conseguenze? Certamente. Ma comprensivi come con un fanciullo che, per inesperienza, ha sbagliato? Sicuramente no.
Perdonare? Impossibile. Altri totalitarismi hanno compiuto altri disastri? Non è l’alibi per perdonare.
Nessuna tragedia della storia va perdonata. Il perdono non è una categoria della storia e della politica.
Con questi pensieri andrò, fra poche ore, alla cerimonia del 25 aprile.
Ben sapendo che il 25 aprile, e la nostra Costituzione, sono ancora poco onorati.
E che avrebbero meritato, e meritano, molto più, e meglio, di quanto il popolo italiano e i sui rappresentanti abbiano fino ad oggi fatto.
Maria Paola Patuelli
25 aprile 2021
Commenta (0 Commenti)Faenza 6 aprile 2021
Al Presidente del Consiglio Mario Draghi
Gentile Presidente Draghi
per favore non scelga di passare alla storia come il Capo di Governo che , in un epoca di crisi sanitaria , ambientale, sociale, culturale ed economica, come quella in cui stiamo vivendo ,ha deciso di privilegiare la scelta di aumentare i finanziamenti all'industria bellica e di aumentare le dotazioni di sistemi d'arma delle nostre forze armate convinto che questo sia uno strumento utile alla ripresa economica del Paese .
In Europa si parla molto di "economia verde" ma di quale verde si tratta ,di quello della speranza da dare ai giovani delle generazioni future o del verde militare delle inquietanti tute mimetiche dei nostri soldati ?
Prima di tracciare le linee definitive del Piano di Ripresa e Resilienza Italiano legga con attenzione le 12 proposte che la Rete Italiana e Pace e Disarmo da tempo ha inviato al Governo senza ricevere alcuna risposta .Sono proposte concrete di pace e disarmo che si potrebbero inserire nel Piano di Ripresa e Resilienza Italiano che dovrà essere presentato entro il 20 aprile .
New Generation E.U. : per le generazioni future le chiediamo di non offrire loro posti di lavoro nelle industrie belliche dispensatrici di morte ma di spendere i 200 miliardi del Recovery Fund e magari anche i miliardi della Cassa Depositi e Prestiti per una vera riconversione ecologica e sostenibile dell'economia .
Eccole alcuni possibili settori d'intervento dai quali scaturirebbero migliaia di posti di lavoro :
- dissesto idrogeologico
-trasformazione ecologica della produzione ( meno plastica meno imballaggi ....)
- riassetto delle reti idriche
- un diverso ciclo energetico e dei rifiuti
- una scuola pubblica e di qualità (strutture e personale docente e amministrativo )
-una sanità pubblica territoriale ( meno Aziende e più Servizi )
- una mobilità sostenibile .
Le giovani generazioni che stanno pagando i nostri errori hanno bisogno di prospettive di speranza e non di guerre e di stili di vita che rispettino la Terra e tutti gli esseri viventi .
Ci pensi Presidente prima del 20 aprile .
Cordiali Saluti
Marcella Morelli Dal Re Via G. Da Maiano 13 48018 Faenza
Anna Colombini Cavallazzi Via Renaccio 31 48018 Faenza
Rappresentanza. Se un «partito» a sinistra non c’è, non è un caso
La discussione sulla crisi della «forma partito» dura da qualche decennio. Con il riflusso degli anni Ottanta scoprimmo che non funzionava più, né nel modello leninista d’avanguardia né in quello di «partito nuovo, di massa» di Togliatti. Il manifesto pubblicò già sul mensile del settembre 1969 un’inchiesta a firma di Lucio Magri e Filippo Maone che lanciava l’allarme sullo stato di salute del Pci e sulla necessità di connetterlo a lavoro e società).
La questione non è stata risolta neppure dai gruppi della nuova sinistra post ‘68, spesso nuclei inossidabili (Potere operaio) o puramente movimentisti (Lotta continua). L’idea di unificare la nuova sinistra in un partito unico non è mai decollata, come neppure quella di una forza alternativa al Pci di un qualche peso e dimensione. Lo stesso manifesto ha depositato al riguardo riflessioni sul merito di grande interesse fin dal primo numero del mensile nel giugno 1969 (l’intervista di Rossana Rossanda a Jean-Paul Sartre), cui seguirono saggi teorici ed esperienze nella ricerca di una strategia consigliare che guardava ad Antonio Gramsci e al socialismo dell’autogestione, ma poca pratica politica.
La crisi non è stata risolta dopo la dissoluzione del Pci, quando nel 1991 mosse i primi passi Rifondazione comunista. Di quella esperienza ci sono tracce del percorso iniziale (Garavini, Cossutta, Magri, altri) e poi di quello consolidatosi con la segreteria di Fausto Bertinotti con sforzi di innovazione politica ma non organizzativi. C’è stata infatti in Rifondazione assai poca innovazione sul tema della «forma partito», se non nel suo essere più aperto del passato nei rapporti con i movimenti (l’esperienza di Genova 2001 e dei no global). Come ci si organizza sul territorio e sul lavoro, come si partecipa alle decisioni, come si coabita in un comune luogo politico in modo plurale e organizzato sono questioni appena sfiorate da quella esperienza rifondativa.
Sul versante del Pds-Pd la consapevolezza della questione ha portato verso lidi ancora maggiormente fragili e velleitari: partito «leggero» senza sezioni territoriali e con Circoli, «primarie» come metodo nelle decisioni in cui hanno fatto finito per fare breccia personalizzazione della politica e gruppi di pressione senza neppure copiare fino il fondo le primarie del Partito democratico statunitense dove votano gli iscritti e non anche i semplici elettori. Insomma, si brancola nel buio quando si affronta la discussione sul «partito».
Se un «partito» a sinistra non c’è, non è quindi un caso. Vorrei dirlo ad Alfonso Gianni, Aldo Carra, ai tanti amici e compagni che sulle pagine del manifesto sollecitano periodicamente a porsi il rovello di una organizzazione partitica. Questa assenza non è frutto del destino cinico e baro. Bensì della mutata composizione di classe della società, delle forme digitali della comunicazione e delle tecnologie, del mutato ruolo di identità e ideologie, della crisi dell’organizzazione novecentesca in partito e altro ancora.
Un nuovo partito deve fare i conti con tutto ciò che abbiamo alle spalle. Servono, di conseguenza, sperimentazione e fantasia politico/organizzativa ammettendo che il quesito non può avere risposte prefabbricate e già fallite. Si può partire, in un inedito itinerario, per esempio dall’inventario di forme sperimentate negli ultimi anni: rete per temi omogenei, uso di internet, parzialità organizzative, nuova geografia degli interessi sociali e individuali da rappresentare (il femminismo ha prodotto tante novità in questo campo su cui riflettere), confederazione di esperienze e di soggetti diversi.
In tale riflessione resta tuttora affascinante l’idea gramsciana di «partito intellettuale collettivo» e «moderno principe» che ha il compito di indicare la rotta e di unificare in un progetto/programma gli input provenienti da movimenti e aggregazioni sociali. Questo «partito» con una sua cultura specifica che pensa alla trasformazione sociale come a un processo di «case matte» da conquistare è quello che ci manca.
Oggi, invece, la maggioranza di noi – nonostante Sinistra italiana, Articolo Uno, eccetera – è senza casa politica. Chiedersi perché è un cruccio da affrontare. Se la trovassimo, e nel nome avesse qualche riferimento a ecologia e nuovo socialismo, non sarebbe male.
Commenta (0 Commenti)Sinistra . Nel nostro orizzonte è una coalizione elettorale a diventare oggetto di strategia; una congiuntura piuttosto che una struttura. Una congiuntura dove l’autoconservazione dei già eletti, quasi sempre dirigenti ai livelli più alti dei club politici che decidono le modalità della coalizione, assume un aspetto centrale
Seggi elettorali sanificati in Francia © Lapresse
Dopo aver negato giustamente (opportunamente?) la fiducia al governo Draghi, molti dei dirigenti di Sinistra italiana hanno ribadito che ciò non metteva in discussione la loro «strategia», cioè il mantenimento per il futuro di un asse, strategico appunto, con una coalizione a centralità Pd.
Nel linguaggio di più di un secolo e mezzo di storia del movimento operaio i termini «tattica» e «strategia» sono stati utilizzati in maniera distinta, ma, nello stesso tempo, all’interno di una concezione coerente del loro svolgimento.
La «strategia» rappresentava l’aspetto profondo, la funzione storica del movimento contrapposta alle logiche, altrettanto profonde, in cui si manifestavano le diverse forme di accumulazione del capitale. La ragion d’essere, insomma, della totale autonomia teorica e politica relativa ad un’altra progettazione della modernità.
Nel nostro orizzonte è una coalizione elettorale a diventare oggetto di strategia; una congiuntura piuttosto che una struttura. Una congiuntura dove l’autoconservazione dei già eletti, quasi sempre dirigenti ai livelli più alti dei club politici che decidono le modalità della coalizione, assume un aspetto centrale.
Ora, per un partito che ha voluto chiamarsi con l’ambizioso nome di «Sinistra italiana», che si trova ad operare in un paese dove la sinistra non ha nessuna influenza sui processi di mutamento economico-sociale in corso, dove al massimo può costruire una nicchia istituzionale, quale dovrebbe essere l’obbiettivo prioritario realmente strategico? Impegnarsi, ovviamente, nella ricostruzione di un più generale soggetto politico che dia davvero senso al nome scelto per la propria componente. Una visione strategica che, proprio in quanto tale, nulla ha a che fare con i travagli all’interno del Pd.
Il Pd è un «partito governativo di centro», come l’ha definito, con ragione, la direttrice di questo giornale (16 marzo), come lo definiscono tutti coloro che fanno riferimento a disamine empiricamente fondate.
Il fatto che ci siano molti che lo negano, un po’ come succede per i no-covid, appartiene ad una dimensione psico-ideologica, a interessi di posizionamento politico. «Si tratta di puri artifici retorici (…) creati per illudere i bacini elettorali un tempo di riferimento» (L Michelini, Critica del liberismo italiano, 1990-2020, Fondazione Feltrinelli 2020). Questioni del tutto estranee tanto ad analisi teorica che ad analisi storica. Per quanto riguarda l’aspetto teorico esiste ormai una vasta letteratura di studi seri sulla completa organicità del Pd alla temperie culturale neo-liberale.
L’esame attento della storia di trent’anni delle varie «cose» e poi del Pd, prova empiricamente come tale temperie si sia risolta con coerenza nella concretezza delle scelte di politica economica.
Persino Mario Tronti, che pure la lunga vicenda delle «cose» ha attraversato da interno, dice ora che una grande sinistra di alternativa «manca in Italia da ormai tre decenni», e che il Pd avrebbe «bisogno di «diventare altro» da ciò che è (Riformista, 15 maggio). Quello di Tronti, però, non può essere che pensiero desiderante, perché l’identità profonda di un partito che, nelle varie denominazioni, ha trent’anni di storia è quella storia stessa. Sul tema dell’identità plasmata da tale storia sono possibili solo variazioni, che possono avere una qualche influenza sulla tattica relativa alle possibili coalizioni, ma nessuna sulla necessità strategica.
D’ altronde Letta è stato molto chiaro sulle caratteristiche della coalizione: «a guida Pd» e con una geometria disegnata tra i limiti di Calenda e Renzi da una parte e Fratoianni dall’altra, con quest’ultimo soddisfatto «che si rilanci la costruzione di un’alleanza plurale e larga» (il manifesto, 17 marzo). Naturalmente ha subordinato l’operazione al raggiungimento di un accordo su un programma che, per il suo partito, non può che avere caratteristiche di sinistra, suggerendo la necessità che nella definizione del programma non si possa prescindere dall’esigenza di ragionare sul «grande tema che ruota intorno al capitalismo e alle sue prospettive». Questione del tutto essenziale sul piano strategico.
Si tratta però, ancora, di un pensiero desiderante riguardo a una coalizione nella quale tutte le altre componenti considerano l’uso della categoria «capitale» in quanto criterio interpretativo di politica e storia al pari di una bestemmia in chiesa. Come pensa il segretario di «Sinistra italiana» di sciogliere questo nodo che sta alla base del suo modo di coniugare la tattica con la strategia?
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Intervista. Parla Nicola Fratoianni di Sinistra italiana
Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, dà una valutazione positiva dei primi giorni di Enrico Letta da leader del Pd: «Bene che si rilanci la costruzione di un’alleanza plurale e larga – dice – Ci sono le condizioni per lavorarci».
Facciamo un passo indietro. La nascita del governo Draghi sta ridisegnando il sistema politico? Ne uscirete come ne siete entrati?
Non penso che ne usciremo uguali. Il primo effetto è stato un terremoto nel campo del centrosinistra e del M5S e un rilancio della destra. Era prevedibile perché questo governo sposta l’asse della maggioranza verso destra. Per questo occorre lavorare per il dopo, costruire un’alternativa alle destre. È più urgente di prima.
Letta che prospettiva apre?
Apre una discussione. L’esito dipende dalla qualità dei contenuti e da come li definiremo. Occorre un confronto tra le forze politiche ma anche con le tante esperienze civiche del paese. Noi ci siamo, con le nostre idee e le nostre proposte.
Quali, in particolare?
Affrontiamo l’emergenza ma discutiamo di cosa accadrà dopo. Una riforma progressiva del fisco e una patrimoniale sulle grandissime ricchezze. Guardiamo alla Spagna, dove un governo di sinistra propone la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario fino 32 ore per quattro giornate lavorative settimanali. È una proposta che incrocia questioni del lavoro e ambientali, come la riduzione delle emissioni. E poi salario minimo e Ius soli, anche se con questa maggioranza è complicato che passi. Serve una piattaforma che definisca in modo chiaro l’alternativa tra noi e la destra.
Letta nel suo discorso di insediamento ha detto una cosa non scontata: ok all’alleanza col Movimento 5 Stelle, ma al momento non sappiamo cosa diventerà.
Cosa sarà il M5S, che oggi è impegnato in una rigenerazione con Conte, è difficile dirlo. Ma è compito di tutti lavorare fin da subito perché la rigenerazione dei 5 Stelle stabilizzi e qualifichi l’alleanza a cui lavoriamo. Fino a oggi è stata l’oggetto di un’evocazione. Su molte cose la discussione va significativamente approfondita.
Con questo governo sta emergendo anche l’ambivalenza del concetto di «transizione ecologica»: rischia diventare solo una forma di ristrutturazione capitalista.
Questo rischio si accompagna alla discussione sulla transizione non da oggi. È un grande tema che ruota attorno al capitalismo e le sue prospettive. Anche di questo bisogna fare una delle questioni centrali nella definizione del programma, mi pare del tutto evidente che non potrà essere questo il governo che avvia una transizione ecologica che vada nella direzione auspicata. Dobbiamo fare i conti con la situazione attuale pensando alla ricostruzione di un campo di alleanze e a un programma che ne definisca l’anima. Sono il primo a dire che le alleanze sono necessarie, ma perché questo impegno produca un risultato positivo serve un cambio di passo.
Con che legge elettorale? Su questo Letta fa un passo indietro rispetto a Zingaretti, rilanciando il maggioritario.
Noi continuiamo a pensare che una riforma proporzionale che restituisca agli elettori alla possibilità di scegliere gli eletti sia la soluzione migliore. Il maggioritario ha prodotto un degrado nel dibattito pubblico e peggiorato lo stato della nostra democrazia.
Come si muove in questo contesto Sinistra italiana?
Sinistra italiana in questo momento cresce, crescono gli iscritti e la partecipazione. Credo sia la risposta alla scelta politica che abbiamo fatto, non votare la fiducia a Draghi e contestualmente di rilanciare le ragioni di un’alleanza per l’alternativa. Per questo, da qui, non ci chiudiamo in uno spazio autoreferenziale ma continuiamo il confronto con ciò che si muove attorno a noi.
Come vedete la ripartenza proposta da Elly Schlein?
Mi pare che proponga uno spazio trasversale a partire dal quale costruire convergenze. Noi abbiamo le nostre proposte, a partire da patrimoniale, riduzione dell’orario di lavoro, salario minimo e sospensione dei brevetti per rendere il vaccino un vero bene comune universale. Ogni volta che si apre uno spazio Sinistra italiana è disposta a dare il suo contributo.