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Energia e ambiente . Nonostante lo sciopero dei quasi 500 addetti della centrale di Torre Valdaliga Nord, che chiedono di lavorare alla produzione di energia da fonti rinnovabili per mantenere i livelli occupazionali, l'ad del colosso industriale Tamburi conferma il passaggio da una fonte fossile a un'altra. Giuseppe Casafina (Fiom): "La transizione energetica non è di proprietà di Enel, perché si parla del futuro di tutti".

La centrale Enel di Civitavecchia

 

Proprio mentre Mario Draghi annunciava, fra unanimi consensi, la nascita del nuovo ministero alla transizione ecologica, solo le cronache locali di Civitavecchia davano conto dello sciopero dei quasi 500 addetti della centrale Enel di Torre Valdaliga Nord. Uno sciopero metalmeccanico, indetto dalla Fiom e dall’Usb, con l’85% delle adesioni, per chiedere una riconversione della grande centrale a carbone che domina la città, e che per oltre 60 anni ha contribuito allo sviluppo e alla tenuta della rete elettrica nazionale. Con effetti collaterali ben conosciuti dai residenti, sotto forma di un aumento delle patologie a causa dell’inquinamento, appena scalfito dalla localizzazione del sito produttivo a pochissima distanza dal mare.
Anche l’Enel si è posta il problema di una riconversione della centrale di Torre Valdaliga. E sulla carta la decisione è già stata presa, con lo stop alla produzione di energia a carbone e il passaggio, entro il 2025, a una produzione basata sul turbogas. Che può abbattere una parte delle emissioni inquinanti, ma che al tempo stesso utilizzerebbe sempre combustibili fossili. Con una transizione energetica sui generis. E con il potenziale sacrificio di almeno il 90% dei lavoratori, secondo le stime della Fiom, che attualmente si occupano della manutenzione del grande impianto e che diventerebbero in gran parte inutili nel nuovo scenario produttivo.
Per ironia della cronaca, all’indomani dello sciopero l’ad di Enel Italia, Carlo Tamburi, è stato fra i protagonisti del convegno (in streaming) “L’economia di Francesco. L’energia, l’ambiente, la salute, l’agricoltura”, organizzato dalla Regione Lazio. In questo caso le parole di Tamburi sono arrivate forti e chiare: “Ci siamo impegnati a chiudere tutte le produzioni di energia elettrica con impianti a carbone, incluso lo stabilimento di Civitavecchia, entro il 2025, e questo è un punto di forza della nostra strategia di sostenibilità”.

A seguire però la doccia fredda: “In parte ci sarà ancora del gas, quindi impianti a idrocarburi, ma molto più efficienti e meno inquinanti, e soprattutto che lavoreranno molte meno ore. Siamo i leader della transizione energetica. E con la chiusura degli impianti nel 2026 registreremo un calo delle emissioni del 50% rispetto ai livelli attuali”.
Insomma per Enel la “strategia di sostenibilità” passa comunque dal gas. Da un combustibile fossile a un altro. Con la prospettiva di mantenere un’occupazione di soli trenta, quaranta addetti. Uno scenario che gli operai, e la Fiom Cgil che sta al loro fianco, non possono certo accettare. Il danno e la beffa, visto l’annuncio di Draghi, e i miliardi del Next Generation Ue, per una vera transizione energetica.
“Ancora non c’è risposta al futuro dei metalmeccanici – tira le somme il giovane e dinamico segretario della Fiom locale Giuseppe Casafina – Enel deve fare la sua parte rimboccandosi le maniche per garantire una prospettiva stabile ai tanti lavoratori che hanno fatto le sue fortune costruendo e manutenendo la centrale. La transizione energetica non è di sua proprietà, perché si parla del futuro di tutti. Deve essere guidata dalle istituzioni e condivisa con parti sociali e territorio. Noi diciamo che qui ci sono le condizioni, e anche le mansioni professionali per sviluppare la filiera di un’industria sostenibile”.
Casafina, che è originario di Taranto e ben conosce la tagliola del falso dilemma fra produzione e ambiente, su Collettiva ha ben spiegato l’obiettivo finale della vertenza: “Un territorio con le caratteristiche industriali e geografiche di Civitavecchia può continuare ad avere un ruolo nella strategia energetica nazionale, costruendo sul posto tutti gli impianti utili alla produzione di energia pulita”.
Fa ben sperare che allo sciopero di Fiom e Usb sia arrivato il sostegno, concreto, del sindaco di Civitavecchia, Ernesto Tedesco, del segretario locale del Pd, Stefano Giannini, e ancora del Comitato Sole, dell’associazione Città Futura, di Potere al Popolo e Rifondazione Comunista. Ma certo è che, di fronte a un gigante come Enel, solo un altro peso massimo come Mario Draghi potrebbe competere. Dando un senso compiuto all’attività del neonato ministero alla transizione ecologica.

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Intervista. L’ex ministero Edo Ronchi: «Servono nuove competenze per la transizione ecologica»

 

«È una sfida entusiasmante, l’orizzonte di nuovo tipo di sviluppo. Ed è un orizzonte reale: quando mai abbiamo avuto un’occasione così?». Edo Ronchi, ex ministro dell’Ambiente dei governi Prodi e D’Alema, ora presidente della Fondazione Sviluppo sostenibile, con la creazione del super-ministero della Transizione ecologica vede profilarsi la possibilità di una svolta nella politica ambientale italiana. Con la sfida climatica che conquista uno dei primi posti nell’agenda di Palazzo Chigi. «Grillo ha dato una scossa: vediamo se alle parole seguiranno i fatti. Nel governo Conte il tema in effetti era passato un po’ sotto tono».

Ronchi, finalmente il ministero dell’Ambiente non sarà più la Cenerentola della politica?
È vero che il ministero dell’Ambiente è sempre stato considerato di secondo ordine. Ora si profilano grandi cambiamenti, ma tutti da verificare.

Il super-ministero della Transizione ecologica unificherà le funzioni del ministero dell’Ambiente e di quello dello Sviluppo economico. Secondo lei è opportuno questo accentramento di funzioni?
Il Next generation Eu si basa su alcuni pilastri fondamentali, come quello della neutralità climatica. Ora, l’impegno sul clima richiede un adeguamento trasversale di competenze e di politiche che riguardano l’energia, la mobilità, i cicli di produzione e di consumo, insieme con la conservazione del capitale naturale, dei servizi ecosistemici, un nuovo modo di fare agricoltura, il risanamento e re-inverdimento delle città. Si tratta della modifica del sistema produttivo nel suo complesso, quindi è bene che, più che un accentramento di funzioni, ci sia la capacità di intercettare e incidere su varie attività anche con lo scopo di creare nuova occupazione.

Su quella poltrona vede meglio un politico o un tecnico?
Deve essere una persona competente, con una visione adeguata.

L’Unione europea fa sul serio con la politica del Green Deal?
Sembra di sì. E il Next generation Eu serve in parte a finanziarlo. Non dimentichiamoci che il 37% dei 210 miliardi destinati all’Italia, cioè 78 miliardi, devono essere destinati alla sfida climatica. Sono finanziamenti aggiuntivi che non pesano tutti sul bilancio nazionale, un grande piano di investimento pubblico che darà anche nuove prospettive alle imprese. Del resto gli obiettivi di decarbonizzazione impongono all’Italia la revisione delle sue politiche energetiche. Non so come mai nessuno ne parla, ma noi siamo co-organizzatori della COP 26 che si terrà a Glasgow il prossimo novembre: ci dovremo arrivare con le carte in regola allineando gli obiettivi di decarbonizzazione ai nuovi target fissati dall’Europa. In sostanza, si tratta di riscrivere il Piano Nazionale Energia e Clima. Sarà uno dei primi impegni del nuovo super-ministero.

Questa attenzione all’ambiente era impensabile con le politiche di austerity che abbiamo vissuto negli utili anni…
In effetti, una svolta così netta non l’avevamo ancora vista. Del resto, Draghi conosce l’Europa e sa dove sta andando.

In questa svolta, qual è il ruolo della società civile?
Il movimento dei giovani che sono scesi in piazza a segnalare il disimpegno della politica sull’ambiente ora ha un interlocutore. Certo, se in Italia ci fosse un forte partito verde, alla tedesca, sarebbe meglio. Anche il livello di attenzione sulle questioni ambientali da parte della stampa, è insolitamente alto.

Ci sono infinite sfumature di verde per incamminarsi nella Transizione ecologica. A cosa dobbiamo stare attenti?
Le sfumature sono una ricchezza, ogni forma di pensiero ecologista è chiamato a dare un contributo, come ha scritto Papa Francesco nella sua enciclica Laudato Sì. Semmai, dobbiamo preoccuparci dell’operatività di questa struttura: il cambiamento che ci aspetta è molto complesso e non possiamo limitarci a fare annunci.

Sarà la Commissione Europea a vigilare su come vengono impegnati i fondi, la strada è obbligata?
Proprio ieri sono state pubblicate le linee guida su come utilizzare i fondi. Sono indicazioni che non si possono by-passare. Il Next generation Eu è un progetto molto condizionato, direi più del Mes. Se fai ricevi i soldi, altrimenti niente. Sarà creata una task-force ad hoc. È un progetto troppo importante per essere lasciato al caso.

Vista dal suo osservatorio, in Italia ci sono competenze all’altezza della sfida?
Sì, le potenzialità ci sono: abbiamo giovani molto preparati nelle università e personale qualificato nelle aziende. Ci sono anche molti giovani che hanno fatto esperienza di vita e di lavoro all’estero e quindi sono del tutto idonei per essere valorizzati.

L’Italia è già incamminata verso la Transizione ecologica o partiamo da zero?
Non partiamo certo da zero. Nel settore della green-economy ci sono alti e bassi, come del resto in tutta Italia. Abbiamo esperienze molto avanzate accanto a sacche di inefficienza. Siamo bravi nel riciclo, nelle rinnovabili, siamo leader nella chimica verde, abbiamo recuperato bene nella mobilità condivisa. Dovremo puntare di più sulla rigenerazione urbana, un settore su cui l’Europa insiste molto.

La Transizione ecologica sarà un volano anche per lo sviluppo del Sud?
Il Sud può contare sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, ma deve anche superare i suoi fattori limitanti, come l’annosa difficoltà di attivare i giovani e le donne.

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Quando alle otto della sera Mario Draghi, dopo nove giorni di consultazioni con suspense, legge la lista dei ministri dentro i telegiornali, le indiscrezioni del pomeriggio vengono in larga parte confermate. E la faticosa composizione della lista dei ministri partorisce un super manuale Cencelli.

Per l’improbo compito di infilare nel governo tutti i partiti che gli voteranno la fiducia, per il dosaggio spinto fin dentro le correnti di partito. Un super Cencelli anche per la divisione tra Mattarella e Draghi nella ripartizione tra ministri tecnici e ministri politici.

Con un elemento evidente di continuità con la compagine del disarcionato governo Conte, rintracciabile nei ministeri di peso (Difesa, Interni, Esteri, Salute).

E un altrettanto evidente elemento di discontinuità con l’ingresso dei ministri tecnici nei ruoli chiave dei due pilastri del Recovery (conversione green e digitale), oltre naturalmente alla poltrona-chiave di via Venti Settembre con Daniele Franco all’Economia. La combinazione della cassaforte ce l’ha Draghi.

E pensare che Mattarella, preso atto delle difficoltà del Conte2, diceva che si era resa impossibile la nascita di un nuovo governo politico, per cui faceva capire che si doveva fare spazio ai tecnici.

In realtà adesso misuriamo quanto fosse una pia illusione o uno specchietto per le allodole.

I tecnici, pur se di alto profilo, come nel caso di Marta Cartabia alla giustizia, numericamente sono la metà degli esponenti politici. Draghi ha dovuto e voluto acconciarsi alle pressioni, e ogni partito ha rivendicato un certo numero di posti.

Se vogliamo trovare un aspetto positivo, oltre la qualità dei tecnici prescelti, questo riguarda la conferma di un sostanzioso numero di rappresentanti del Conte2, un motivo di soddisfazione per l’ex premier di aver lasciato una discreta eredità. Ma è un Conte2 spostato a destra.

Al contrario è fortemente negativa, rispetto a quello che si pensava e si scriveva, la presenza delle donne, che sono la metà degli uomini. Oltretutto le forze di sinistra non sono state in grado, pur avendo ministeri di peso, di esprimere neppure una donna. Vecchia storia, purtroppo.

Ovviamente la destra non può che essere soddisfatta, così come il Pd e Italia viva che esprimono giudizi molto positivi, e anche i 5Stelle portano a casa un discreto bottino pagato con le lacerazioni interne.

La Lega è sicuramente ben rappresentata dal numero due dei neonati europeisti, mentre Berlusconi starà brindando per aver occupato tre caselle pur senza portafoglio.

Nell’interesse del paese naturalmente speriamo che Draghi e la sua squadra facciano un buon lavoro per superare la pandemia, rilanciare l’occupazione e l’economia, per usare al meglio i fondi del Recovery plan. E quindi un giudizio globale e a tutto campo, si potrà dare solo quando li vedremo all’opera, prima di tutto sulla drammatica, esplosiva questione sociale.

Ma al momento la nascita di un governo politico in salsa tecnica, cucito sulle solite pratiche spartitorie, delude, anche se nessuno lo ammetterà, le aspettative dei tanti fan del drago.

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Basta con le azioni di retroguardia, Draghi obbliga i partiti a cambiare, oppure a diventare irrilevanti

di Alfiero Grandi su www.jobsnews del 07/02/2021

Quando il quadro cambia repentinamente le vecchie immagini restano impresse e si sovrappongono per un periodo. L’incarico a Draghi di formare il nuovo governo ricorda questi inganni dell’ottica, i giudizi e i comportamenti sembrano attardarsi sul fotogramma precedente anche se si fanno largo le nuove immagini. Una valutazione compiuta ha bisogno che il percorso avviato con l’incarico del Presidente Mattarella a Mario Draghi si concluda con la formazione del nuovo governo e il voto in parlamento. Tuttavia qualche considerazione è già possibile. La ricerca spasmodica, oltre il ragionevole, di nuovi soggetti (voti) per compensare il venire meno di Italia Viva ha fatto velo su alcuni passaggi. La ricerca dei costruttori/responsabili ha mostrato la sua impercorribilità con quel senatore Vitali che aveva dichiarato la sera che avrebbe sostenuto il governo e che al mattino si è rimangiato tutto su richiesta di Berlusconi. Questo episodio si commenta da solo, ma ha ammonito chiaramente che la ricerca spasmodica di sostituire i voti di Italia Viva stava costando troppo in termini di credibilità del resto della coalizione, che era evidentemente in panne.
Ripescare Italia Viva? Al di là del giudizio (pessimo) sui comportamenti di Renzi era del tutto evidente che il senatore di Rignano puntava solo alla crisi del governo Conte e all’esplosione del Pd e del M5Stelle, il resto era dissimulazione. Cercare di ricucire con Italia Viva è stato un esercizio inutile che ha esaltato le corde peggiori di questo piccolo partito di corsari, ma ha indebolito notevolmente gli altri componenti della coalizione. L’aspetto più imperdonabile è che pur di fare rientrare Italia Viva non solo sono state fatte delle concessioni politiche del tutto inutili, anziché denunciare con forza l’attacco irresponsabile al governo e a farlo cadere, ma soprattutto è stata messa la sordina all’incontro di Renzi con il despota saudita, responsabile di delitti e a cui poche ore dopo Biden ha negato la vendita di armi per lo sterminio della popolazione dello Yemen. Interessa poco che prendere soldi da un simile figuro sia o no perseguibile quando riguarda un senatore in carica che rappresenta – come afferma la Costituzione – la (nostra) Repubblica. Certamente è da condannare e il resto della coalizione avrebbe dovuto fare di questo un punto politico di fondo, di denuncia politica, di distinzione. Invece è toccato ad altri (pochini purtroppo) tenere alto l’onore del nostro paese. Una vergogna è tale chiunque ne sia responsabile e va denunciata, se poi cade il governo vuol dire che non aveva le condizioni etiche minime per proseguire. Questi silenzi e questi errori hanno permesso a Renzi di presentarsi come quello che ha voluto la crisi per aprire la strada a Draghi. Non è così, è una verità di comodo. Gli errori altrui ci sono tutti ma malgrado questo è sua la responsabilità della crisi di governo, senza soluzioni alternative possibili, se non quella indicata dal Presidente della Repubblica.
Il Presidente ha preso atto che la vecchia maggioranza non poteva essere ricomposta e che non c’è in parlamento una maggioranza alternativa e quindi ha correttamente avvertito tutti che o si prendono la responsabilità di andare ad elezioni anticipate subito con un paese in piena pandemia e nel mezzo di una crisi sociale ed economica gravissima, con i fondi europei da utilizzare entro tempi stretti, oppure l’unica strada è un governo Draghi che supera gli schemi precedenti maggioranza/opposizione. Le previsioni sono sempre difficili ma credo che il governo Draghi alla fine riuscirà ad avere una maggioranza larga, del resto i riposizionamenti avvengono con rapidità senza troppi riguardi per quello che era stato detto (ecco i fotogrammi vecchi) solo poche ore prima. Difficile capire perché ci sia chi si attarda ad esempio a cercare di tenere fuori la Lega. Sulla Lega c’è poco da dire, si tratta di un partito

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Ma io dico: meglio tutti che Ursula

di Stefano Fassina da “il Manifesto” del  07.02.2021

Esecutivo di scopo. Insistere sulla cosiddetta «maggioranza Ursula» sarebbe un grave errore politico. Contraddirebbe la natura dell’incarico arrivato autonomamente dal Colle a Draghi. Brucerebbe le preziose potenzialità di una figura super partes.
«Draghi è il frutto del vuoto della politica, non la causa. Dobbiamo guardare alla debolezza complessiva del sistema democratico. Condivido l’invito di Azzariti su queste pagine. Le cause dell’emergenza democratica, intrecciata all’emergenza sanitaria e sociale, sono molteplici. Tra le prime c’è, ritengo, la totale delegittimazione dell’avversario come tratto di identità dei principali partiti e movimenti politici italiani. Può funzionare un sistema democratico con tali protagonisti?
È forse questa una delle ragioni per il nostro primato di governi tecnici negli ultimi 30 anni (esemplari politico-istituzionali sconosciuti in Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, …)? Un Governo del Presidente, affidato ad una personalità come Mario Draghi, potrebbe essere l’occasione per compiere qualche passo verso la legittimazione reciproca?
Potrebbe aiutare a definire una condivisione bipartisan, affrancata dall’europeismo liberista e dall’anti-europeismo, della collocazione europea dell’Italia? La risposta istintiva per noi è: No. Perché? Facile. Perché loro, Lega e FdI, sono «anti-europei, xenofobi e illiberali» (versione Pd del colloquiale «fascisti»). Sono «sovranisti». Punto. Però, «loro» mietono un consenso sempre più largo di popolo, classi medie spiaggiate e élite.
Ora governano 14 Regioni e da lustri le aree più ricche del Paese. Qualche domanda rimane. La Lega-Salvini segue i suoi intellettuali di punta, molto visibili sui social, oppure le sue constituencies imprenditoriali padane? A dicembre 2018, nella fase di massima potenza del blocco «populista» al governo, non abbiamo visto la resa della Lega Salvini alla Commissione europea sullo «scandaloso» deficit di bilancio al 2,4%? Ora, perché apre al Governo Draghi? Per la leader di FdI è più complicato: insiste a definirsi europeista per un’Unione confederale.
Bluffa? Proviamo comunque a entrare nel merito. L’europeismo confederale sarebbe una declinazione

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Scenari. Il tentativo della destra di riaccreditarsi, pronta a entrare nel nuovo governo va respinto non i nome del perimetro «Ursula», ma sulle scelte di programma e di senso del bene pubblico

Tutto si può dire del governo Draghi, se si farà, tranne che si tratti di un governo tecnico. I precedenti, nati sotto quella definizione, Ciampi, Dini, Monti sono tra i governi che hanno più inciso nella vita materiale del paese – vedi per esempio le pensioni – e quindi hanno fatto politica, nel senso più pregnante del termine. Nello stesso tempo troppo diverse sono le condizioni oggettive e soggettive per poter fare paragoni stringenti con quelle situazioni. Con Draghi abbiamo una compenetrazione tra governance europea e governo nazionale. 
È persino riduttivo dire che per l’ignavia delle classi dirigenti politiche ed economiche del nostro paese ci tocca il «pilota automatico», un commissario tecnocrate. Qui abbiamo l’ingegnere costruttore, non solo il suo robot. Mario Draghi ha interpretato diverse fasi della costruzione dell’Europa, qualunque fosse il suo ruolo pubblico o privato. Almeno quattro e tutte decisive, di cui è possibile seguire una successione cronologica, salvo parziali sovrapposizioni temporali.
L’epoca delle grandi privatizzazioni, quelle decise a bordo del Britannia, per cui il nostro paese divenne il secondo dopo l’Inghilterra thatcheriana per volume nel valore delle dismissioni dei beni dello Stato, accompagnate dal fanatismo rigorista che finirà per partorire l’assurdo Fiscal compact e l’accanimento brutale

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