I dati ufficiali del ministero dello Sviluppo economico parlano di 69 aziende per le quali si cerca una soluzione. Da Whirlpool alla ex Ilva, da Carrefour a Gkn, da Saga Coffee a Prysmian. Decine di migliaia le lavoratrici e i lavoratori che avranno poco da festeggiare e molto da perdere.
Natale 2021: un anno di pandemia e vertenze arriva alla fine, lasciando sui tavoli del Mise decine e decine di situazioni complesse e lungi dall’essere risolte. I dati ufficiali del ministero, secondo le ultime dichiarazioni del ministro Giorgetti, parlano di 69 aziende per le quali si cerca una soluzione. Si contano a migliaia i lavoratori e le lavoratrici che, anche quest’anno, avranno poco da festeggiare e molto da perdere. "Un quadro impressionante", lo definisce la Cgil.
Ce lo racconta la mobilitazione della Cgil e delle sue categorie, ce lo raccontano i presìdi nella neve delle operaie di Saga Coffee a Gaggio Montano, ultima tappa di una storia di grandi, medie e piccole imprese che chiudono o delocalizzano inseguendo il profitto.
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Se estraessimo tutte insieme le riserve nazionali certe di gas, ne avremmo per poco più di 7 mesi di consumi, 15 mesi se includessimo anche tutte le riserve “probabili”.
E non è affatto detto che questo gas sarebbe più a buon mercato di quello che importiamo: il prezzo del gas non lo fa il Paese in cui si estrae o chi lo estrae, in un’economia di mercato, né è detto che tutto il gas estratto andrebbe a soddisfare la domanda italiana.
Anche soprassedendo su impatti ambientali e climatici, bastano queste due obiezioni, sollevate dal fronte ambientalista, per bocciare la soluzione al caro energia che prospetta il ministro Cingolani in una recente intervista su “Il Messaggero”, di ridurre le bollette dei consumatori attraverso una maggiore estrazione di gas fossile “nazionale”.
Un’idea “senza senso e logica, e davvero poco lungimirante” secondo quanto scrivono Greenpeace, Legambiente e Wwf. Le riserve certe di gas nel territorio italiano (fonte UNMIG), infatti, sono pari a 45,8 miliardi di Sm3 (Standard metri cubi), di cui il 55% si trova nel sottosuolo, prevalentemente nel sud Italia, e la restante parte nei fondali marini, lungo la costa adriatica e in parte nello Ionio e nel canale di Sicilia. Attualmente vengono estratti circa 4,5 miliardi di metri cubi di gas dai pozzi esistenti e attivi nel nostro territorio.
“A questo ritmo estrattivo – osservano le tre associazioni – nell’arco di 10 anni avremo finito le nostre riserve certe attualmente conosciute e si dovrebbero andare a investigare meglio quelle che attualmente sono definite ‘riserve probabili di gas’ che ammontano a 45,9 miliardi di Sm3”.
“Questi numeri dimostrano chiaramente – spiegano Greenpeace, Legambiente e Wwf – che per intervenire sulle bollette dei nuclei familiari è necessario intraprendere strade e percorsi del tutto diversi da quelli menzionati dal ministro Cingolani”.
Due le strade da seguire in parallelo, secondo le associazioni, se davvero si vogliono aiutare le famiglie ad abbattere i costi in bolletta: eliminare tutti gli oneri di sistema impropri dalle bollette elettriche e intervenire sulla componente energia.
“In altre parole, è urgente e obbligatorio investire nelle fonti rinnovabili, non solo attraverso le comunità energetiche, ma anche nei grandi impianti. Inoltre, occorre strutturare politiche di efficienza energetica, da qui al 2030, in grado di portare tutti gli edifici, residenziali e non, a ridurre i consumi di almeno il 50%, in linea anche con le proposte europee”, spiegano Greenpeace, Legambiente e Wwf.
Dichiarazioni cui fanno eco quelle di Livio de Santoli, presidente del Coordinamento Free: quella di Cingolani, commenta, è “una non soluzione e scopre definitivamente le carte circa il ruolo che l’Italia intende giocare all’interno del programma Boga (Beyond Oil and Gas Alliance) della COP 26 di Glasgow per uscire urgentemente da petrolio e gas, un ruolo di retroguardia nella lotta al cambiamento climatico senza vincoli stringenti rispetto a trivellazioni ed estrazioni”.
L’idea del ministro, spiega De Santoli, “rischia di allontanare l’urgenza di trovare soluzioni alternative al gas, grande attore del caro-bolletta, che rischia di bloccare lo sviluppo del biometano, nonostante il suo potenziale riconosciuto di 9 miliardi di metri cubi al 2030”. Inoltre, puntare sugli idrocarburi nazionali “inciderebbe molto poco sulla formulazione del prezzo dell’energia, considerata la piccola quota di gas nazionale aggiuntiva rispetto ai consumi attuali, pari al 5,5%”.
“Il fatto consolidato che le rinnovabili, fonti distribuite, siano a costo marginale zero e che un loro massiccio e organico sviluppo faccia da ammortizzatore agli aumenti dell’energia, deve relegare a un ruolo molto marginale il gas nel processo di transizione, senza sottrarre investimenti che non siano in linea con la decarbonizzazione. E oltre alle rinnovabili, ovviamente, occorre integrare misure per l’efficienza energetica al fine di ridurre la domanda di energia, e con essa le emissioni”, aggiunge De Santoli.
“La transizione energetica – conclude – è anche un cambiamento di modello di generazione e per questo non possiamo permetterci soluzioni non coerenti con il vero obiettivo del nostro Paese, quello del 40% di Fer al 2030: chiediamo da tempo, e continueremo a farlo, di confrontarci con il MiTE sulla nuova versione del Pniec, che è chiuso in qualche cassetto del ministero ed è a oggi priva delle necessarie interazioni con gli stakeholder”.
Fra le applicazioni dell’idrogeno si continua a prendere in considerazione l’alimentazione dei treni nelle tratte non elettrificate, come alternativa potenzialmente pulita al posto delle motrici a gasolio.
Quella dei treni ad idrogeno rappresenta davvero “una soluzione perfetta per le tratte minori”, come l’ha definita La Repubblica in un recente articolo?
La risposta è no in una stragrande maggioranza dei casi.
E anche nella piccola parte dei casi rimanenti, dove sulla carta potrebbe sembrare sensato puntare sull’idrogeno, cioè per tratte oltre i 120-150 chilometri, con molte gallerie, con collegamenti poco frequenti e pochi viaggiatori, ci sono ragioni di costo e di integrazione col resto della rete che rendono preferibili altre opzioni.
Per qualunque ragionamento sui treni ad idrogeno (così come per le auto e anche i camion a idrogeno), è necessario partire dalle basi termodinamiche, ineludibili e sorde a qualsiasi richiamo che non siano le leggi della fisica.
L’uso dell’idrogeno per la mobilità si basa sulla soluzione delle celle a combustibile. Il combustibile immesso in queste celle è appunto l’idrogeno, usato per produrre l’elettricità destinata ad alimentare il motore elettrico di un cosiddetto “Fuel Cell Electric Vehicle” o veicolo elettrico a celle a combustibile”. Il principio è lo stesso anche per i treni a idrogeno.
Partiamo per ipotesi dall’assunto che l’idrogeno qui sia prodotto con energie rinnovabili tramite elettrolisi dell’acqua, e sia cioè idrogeno “verde”. Ricordiamoci però che in realtà il 98% circa dell’idrogeno prodotto nel mondo è “grigio” o “nero”, cioè derivato direttamente dal metano o dal carbone, processi al momento molto meno costosi dell’elettrolisi.
Quindi già in partenza dobbiamo fare un grosso sforzo di immaginazione per contemplare la possibilità di usare in tempi brevi l’idrogeno nella decarbonizzazione della mobilità. Ma ammettiamo pure che tutto l’idrogeno prodotto nel mondo sia verde. Rimane però il vero problema dell’idrogeno, qualunque sia il suo colore: la sua bassa efficienza energetica quando è usato come combustibile o carburante.
Un assurdo energetico
Come è stato spiegato bene in un recente rapporto di Transport & Environment e Legambiente, rispetto ad un veicolo elettrico a batteria, e a maggior ragione rispetto a un normale treno elettrico, un mezzo a idrogeno a celle a combustibile presenta un’efficienza molto ridotta.
Fra processo di trasformazione dell’acqua in ossigeno e idrogeno tramite fonti rinnovabili, trasporto, pressurizzazione dell’idrogeno ed efficienza della cella a combustibile, che deve fare il processo inverso trasformando di nuovo l’idrogeno in elettricità, fatta 100 l’energia originariamente attinta da un’immaginaria rete tutta rinnovabile, di energia utile per la trazione ne rimane più o meno solo un terzo, rispetto ad un’efficienza energetica del 77% dei mezzi elettrici a batteria o del 95% di un normale treno alimentato direttamente da una linea elettrica.
Anche ammettendo che i progressi tecnologici e le economie di scala rendano ampiamente diffuso e a buon mercato l’idrogeno verde, o che i prezzi dell’idrogeno grigio salgano a causa del caro-gas ai livelli di quello verde, come sta succedendo attualmente, rimane comunque il problema della bassa efficienza energetica.
“È un assurdo energetico usare l’idrogeno per azionare dei motori elettrici”, ha detto a QualEnergia.it Andrea Poggio, responsabile mobilità di Legambiente.
Ci sono poi problemi di integrazione delle reti, ha fatto notare Anna Donati, Responsabile mobilità del Kyoto Club e portavoce dell’alleanza per la mobilità dolce (Amodo).
“Se realizzo un tratto ad idrogeno, devo avere un treno multimodale a idrogeno più diesel o a idrogeno più elettrico. Fare un pezzo con una tecnologia che non coincide con il resto della rete comporta sempre forti limiti che non consentono servizi integrati con la linea ordinaria. Allora l’idrogeno potrebbe andar bene, al limite, per tratte isolate non connesse”, ha detto Donati a QualEnergia.it.
La spinta che vuole dare il Pnrr ai treni ad idrogeno
Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si prevede di ricorrere ai treni ad idrogeno per le linee ferroviarie non elettrificate in regioni con elevato traffico passeggeri e un forte utilizzo di treni diesel, come Lombardia, Puglia, Sicilia, Abruzzo, Calabria, Umbria e Basilicata.
I progetti di fattibilità più avanzati sono quelli in Valcamonica e nel Salento, dove si prevede la sperimentazione in modo integrato di produzione, distribuzione e acquisito di treni ad idrogeno.
Nel caso della Valcamonica, dove vivono 300mila abitanti, la rete ferroviaria è lunga 108 km. Il piano prevede un investimento complessivo di 271,2 milioni di euro, ripartiti fra: 65 milioni di euro per 3 impianti di produzione, elettrolizzatori inclusi, a Iseo, Brescia ed Edolo; 165 milioni di euro per l’acquisto di 14 treni veloci dotati di locomotori a celle a combustibile e 24 milioni di euro per l’acquisto di 40 autobus alimentati a idrogeno.
In breve stiamo parlando di 2,5 milioni di euro per km. Ma quanto sarebbe costata l’elettrificazione di tutta la linea, si chiedono Transport & Environment e Legambiente nel loro rapporto? Non più di 60 milioni di euro, cioè circa mezzo milione di euro per km, 4 o 5 volte meno.
Includendo l’acquisto di treni elettrici nuovi e moderni, nonché la messa in sicurezza delle gallerie, comunque necessaria pure per i treni ad idrogeno, la cifra sale a non più di 2 milioni di euro a km, cioè il 20% meno della conversione ad idrogeno, secondo una stima di Trenitalia sull’elettrificazione e l’ammodernamento entro i prossimi cinque anni di 670 km di linee, dotate anche di locomotori nuovi.
Rimarrebbero risorse da utilizzare in caso di linee caratterizzate da un elevato numero di gallerie che necessitassero di maggiori lavori ambientali e di sagomatura. Senza contare i costi di manutenzione e riparazione delle motrici elettriche a idrogeno, calcolati fino al 35% in più di quelli delle motrici a batteria.
Quali alternative?
In Italia, il 72% della rete ferroviaria è già elettrificata e con gli investimenti già programmati la quota di rete elettrificata salirà al 78%. Le linee non elettrificate sono una minoranza. E fra queste non tutte hanno caratteristiche che ne rendano difficile o impossibile l’elettrificazione o altre soluzioni.
Ma quali sono le caratteristiche che rendono una linea ferroviarie difficile o non conveniente da elettrificare?
“Non mi conviene elettrificare la linea in due circostanze: pochi treni e lunghe percorrenze”, ha detto Poggio.
“L’elettrificazione ordinaria è sempre la via maestra. In certe condizioni, però, anche in base alla lunghezza della tratta, alla lunghezza delle gallerie che andrebbero risagomate e in cui andrebbe installata la linea elettrica aerea, quindi in base ai costi d’investimento e a quante persone deve servire sarebbe opportuno fare degli studi specifici, confrontando elettrificazione diretta, treni a batteria e treni a idrogeno”, ha detto la Responsabile mobilità del Kyoto Club.
“Ma partire con un’unica soluzione basata attualmente sui carburanti fossili non mi sembra un buon approccio”, ha aggiunto.
Almeno in alcuni casi, si potrebbe, per esempio, pensare di elettrificare la parte facile di una tratta secondaria, evitando cioè di risagomare le gallerie per la posa di una linea elettrica aerea, prevedendo per questi collegamenti secondari treni a batterie che possano sfruttare appunto le batterie nei tratti di galleria non elettrificati.
Oppure, sempre abbinato all’elettrificazione, una soluzione che per le gallerie preveda un sistema di alimentazione a terra, come quello a induzione della tramvia di Bordeaux, in Francia, che non richiede linea aerea e la risagomatura dei tunnel.
Un’altra soluzione potrebbe riguardare i biocarburanti, secondo Paul Martin, ingegnere con un’esperienza pluridecennale nell’industria chimica di processo e titolare dello studio di consulenza Spitfire Research, a Toronto, in Canada.
“La vera questione per i mezzi a lunga percorrenza, come aerei, treni e navi, è semplicemente una: quanto ci interessa l’inquinamento di sostanze nocive emesse dai sistemi di scappamento?”, ha detto Martin a QualEnergia.it.
“Se ci interessa soprattutto questo, allora l’idrogeno è l’unica soluzione. Ma se il nostro obiettivo principale è ridurre le emissioni di gas serra, i biocarburanti come alternativa all’idrogeno sono una soluzione. Se riusciamo a fare la maggior parte dei chilometri con l’elettrificazione, dovremmo avere un potenziale di produzione di biocarburanti sufficiente per gestire la parte restante”, ci ha spiegato Martin.
Il grosso delle emissioni di sostanze nocive associate ai biocarburanti avverrebbe in zone lontane dai centri abitati, nel caso volessimo utilizzarlo per treni secondari, navi o aerei, ha aggiunto.
Neutralità tecnologica
Si parla spesso di neutralità tecnologica come principio ispiratore delle politiche che i governi dovrebbero adottare, in modo da creare un campo di gioco uguale per tutti, dove si detta un obiettivo senza però imporre come arrivarci o favorire a priori una soluzione rispetto ad un’altra.
Questo apporccio ha senso per esempio nella pianificazione di una carbon tax: chi inquina di più, paga di più, a prescindere dalla tecnologia utilizzata.
A volte, però, l’idea della neutralità tecnologica rischia di diventare una foglia di fico per nascondere intenti meno genuini, secondo il responsabile mobilità di Legambiente.
“Mi sembra che l’idrogeno ferroviario venga imposto come alternativa per applicare l’ideologia della neutralità tecnologica. Siccome faccio una linea con l’elettrificazione e darei così un contentino all’Enel, allora devo compensare con un’altra linea in cui devo far contenta l’Eni”, ha detto Poggio.
“Mi sembra più che altro una risposta alle lobby industriali. La neutralità tecnologica è il confronto delle soluzioni per arrivare al più presto e con i minori costi sociali possibili alla decarbonizzazione. Qual è la tecnologia che mi serve di più? Se è l’elettrico allora facciamo l’elettrico con le rinnovabili, e con rapidità”, ha aggiunto.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Nicola Armaroli, Direttore ricerche del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).
“Le emissioni di CO2 da ferrovie in Italia sono una piccolissima frazione del totale del trasporto, quindi non è una vera priorità. Mi rendo conto che c’è qualcuno che spinge molto in quella direzione perché vuole creare un mercato per l’idrogeno. Per me è un approccio un po’ artificioso. Non è che i mercati si creano così, a tavolino. Se la tecnologia ha un senso economico ed è soprattutto efficiente va bene, altrimenti meglio evitare, soprattutto se serve solo per incidere su un’unghia del problema”, ha detto.
Conclusioni
Se invece di produrci l’idrogeno, la stessa quantità di energia iniziale fosse usata per alimentare la batteria elettrica di una motrice o si scegliesse di elettrificare direttamente una tratta ferroviaria, la quota utile che si trasmetterebbe come forza motrice alle ruote sarebbe del 77% nel primo caso e del 95% nel secondo, invece che del 33%.
In soldoni ciò significa anche che un motore a idrogeno verde necessita di una superficie almeno doppia di moduli fotovoltaici, o di pale eoliche, o di invasi idroelettrici e condotte, per produrre l’energia rinnovabile di partenza.
E allora ci sta la conclusione di Anna Donati: “attenzione a innamorarci di soluzioni che poi non sono praticabili”.
Osservatorio sulla transizione ecologica
Promosso da Coordinamento per la Democrazia costituzionale, LaudatoSi’, NOstra
I poteri economici e le aziende che puntano sul nucleare e sul mantenere le fonti fossili per produrre energia elettrica hanno in ostaggio Cingolani.
Il Ministro ha partecipato giovedì scorso ad una riunione europea che discuteva cosa inserire nell’elenco delle energie rinnovabili (tassonomia) e ha sostenuto posizioni inaccettabili.
Cingolani ha affermato che non si può essere contrari ad un fantomatico nuovo nucleare in attesa di quello da fusione.
Premesso che il Governo, e quindi i suoi Ministri, sono tenuti a rispettare l’esito dei due referendum popolari che hanno bocciato a grande maggioranza il nucleare in Italia, parlare di quarta generazione è in gran parte fumo negli occhi.
La quarta generazione del nucleare da fissione è per ora in costruzione in Cina con la realizzazione di due mini reattori da soli 100 megawatt. Mentre ancora non sono entrate in funzione in Europa le centrali di terza generazione che Sarkozy provò a rifilare all’Italia. L’entrata in funzione degli EPR in Francia e Finlandia è stata ulteriormente rimandata, ha già 12 anni di ritardo e ormai un costo di 19 miliardi contro i 3,2 previsti all’inizio dei progetti.
Il nucleare da fusione è ancora a livello sperimentale e il progetto ITER di Cadarache entrerà in funzione, forse, nel 2050 per produrre energia elettrica.
E’ evidente che il nucleare, da fissione o da fusione, - anche volendo - non potrà dare alcun contributo all’Italia per realizzare la riduzione del 55 % della CO2, ma non solo, per rispettare gli obiettivi europei al 2030, che comportano per il nostro paese almeno 70 GW di energia da rinnovabili.
Il Ministro Cingolani continua a non presentare piani e scadenze per raggiungere questo risultato nel rispetto degli obiettivi europei. Senza dimenticare l’impegno a non produrre più dal 2035 auto con motore a scoppio in Europa.
Inoltre continua ad esserci una pressione per utilizzare il gas naturale, i cui prezzi sono ora alle stelle, fingendo di non sapere che produce emissioni di CO2 e che la dispersione nell’atmosfera a causa delle estrazioni e lavorazione del metano provoca un effetto climalterante ancora più grave.
Il governo deve essere coerente con le sue dichiarazioni programmatiche e con gli obiettivi del PNRR e deve presentare una proposta complessiva per realizzare gli impegni presi, altrimenti emergerà una contraddizione inaccettabile e preoccupante con i comportamenti reali.
Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Jacopo Ricci, Massimo Scalia
4 dicembre 2021