Cgil. Misurarsi con la grande questione ambientale comporta la definizione di un piano complessivo a partire dalla centralità dell’occupazione e di una sua trasformazione. Il «sindacato di strada» potrebbe essere uno degli strumenti importanti per rivitalizzare la mobilitazione. Perché oggi viviamo una condizione che non è più quella degli anni ‘60
In questo anno di pandemia abbiamo tutti imparato molte cose che non sapevamo. Adesso sappiamo che la Terra è molto malata, che la stessa umanità è a rischio di estinzione. E anche il capitalismo, che fino a ieri appariva trionfante, è ormai privo delle sue arroganti certezze. Dello scenario apocalittico che si intravede noi non siamo più premonitori, siamo noi stessi, ci piaccia o meno, protagonisti. Ne parliamo con il segretario generale della Cgil Maurizio Landini.
Pensi che della particolarità del tempo che viviamo ci sia piena coscienza? Che il sindacato possa giocare in questo quadro un ruolo anche diverso da quello del passato ( o forse potremmo dire: recuperare in pieno il ruolo politico che ha giocato nella storia del nostro paese?).
La pandemia ha messo drammaticamente in evidenza l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo che ha portato alla rottura degli equilibri con la natura. La diffusione del virus ha fatto emergere, in modo drammatico, contraddizioni peraltro presenti già da tempo e ha accelerato la crisi della democrazia già in atto. Il lavoro si è precarizzato e svalorizzato al punto che si è poveri anche lavorando. Il potere decisionale si è accentrato in mano di pochi. Contano di più grandi multinazionali che singoli Stati. Sono diventati sempre più lontani e impenetrabili i luoghi dove vengono assunte decisioni determinanti per tutti noi. Mi chiedi se di tutto ciò vi sia piena coscienza. Io sono certo di una cosa: di fronte alla portata della crisi che stiamo vivendo non si può tornare a fare, come pure qualcuno pensa, le stesse cose di prima. C’è bisogno di un cambiamento radicale: di pensare a un diverso modello di società. E anche il sindacato deve cambiare. È cresciuto in un mondo nel quale i termini crescita, sviluppo, progresso tecnologico, diffusione del benessere coincidevano. Oggi siamo di fronte a un quadro radicalmente nuovo: si è spezzato quel rapporto che sembrava scontato quanto lineare tra sviluppo e benessere. Inoltre la crescita deve misurarsi con un tema nuovo per il sindacato e non solo: il concetto di “limite”, che ci dice che le risorse naturali – aria, acqua, la terra stessa – non sono infinite.
Occorre prendere atto che il modello di crescita che si è affermato fino ad oggi mette in discussione la vita delle persone sul pianeta o quanto meno la sua qualità, innescando un nuovo meccanismo di selezione tra ricchi e poveri. E’ questo il terreno nuovo, difficile, su cui il sindacato deve operare. Il tema di “cosa produrre, come produrre, per chi produrre” diventa decisivo se non si vuole che a pagare il conto della crisi sia il mondo del lavoro.
Rider in sciopero, foto di Aleandro Biagianti
È specialmente nei tempi di transizione che il sindacato è stato coinvolto nel dibattito politico generale. Penso, innanzitutto, al Piano del Lavoro, proposto da Di Vittorio nel dopoguerra. Ma penso anche all’apice del “miracolo economico”, nei primi anni ’70, quando i metalmeccanici usarono la forza, accumulata anche dalla spinta sessantottina, per superare l’orizzonte puramente salariale delle rivendicazioni, per aggredire l’organizzazione stessa della produzione, intaccare il potere padronale in fabbrica e trascinare nel conflitto l’intera condizione umana del lavoratore – il suo abitare, la sua salute, la scuola. Fu quando i Consigli di fabbrica produssero anche i Consigli di zona che a loro volta spinsero la creazione di preziosi organismi: Medicina Democratica, Magistratura Democratica, finanche Polizia Democratica. La proposta che tu hai avanzato quando sei stato eletto segretario generale, di sperimentare, accanto a quelli tradizionali di categoria, anche un “sindacato di strada”, mi ha sollecitato a rivisitare quelle memorie. Tanto più interessanti oggi che nuovi movimenti, nati dalle nuove contraddizioni prodotte dal sistema, hanno fatto nascere sul territorio inedite e dinamiche figure sociali che hanno proprie specifiche forme di mobilitazione. Mettere in rete questi soggetti potrebbe arricchire il potere contrattuale di tutti, conferendo al sindacato una nuova preziosa centralità. L’urgenza di definire un progetto adeguato alla difficoltà che presenta la transizione ecologica non avrebbe forse bisogno, per esempio, di un nuovo Piano del lavoro, non affidato agli uffici studi, ma definito coinvolgendo ”la strada”?
Misurarsi con la grande questione della transizione ecologica vuol dire battersi non per una sommatoria indifferenziata di progetti e investimenti. Comporta la definizione di un piano complessivo a partire dalla centralità del lavoro e di una sua trasformazione. Questo vuole dire cambiare radicalmente l’attuale modello di produzione e di consumo; passare dalla produzione di beni di consumo individuali a quella di beni collettivi. Vuol dire occuparsi di risanamento delle aree urbane, della mobilità collettiva, di suolo, aria, sanità, formazione, ricerca, cultura. E soprattutto di energie rinnovabili e di riuso per impedire lo spreco. L’economia circolare, ad esempio, che tutti citano ma nessuno sembra prendere realmente sul serio, vuole dire una nuova politica industriale che implica però il passaggio dalla logica dell’ ”usa e getta” a quella basata sulla manutenzione.
ÈFgovernab un campo che offre grandi potenzialità per nuovi settori di occupazione. Naturalmente un nuovo modello di sviluppo non è un progetto illuministico che si cala dall’alto. Si può attuare a condizione che ci sia un grande progetto di cambiamento generale che nasca dalla contrattazione nei posti di lavoro e nelle vertenze territoriali. E che coinvolga quelli che tu chiami nuovi soggetti, movimenti, figure sociali, frutto delle contraddizioni di questo sistema. E che, non c’è dubbio, bisogna provare a “mettere in rete”, arricchendo così la capacità contrattuale di tutti. In secondo luogo per un cambiamento di tale portata serve il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. Bisogna investire sul lavoro e sulla sua qualità, a partire dal superamento della precarietà e dal diritto alla formazione permanente e alla conoscenza.
Un diritto fondamentale se non si vogliono subire le nuove forme di disuguaglianze, di cui l’esclusione dal sapere rappresenta la forma più discriminatoria. I lavoratori devono poter dire la loro, con competenza, sulla natura degli investimenti, sugli indirizzi delle imprese. Si tratta perciò anche di pensare a nuove forme di democrazia economica, di sperimentare nuove forme di codeterminazione nelle imprese, consapevoli che oggi è anche più acuta l’esigenza di una riflessione sulla contraddizione tra il diritto di proprietà e la libertà della persona nel lavoro. In sostanza si deve far si che la Costituzione non rimanga fuori dai cancelli dei posti di lavoro. Penso sia il momento di un sostegno legislativo alla contrattazione collettiva che dia validità erga omnes ai contratti collettivi nazionali. E di una legge sulla rappresentanza che recepisca gli accordi interconfederali, sancisca il diritto di voto delle lavoratrici e dei lavoratori per approvare gli accordi che li riguardano, che certifichi la rappresentanza delle controparti datoriali.
Il progetto di transizione rende necessarie riforme profonde. Sarebbe grave se pensassimo che dovrà pensarci il Parlamento. In quella sede si misurano i rapporti di forza in base ai quali si definiscono i possibili compromessi che poi le caratterizzeranno. Così è stato in passato, quando la sinistra ha avuto la forza, pur non stando al governo, di strappare conquiste decisive. Se oggi non otteniamo più quasi niente è anche perché c’è stata una delega che ha sottratto la politica ai cittadini e ha insterilito lo stesso scontro parlamentare.
Il “sindacato di strada” potrebbe in effetti esser uno degli strumenti importanti per rivitalizzare la mobilitazione della società. Perché oggi viviamo una condizione molto diversa da quella, ad esempio, degli anni ‘60. Allora c’era una omogeneità nelle condizioni di lavoro. Oggi non è più così. Le catene degli appalti e dei subappalti, le esternalizzazioni, le delocalizzazioni hanno prodotto un mondo del lavoro frammentato e diviso. E ciò produce disuguaglianze di reddito e di diritti. La stessa solidarietà fra lavoratori non è più un dato scontato ma un elemento da ricostruire. Oggi giocano un ruolo decisivo strutture sindacali confederali, orizzontali oltreché categoriali, indispensabili per riunificare ciò che è stato diviso. Occorre riscoprire il ruolo fondamentale delle Camere del lavoro, rinnovando la straordinaria funzione che ebbero alla loro nascita, quando furono la sede della costruzione della solidarietà tra persone che facevano lavori diversi o che lavoro non lo avevano affatto, il luogo della mutualità, della formazione e dell’impegno per dare una risposta collettiva a problemi diversi. Proprio per via della frammentazione, il territorio diventa il luogo dove si possono incontrare i lavoratori, in particolare quelli che vivono le condizioni di maggiore disagio. Inoltre, la presenza sul territorio consente di aprire vertenze su servizi, casa, trasporti, cultura, tempo libero. È da lì che si guarda al lavoratore e alla lavoratrice non solo in rapporto al loro lavoro ma anche alla loro complessiva condizione sociale. Significa vedere la connessione tra luoghi di lavoro e ciò che sta fuori, coglierne tutte le dimensioni.
Protesta dei rider, foto di Aleandro Biagianti
In questo contesto non pensi che il “sindacato di strada” potrebbe in qualche modo costituire anche un’indicazione positiva nell’ormai asfittico dibattito che tormenta la sinistra: sulla forma partito, se servono o non servono, se contano ormai solo i movimenti o le organizzazioni di volontariato, sulla società civile spesso mitizzata. Insomma: il “sindacato di strada” potrebbe essere il seme che dà forma alla sperimentazione di nuove forme di democrazia organizzata che colmino il pericoloso vuoto che la crisi dei partiti di massa ha lasciato. Un lavoro aggregante, di rete, che potrebbe costituire il terreno su cui proviamo a ridar sostanza alla democrazia, a dare alla partecipazione continuamente invocata un riferimento chiaro. Che è comunque la premessa per ridar senso ai partiti. Non voglio volare troppo alto, ma penso che a partire da questo tipo di esperienza si potrebbe rilanciare la proposta di Gramsci di far crescere sul territorio “consigli”, organismi emersi dal consolidamento dei movimenti in grado di ridurre l’autoreferenzialismo dei partiti e di condizionare gli effetti dello storico esproprio della gestione della società operato dalla burocrazia statale. Nel senso che consentirebbe via via di riappropriarsene, anche rilanciando l’esperienza cooperativa, in qualche settore (l’acqua, per esempio?) oggi abbandonato all’arbitrio delle istituzioni statali. Poiché in questi giorni si celebrano i 150 anni della nascita di Rosa Luxemburg, anche lei, come Gramsci, convinta della necessità di accompagnare con nuove forme di democrazia diretta l’assetto politico, ho provato a buttar lì nelle conferenze che in sua memoria sono state promosse, il tema “Rosa Luxemburg e il sindacato di strada di Landini”. Ho incontrato grande entusiasmo dei compagni.
Come ho già detto, il “sindacato di strada” può aiutare a ricostruire un protagonismo del mondo del lavoro, indispensabile a far fronte dei grandi problemi che abbiamo fin qui delineato. Tanto più quando veniamo da anni durante i quali la partecipazione democratica è stata mortificata da una visione della politica che ha considerato come unica bussola la “governabilità” e “la manutenzione tecnica” del sistema. Le molteplici riforme istituzionali e costituzionali hanno tutte implicitamente espresso un obbiettivo: accentrare la decisione politica negli esecutivi, “liberare il campo da tutte le reti dei poteri intermedi”. Le stesse forze progressiste e di sinistra sono state dentro questo processo e hanno via via spezzato i fili della rappresentanza con il mondo del lavoro. La loro afasia dipende anche da questa rottura.
Io penso invece che cambiamento voglia dire dare vita ad un progetto di trasformazione sociale che si sostanzia del rapporto concreto con le persone. Anche per questa ragione riteniamo fondamentale la tenuta del rapporto unitario con Cisl e Uil. È un rapporto che va rilanciato e che, nel vivo dell’esperienza concreta, deve saper prospettare un nuovo sindacato confederale unitario, plurale, partecipato, democratico. Oggi tra l’altro, c’è una condizione nuova, non scontata, ma che potrebbe consentire di andare in quella direzione: non esistono più le divisioni prodotte dalla guerra fredda. D’altronde, la stagione più intensa della partecipazione democratica, quella degli anni ’70, ha coinciso proprio con l’esperienza unitaria dei consigli di fabbrica e dei consigli di zona. Le stesse riforme strappate allora, quelle che furono chiamate “riforme di struttura”, non erano, come invece accade oggi, editti, ma il frutto di una intelligente pratica sociale: lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e lo sviluppo della contrattazione collettiva, la riforma sanitaria del 1978, che era il compimento delle lotte operaie sulla salute in fabbrica e di una medicina alternativa praticata nei territori; la 180 per il superamento dei manicomi che è stata preceduta dalle esperienze di Basaglia a Gorizia e a Trieste; il divorzio e la legge 194 che furono anche il frutto della crescita del movimento femminista che affermò il principio del riconoscimento della cultura di genere e della differenza; la straordinaria esperienza delle 150 ore.
Tu mi chiedi se oggi il “sindacato di strada”, rivisitando quella memoria, possa contribuire ad aprire una nuova stagione di democrazia e di partecipazione. Ti rispondo con qualche considerazione. In primo luogo proprio la frantumazione del lavoro che ha fatto seguito alla controffensiva capitalista degli anni ’80, ha messo in difficoltà la nostra stessa capacità di rappresentanza. È una questione che in gran parte riguarda la politica ma coinvolge anche il sindacato. Bisogna allora pensare e praticare forme di democrazia capaci di raccogliere la complessità delle condizioni di lavoro. Si può, ad esempio, pensare a delegati di sito e di filiera, lavoratori cioè che tentano, a partire dalla loro funzione di rappresentanza, di unire ciò che oggi è diviso. In secondo luogo “sindacato di strada” significa fare del sindacato un soggetto attivo entro un processo aperto e più ampio attraverso il confronto e l’iniziativa con soggetti che possono contribuire a costruire progetti di trasformazione della società e di affermazione di nuovi diritti. Questo vuol dire, come Bruno Trentin ricordava spesso, costruire forme nuove di consultazione e collaborazione reciproca. Forme nuove di rappresentanza, di organizzazione, di partecipazione, non certo sostitutivi degli istituti della democrazia delegata, ma suo arricchimento. Si tratta di problemi non solo italiani, ma europei. E a quel livello dobbiamo affrontarli, costruendo esperienze, e vertenze, comuni, qualcosa che fino ad oggi, diciamo la verità, abbiamo fatto ancora assai poco.
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Una parte dei fondi del Recovery Plan (Piano nazionale di ripresa e resilienza, PNRR) potrebbe essere destinata all’industria delle armi, come emerge dalla lettura delle relazioni sul piano approvate in questi giorni dalle commissioni competenti alla Camera e al Senato. A denunciarlo a TPI è Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo, che insieme a Sergio Bassoli nel 2020 ha ricevuto il Premio Nazionale Nonviolenza proprio per il lavoro della Rete.
“Quando abbiamo letto le relazioni approvate in questi giorni dal Parlamento”, spiega Vignarca, “ci siamo accorti che non solo le nostre proposte per il disarmo e la conversione dell’industria bellica coi fondi del Recovery Plan non erano state prese in considerazione, ma che nelle richieste del Parlamento era stata inserita anche quella di finanziare, coi fondi europei, il potenziamento e l’ammodernamento dello strumento militare, che è un modo per dire che saranno investiti più soldi sulla spesa militare”.
Questa previsione è una novità introdotta dal nuovo governo. Infatti la bozza precedente del piano, elaborata durante l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte, coinvolgeva l’ambito militare solo per aspetti marginali, come l’efficienza energetica degli immobili della Difesa e il rafforzamento della sanità militare. Al contrario, nelle nuove relazioni è stata inserita la possibilità di usare i fondi europei per l’industria militare in Italia.
La posizione della commissione alla Camera, dove la relazione è stata approvata all’unanimità dalle forze di maggioranza (con l’eccezione di Leu, che non ha rappresentanti in commissione Difesa), rispecchia in pieno quella del governo, come ha confermato anche il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulé. Il deputato di Forza Italia ha manifestato “apprezzamento per la bozza di parere della Commissione che, nei contenuti e perfino nella scelta dei vocaboli, corrisponde alla visione organica che del Piano nazionale di ripresa e resilienza ha il Governo”.
A giocare un ruolo in questo cambio di rotta rispetto al precedente governo sono state probabilmente le nuove forze di centrodestra della maggioranza: Forza Italia e la Lega. “La maggioranza giallorossa era più restia in questo senso, ora invece con questa grande coalizione che prende dentro anche la destra, è stato più facile spingere in questa direzione”, dice Vignarca, che osserva: “La Lega è sempre stata la paladina dell’industria militare del Nord, è ovvio che abbiano spinto in questo senso e lo si evince dagli interventi del gruppo parlamentare. La particolarità è che persino l’unica forza d’opposizione – Fratelli d’Italia – è favorevole a questa direzione. Non c’è stata nessuna voce che si è levata in senso contrario”.
Negli ultimi giorni, le commissioni competenti alla Camera e al Senato hanno approvato le relazioni sul PNRR, partendo dalla proposta presentata dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Nel testo approvato dalla Camera si legge la raccomandazione a “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”.
La relazione del Senato sottolinea invece che “occorre, inoltre, promuovere una visione organica del settore della Difesa, in grado di dialogare con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca”. Lo stesso testo ipotizzata la realizzazione di cosiddetti “distretti militari intelligenti” per attrarre interessi e investimenti.
L’approvazione delle relazioni arriva dopo settimane di audizioni, in cui, come sottolinea Francesco Vignarca, sono stati auditi rappresentanti dell’industria militare (come AIAD, Anpam, Leonardo spa) mentre non sono state prese in considerazione le “12 Proposte di pace e disarmo per il PNRR” elaborate dalla Rete Italiana Pace e Disarmo e inviate a tutte le Commissioni competenti.
Dalla Rete Italiana Pace e Disarmo, i riferimenti all’industria militare contenuti nelle relazioni sul Recovery Plan vengono visti come “un tentativo di greenwashing, di lavaggio verde, dell’industria delle armi”, che il gruppo di attivisti “stigmatizza e rigetta”. “Anche se green le bombe sono sempre strumenti di morte, non portano sviluppo, non producono utili, non garantiscono futuro”, si legge nel comunicato diffuso dall’associazione. “La Rete italiana Pace e Disarmo denuncia la manovra dell’industria bellica per mettere le mani sui una parte dei fondi europei destinati alla Next Generation”.
“Se con la bozza precedente il governo non avrebbe potuto investire nulla dei fondi del Recovery sull’industria delle armi, adesso si è aperta la porta a questa possibilità“, dice a TPI Vignarca. “E ci aspettiamo che, dato che la proposta è stata approvata col voto di tutti, è perché l’intenzione è quella di metterci dei fondi”. Oltretutto, non è neanche detto che questi fondi vengano usati effettivamente per rendere più “green” queste industrie.
“Non sono affatto sicuro che inseriranno solo miglioramenti energetici rispetto alla strutturazione dei sistemi d’arma”, sostiene il rappresentante della Rete italiana Pace e Disarmo. “Potrebbero anche semplicemente considerare che l’industria potrebbe fare da volano economico. Ma noi vogliamo puntualizzare una cosa”, prosegue Vignarca, “non è vero che la ripresa si fa solo con l’industria delle armi. Anzi, il fatturato dell’industria militare è meno dell’1 per cento del Pil italiano, l’export militare è lo 0,7 per cento di quello italiano, gli occupati diretti dell’industria militare sono lo 0,21 per cento di tutti gli occupati in Italia. È veramente l’industria strategica con cui noi rilanciamo l’economia?”.
Ora resta da vedere quanti fondi verranno stanziati dal governo su questo punto, e se la questione verrà in qualche modo impattata dalla necessaria interlocuzione con Bruxelles, che potrebbe segnalare che questi interventi non corrispondono alle linee guida del Next Generation EU, e quindi farli escludere dal piano. “Non mi aspetto grandi cambiamenti, perché purtroppo l’Unione europea proprio da questo ciclo di bilancio ha iniziato a finanziare il Peace Facility, il fondo europeo per la Difesa, con soldi che arrivano direttamente a finanziare gli armamenti, però non escludo che ci sia questa possibilità”.
Il fatto che con un fondo denominato “Next Generation EU” (Nuove generazioni Ue) si possa finanziare l’industria delle armi, per Vignarca, è emblematico. “Per noi il futuro dei nostri figli non dovrebbe basarsi sulle armi, ma sulla lotta al cambiamento climatico, su un’Europa più attenta ai diritti e alle risorse. Non sulle attività militari, che sono strutturalmente distruttive”.
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Commenta (0 Commenti)Il nuovo soggetto. Le forme partitiche del passato non possono essere riprodotte. Non c’è più un’avanguardia che reca il verbo a moltitudini. Non si può ricreare l’organizzazione del popolo di sinistra come un "paese nel paese"
Quasi in sordina, almeno all’inizio, si è venuto sviluppando nelle ultime settimane un dibattito sul tema della costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra italiana. Alcuni interventi su il manifesto, considerando anche le lettere pervenute alla redazione, vi hanno fatto esplicito riferimento, altri si sono limitati ad evocarlo, altri ancora lo hanno solo sfiorato. Ma certamente qualcosa di più che un oscuro oggetto del desiderio.
Non appaia strano che di fronte all’enorme problema che abbiamo davanti, la sconfitta della pandemia e la ricostruzione del paese alternativa al modello di sviluppo responsabile delle crisi economico-finanziarie quanto di quelle pandemiche, venga avanti il complicato problema della costruzione della sinistra. Anzi è proprio di fronte a grandi prove che prendono vita formazioni e partiti politici.
Così è stato nella storia del movimento operaio internazionale, in particolare nel nostro paese. Ma ora la ragione è ancora più profonda. La crisi economico-finanziaria prima e quella pandemica dopo hanno disvelato la fragilità intrinseca del sistema capitalista, che passa da una crisi all’altra, come scriveva Marc Bloch. Solo che la fragilità non porta di per sé alla catastrofe.
In realtà il capitalismo è un corpo sistemico mutante. Sa imparare, anche se di malavoglia, dalle crisi che provoca e dalle sconfitte o arretramenti che la lotta di classe ogni tanto gli impone. E’ doloroso dirlo ma appare più stimolante e dinamico lo scontro e la discussione che si è aperta a livello mondiale tra le classi dirigenti su come rispondere all’attuale crisi che non quanto fermenta nella sinistra di alternativa, in gran parte legata a vecchi cliché.
La crisi della politica, ridotta a tecnica per gestire l’esistente, su cui si celebrano cambi di maggioranza e di governo, come con l’avvento di Draghi, il costruttore del “pilota automatico”, è innanzitutto crisi della sinistra. La riconquista del primato della politica sarebbe compito suo.
Ma le infinite varianti del governismo d’abord sono in grado di strangolare sul nascere qualsiasi tentativo di costruzione di un soggetto di sinistra.
Così come l’anteposizione del tema delle alleanze a quello dell’esistenza in quanto tale della sinistra. Per quanto illogico sia il primo viene giustificato con la natura costrittiva di leggi elettorali dominate dal maggioritario e dalla tecnica coalizionale. La lotta per il proporzionale è necessaria quanto ardua.
Eppure non dovrebbe recare scandalo valutare, almeno come ipotesi, di saltare un giro, anziché legarsi a carri altrui, dedicandosi in luogo dell’ennesima campagna elettorale, ad aprire un processo costituente di un nuovo soggetto politico. Il che richiede tempo e cura.
Le forme partitiche del passato non possono essere riprodotte. Non c’è più un’avanguardia che reca il verbo a moltitudini. Non si può ricreare l’organizzazione del popolo di sinistra come “un paese nel paese”. Ma questo non pregiudica la necessità di una soggettività politica. L’enorme quantità di informazioni disponibili nella società digitale non costituisce di per sé coscienza, che è sempre interpretazione dell’esistente, o meglio “senso” che lega sentimenti, idealità, passioni, bisogni ad un’inesauribile indagine critica, vivificandola.
Nel cuore del dominio dell’algoritmo si sviluppa oggi un’inedita forma di lotta, quella dei riders e dei drivers, che non solo costringe i più grandi profittatori della crisi a discutere e concedere, ma realizza un’immediata simbiosi con i consumatori. Per di più su scala mondiale. Comunità disgregate o mai esistite che costruiscono una loro dimensione di protagonismo civile e di lotta. E’ un segnale, non ancora una corposa realtà, ma va colto.
Nella nostra società oltre a comitati, movimenti, organismi territoriali di lotta, dove le vecchie forme si alimentano con le nuove e viceversa, vi sono anche centri di pensiero sopravvissuti all’abbandono della cultura da parte della ex sinistra o di nuovo conio. L’incontro di un pensiero alternativo con i movimenti sociali è l’obiettivo. Aprire un processo costituente significa chiamare non solo le microforze organizzate dell’alternativa ma questa realtà puntiforme ad un percorso di elaborazione di un nuovo profilo ideale, politico e organizzativo dall’esito non predeterminabile.
L’importante è che la partenza e il percorso siano inclusivi, a partire da una griglia ideale e politica che muovendo dalla critica di questo capitalismo ne indichi almeno la direzione del suo superamento. Come ha scritto anche Bhashar Sunkara nel suo manifesto politico, le reti o le reti delle reti, così come le federazioni fra forze politiche – per tacere degli assemblamenti elettorali – hanno il fiato corto: nel migliore dei casi possono tenere vivo il conflitto, il che non è poco, ma non caricarsi sulle spalle la trasformazione sociale.
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Il dibattito. Sinistra, quale soggetto
La riflessione che Aldo Garzia propone sulla «forma partito» è importante, soprattutto per le conclusioni cui non giunge apertamente ma cui allude e che mi paiono la risposta migliore all’invito di Norma Rangeri rivolto alle talpe a uscire allo scoperto. Prima di esplicitarle, però, un passo indietro: Aldo muove da una constatazione ineludibile. I partiti, per come li ha conosciuti la seconda metà del ‘900, non esistono più. Anche e in primo luogo a sinistra. Questa scomparsa ha due responsabili: in quota maggiore è da attribuire al cambio di paradigma che ha segnato la trasformazione del capitalismo a partire dalla metà degli anni Settanta e nella cui coda ancora oggi siamo imbrigliati.
Un cambio di paradigma che ha il suo fulcro nella frammentazione del ciclo produttivo e del soggetto operaio, nella nuova velocità dei processi di trasformazione strutturale e sovrastrutturale che, dalla finanza all’iper-comunicazione, hanno frantumato e ridefinito anche i confini delle identità. In quota minore, però, la scomparsa dei partiti è addebitabile alla scelta di intere classi dirigenti progressiste di disinvestire, nel corso degli anni, sull’organizzazione del rapporto tra politica e popolo, tra momento istituzionale e corpi intermedi. Se questo ragionamento è fondato, occorre fare i conti con le sue due conseguenze più dirette.
La prima è che sarebbe un errore imperdonabile accettare passivamente il disarmo politico e intellettuale che ha condotto dal partito di massa alle attuali forme fluide, elettoralistiche e leaderistiche della politica. In questo senso occorrerebbe il coraggio di dire che la prospettiva storica del Pd si è esaurita, perché ha scelto di collocarsi per intero sul binario morto di una costruzione asettica e indistinta, afona rispetto ai conflitti sociali e al turbinio di contraddizioni che il nuovo capitalismo ha generato.
La seconda conseguenza è che la semplice evocazione della necessità organizzativa del Partito della sinistra, fuori e contro il Pd, non funziona, è respingente, è condannata a essere velleitaria, nella misura in cui non fa i conti con la dimensione della partecipazione di larghi e ampi settori popolari alla vita politica del Paese. E più la si suggerisce e la si improvvisa e più essa evapora, insieme alla sua credibilità.
Occorre allora che sia la sinistra, la nostra sinistra, ad avanzare una proposta che sia riorganizzativa dell’intero campo progressista, che superi la frammentazione delle sigle presenti, che comprenda e coinvolga anche il Pd, e che si sviluppi non sulla base delle suggestioni (che spesso utilizzano formule vaghe perché vuote) ma di una idea-forza dirompente, senza la quale crolla l’impianto e si è condannati nella gabbia degli errori e delle insufficienze del passato recente.
Questa idea-forza è il progetto – mai sperimentato fino in fondo – di un vero protagonismo, diffuso e molecolare, delle militanti e dei militanti della sinistra italiana, che hanno il diritto di non essere più né monadi irrelate né esercito di manovra delle tante piccole élite (correnti e partiti) che governano il teatro della nostra politique politicienne. Un protagonismo che sia naturalmente democratico, che si fondi su di una pluralità di esperienze, istituti di auto-rappresentazione e di autogoverno, dalla cui unione in forma nuova, in forma federativa, nasca il partito del nostro tempo. Un soggetto politico che si concepisca in forma plurale, unendo le diversità senza costringerle alla reductio ad unum nel nome del capo (o dell’apparato burocratico che lo sostiene), un soggetto politico federato capace di adattarsi alle pieghe del nostro presente, ai tempi e ai luoghi di vita di tutti e tutte.
Che prenda in mano la dimensione digitale e la integri con quella del territorio, della vertenza locale e della mobilitazione globale. Della piazza e delle agorà. Senza avere paura di internet. Anzi: utilizzando internet per creare un unico grande spazio, un albo di donne e uomini cui affidare e con cui avviare il per percorso costituente. Su quale parola d’ordine? La più antica e al contempo la più moderna: il progetto dell’uguaglianza, di una nuova idea di eco-socialismo all’altezza della storia e delle sue contraddizioni. Apriamo le danze (o rimaniamo imbrigliati nei recinti delle rispettive appartenenze)?
Commenta (0 Commenti)Lavoro. La loro regolarizzazione annunciata di fatto non c’è stata. Il lockdown è un grave peso per chi è costretto a restare a casa. Ma per chi la casa non ce l’ha è una vera tragedia
È passato un anno da quando grazie a un manifesto della Flai Cgil si cominciò a parlare di una regolarizzazione per i lavoratori stranieri occupati in agricoltura e privi di permesso di soggiorno. E ancor prima dell’iniziativa sindacale c’erano state richieste da parte di grandi e piccoli imprenditori agricoli che – vedendo approssimarsi mesi di intensa domanda di lavoro per le semine e altre operazioni primaverili e per le raccolte estive – si erano resi conto che la manodopera disponibile era drasticamente ridotta rispetto agli anni precedenti.
MA A QUESTE probabili assenze corrispondeva una sicura presenza di immigrati privi di permesso di soggiorno oppure con permesso scaduto comunque in condizione di irregolarità : persone intrappolate in Italia e a rischio di rimpatrio forzato. Attingere ulteriormente in maniera legale a questo bacino era l’interesse dichiarato e in larga misura effettivo di molti imprenditori agricoli. Risultava dunque evidente che la sanatoria ( o regolarizzazione che dir si voglia) era una buona opportunità non solo per i lavoratori.
E a questo punto l’interesse per la regolarizzazione si estese riguardando lavoratori e datori di lavoro di vari settori ed ambienti. In particolare il lavoro domestico e quello di cura (colf e badanti). Alla fine la regolarizzazione fu approvata rientrando come parte integrante del ‘Decreto Rilancio’ del 16 maggio 2020 tuttavia con una serie di paletti e di vincoli volti a renderne il percorso difficile e costoso per tutti e praticamente impraticabile per i braccianti.
Le domande furono poco più di duecento mila per il complesso delle categorie ma quelle dei lavoratori agricoli furono circa quindicimila: una cifra veramente irrisoria se si considera il notevole e crescente numero di lavoratori stranieri occupati al nero.
E QUESTO MERITA una spiegazione specifica che chiama in causa il meccanismo cardine delle regolarizzazioni in atto nel nostro paese: un procedimento secondo il quale l’immigrato non è un soggetto che richiede di regolarizzare la propria posizione e ottenere un permesso di soggiorno. Al contrario egli è l’oggetto di una richiesta presentata da un datore di lavoro che decide di regolarizzare una persona alle proprie dipendenze.
Con la legge Bossi-Fini e relativa sanatoria questo principio fu codificato con l’infame norma del ‘contratto di soggiorno’, che lega il permesso a uno specifico rapporto di lavoro rendendo strutturalmente insicura la condizione del lavoratore ‘oggetto’ del contratto sempre a rischio di perdere il permesso di soggiorno.
MA LA MAGGIOR PARTE dei braccianti che lavorano ora al nero non hanno un rapporto di lavoro certificabile. In agricoltura la domanda di lavoro è estremamente irregolare con concentrazione in alcuni periodi e con la durata dell’occupazione presso un’azienda spesso molto breve. A volte il bracciante conosce solo il caporale e non ha alcun contatto con il titolare dell’azienda agricola. Ed è comprensibile la scarsa disponibilità di questi ultimi. Ma anche nel caso di disponibilità i requisiti personali dell’imprenditore e relativi all’azienda richiesti per dar corso alla regolarizzazione sono talmente stretti da disincentivare ogni buon proposito.
Per questo i braccianti la battaglia l’hanno persa ancora prima di cominciarla. Chi non voleva che se ne facesse nulla ha vinto la partita in anticipo. E i lavoratori si sono trovati nelle stesse condizioni di prima aggravate dall’epidemia.
Questo è l’aspetto più doloroso. La costrizione a restare chiusi in casa – il lockdown come si dice – è una gran bella seccatura, che rende la vita difficile a chiunque. Ma questa è una seccatura per chi una casa dove stare ce l’ha. Il che non è il caso di una larga parte dei lavoratori agricoli immigrati.
Un alloggio di fortuna per quanto terribile è più sopportabile se usato solo per riposarsi di notte. I ghetti, le baraccopoli, e le stesse tendopoli sono forme di degrado abitativo comunque. Ma diventano una insopportabile prigione quando non se ne può uscire. Uscire dalle precarie sistemazioni nei ghetti e altrove per gli irregolari non implica solo una contravvenzione alle norme del lockdown ma anche il rischio delle sanzioni per l’assenza di permesso di soggiorno.
INOLTRE le agglomerazioni, anche le più precarie e malsane, sono comunque un luogo di socialità e solidarietà. La giusta paura del contagio ha determinato un’ulteriore dispersione degli immigrati, costretti a cercarsi nel freddo nei mesi autunnali e dell’inverno un tetto un tugurio o una casa di campagna abbandonata per ridurre il rischio di contagio.
Lo stesso accesso al tampone è stato difficile e in alcune situazioni del Mezzogiorno è stato reso possibile dall’impegno di associazioni del volontariato. Infine in qualche caso si è dovuto rinunciare a progetti di sistemazione in strutture più o meno attrezzate di numeri significativi di braccianti per i rischi connessi all’affollamento, con il risultato di un ulteriore aumento della loro solitudine e precarietà. Insomma è stato un anno, e soprattutto un inverno, orribile.
Commenta (0 Commenti)Armi . Temo l’irresponsabilità e il vetero-atlantismo del mio partito che, in piena pandemia e crisi sociale e sanitaria, vuole l’Italia tra i protagonisti globali della corsa agli armamenti
La puntata di lunedì scorso di «Presa Diretta» sulla industria bellica e le spese militari è stata una vera boccata d’ossigeno, un ottimo esempio di servizio pubblico.
Spero davvero che, insieme ai tanti cittadini, l’abbiano vista anche i miei colleghi di partito, perché tutto ciò di cui si è parlato in quella trasmissione li riguarda molto da vicino. In special modo, tutti coloro che hanno ricoperto e che ricoprono posizioni di governo non solo nel ministero della Difesa.
Ma pure nelle varie commissioni parlamentari. Dopo le dimissioni di Zingaretti è tutto un gran parlare di rinnovamento del Pd. Ma c’è una cosa oscura che campeggia; una sorta di fantasma di cui nessuno parla, ossia la «zelanteria» ed il «senso di responsabilità» con cui si assecondano gli interessi molto particolari del complesso militare industriale del nostro Paese.
Per la verità i miei sodali sono in ottima compagnia, poiché in tutto il parlamento ho visto ben poche persone che, quando si trattava di manovrare le leve di governo, abbiano dimostrato il giusto coraggio e la necessaria coerenza rispetto ai principi costituzionali ai quali abbiamo giurato fedeltà. Mi riferisco in particolare all’art.11 della nostra Costituzione: «…l’Italia ripudia la guerra…».
PENSO CHE LO ABBIAMO tradito ogni volta che abbiamo privilegiato l’impegno della forza militare rispetto a quello della diplomazia e del negoziato, accettando finanche il principio della guerra preventiva contro le armi di distruzione di massa. Inesistenti quanto la nipote di Mubarak! Non si tratta, a mio giudizio, di negare la necessità degli strumenti di difesa, ma di doverne impedire gli eccessi. In relazione a ciò, giusto per esemplificare, mi chiedo perché non si facciano concreti passi in avanti verso un reale sistema di Difesa Europea, più efficiente e meno costoso dei ventisette proposti dai singoli Stati, che continuano a bruciare follemente ingenti risorse, impiegabili in ben altri contesti. Il risparmio di ciascun Paese, a mio giudizio, potrebbe favorire la riconversione di tanta parte dell’industria militare, a partire, a titolo di esempio, dalla transizione ecologica.
Quella vera emergenza, cioè, che chiama in causa e che pretende tecnologie, apparati di ricerca e sistemi produttivi di alto livello.
Quando ho avuto modo, concretamente, di essere chiamato a dimostrare la mia coerenza a questo principio, sono sempre stato ostacolato, spesso isolato ed infine estromesso da qualsiasi ruolo di responsabilità nel mio partito. Ma non è la mia vicenda personale ciò che conta e non è di questo che sono preoccupato.
Mi preoccupa seriamente la pervicace irresponsabilità del mio partito che, in piena pandemia e crisi socio-sanitaria, continua a credere che il nostro Paese debba essere uno dei protagonisti globali della corsa agli armamenti e che debba mantenersi saldamente al guinzaglio di un atlantismo non più rispondente alle esigenze di un continente europeo in grave deficit di una visione globale, oltre che carente della necessaria tensione ideale.
SI HA L’IMPUDENZA di giustificare la folle crescita della spesa militare, gabellandola come la panacea all’instabilità internazionale che minaccerebbe i nostri interessi nazionali. E magari si suggerisce persino l’oblio verso le responsabilità del blocco euroatlantico, con i suoi bombardamenti «umanitari» e le «esportazioni democratiche», inflitte anche col ricorso a quell’uranio impoverito, che continua a mietere vittime sia tra i civili che tra gli stessi nostri soldati mandati in missione!
CARO MINISTRO Guerini, perché continui a voler soccombere nei tribunali italiani, laddove il ministero della difesa perde le cause intentate dalle vedove e gli orfani provocati dall’uranio impoverito, anziché avere la dignità e l’onestà di riconoscere la drammatica verità emersa grazie al lavoro svolto dall’ultima commissione d’inchiesta della camera dei deputati? Perché tanta omertà?
Appena qualche giorno fa Gregorio Piccin su il manifesto ha riportato un dato del Sipri che mi ha profondamente colpito. L’autorevole istituto di Stoccolma, non Putin o Xi Jimping, sostiene, in un suo studio pubblicato lo scorso dicembre, che l’80,4% del mercato mondiale di armi e sistemi d’arma sia controllato da multinazionali del blocco euro-atlantico, mentre Russia e Cina si spartiscono il rimanente 19,6%. Lo studio riferisce inoltre che è sempre il blocco euro-atlantico quello maggiormente responsabile della così detta «internazionalizzazione» dell’industria bellica, cioè del coinvolgimento diretto di decine di Paesi nella filiera produttiva delle armi.
E questo, lo sappiamo, non per uno spirito di condivisione dei brevetti (basti vedere la squallida figura che Usa e Ue hanno recentemente fatto al Wto difendendo la proprietà intellettuale delle multinazionali farmaceutiche) ma in cambio di commesse militari, accordi strategici, rifornimenti di petrolio e gas.
In quel 80,4% c’è lo spregevole export, anche italiano, verso Paesi come Arabia Saudita, Egitto, Turchia, Emirati Arabi Uniti di cui si è parlato anche nella puntata di «Presa Diretta», ma c’è soprattutto il livello di riarmo interno.
IL MASSICCIO export di armi verso questi Paesi (per i quali i miei colleghi di partito e i loro omologhi del club Nato non esprimono alcuna riserva rispetto alla violazione dei diritti umani) è solo una conseguenza del riarmo complessivo del blocco euro-atlantico. Il vero problema non è l’export in sé. Il vero problema è che mentre l’occidente, da una parte, traina e rilancia la corsa agli armamenti in chiave globale, dall’altra continua minaccioso a puntare l’indice accusatorio verso altre realtà statuali, col classico sistema «due pesi e due misure».
Io credo che anche il Pd debba convincersi che non sia più praticabile l’esercizio della civilizzazione del mondo, col sistema delle bombe e delle invasioni. E credo che la Storia ci stia già dando conto della nostra attitudine al fariseismo.
Penso che l’Italia, partendo dal ricorso ad un laico «supplemento d’anima», debba mettere in campo una urgente transizione etica ed ecologica, per occuparsi della sicurezza, della giustizia sociale e dei diritti umani. E farsi promotrice di concrete politiche di disarmo, distensione, pace e collaborazione tra i popoli. Non credo che esistano altre opzioni.
* Ex Parlamentare PD, già Presidente della Commissione Parlamentare di inchiesta sugli effetti dell'utilizzo dell'uranio impoverito
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