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Movimenti. La protesta a piazza Montecitorio del movimento "Per la società della cura": «Il piano di ripresa e resilienza non cambia l’economia che ha prodotto la pandemia. Sono politiche economiche ispirate alle vecchie ricette di stimoli tipiche degli anni Novanta che non producono lavoro dignitoso né qualità della vita». Condanna dell'esautoramento del parlamento e della discussione pubblica sulle soluzioni contenute nel piano di oltre 330 pagine anche da parte dei deputati in piazza

Davanti alla Camera che ha ricevuto il piano del secolo, quello di «ripresa e resilienza» solo dopo le 14 per votarlo senza conoscere la versione definitiva in serata, ieri si è radunato un puzzle di movimenti, associazioni e sindacati che anima la rete «Per una società della cura». Insieme hanno redatto il «Recovery PlaNet» alternativo a quello che il 30 aprile il governo invierà alla Commissione Europea. Prossimi appuntamenti: a Roma per il Global Health Summit del 21 maggio e il ventennale del G8 di Genova.

«QUESTO MODO di fare politica la dice lunga sulla concezione della democrazia di questo governo – sostiene Marco Bersani di Attac – Il piano insegue i miti della crescita competitività e concorrenza con il presidente del consiglio Mario Draghi che spinge alla sua attuazione senza una discussione pubblica perché sostiene che ogni ritardo provoca perdite di vite umane. Farei presente che le 116 mila vittime sono la conseguenza di un modello di sviluppo che ha provocato la pandemia del Covid e che potrebbe produrne altre se non lo si cambia. Nel Pnrr non c’è un’alternativa a questo modello».

«SI STANNO AFFRONTANDO i problemi del mondo del 2021 come le pandemie e l’emergenza climatica con le politiche economiche degli anni novanta – sostiene Monica Di Sisto di Fair Watch – Pensano che gli investimenti si traducano in punti di Pil da portare a Bruxelles come un trofeo. Ma gran parte di quelli prospettati nel piano rispondono a politiche di stimolo che rischiano di finire in nulla se il mercato interno e il tessuto sociale sono impoveriti come oggi. Gli incentivi non si traducono in lavoro dignitoso e qualità della vita. La storia dell’altra crisi dovrebbe averlo dimostrato. E invece si procede nello stesso modo, più di prima. Abbiamo votato un parlamento perché esami il piano, altrimenti parliamo di ristrutturazione autocratica del paese».

«QUELLA CHE SI VOTA in queste ore è una grande spartizione di risorse che quasi tutti i partiti stanno aspettando da mesi e li ha rapidamente convinti a imbarcarsi in un governo di destra-centro-sinistra, un’“ammucchiata” senza precedenti in Italia e in Europa- ha detto Piero Bernocchi (Cobas) – Senza un reddito di base, beni comuni come scuola e ricerca, trasporti e sanità sottratti al mercato non ci sarà nessuna transizione».

ANCHE SULLA SANITÀ è il piano è stato giudicato insufficiente. «La sofferenza usata per altre esigenze economiche per fare ripartire il modello di sviluppo che è alla base di queste pandemie – ha detto intervenendo online Vittorio Agnoletto di Medicina Democratica e della campagna “Nessun profitto sulla pandemia” – Abbiamo bisogno di cambiare il paradigma della sanità, di assumere medici e infermieri, una medicina territoriale, strutture ospedaliere intermedie, i Lea devono essere garantiti da un servizio pubblico e di un’azienda sanitaria pubblica a livello europeo. Altrimenti alla prossima pandemia rincorreremo le multinazionali per avere altri vaccini».

CRITICHE sono state rivolte da Rossella Muroni (Verdi) al la visione estrattivistica delle politiche energetiche, alla politica di transizione alle energie rinnovabili non democratica e non priva di problemi sull’idrogeno; sulle grandi opere e sui commissariamenti. «C’è un deficit di partecipazione democratica – ha detto in piazza Stefano Fassina (LeU) che ha votato la fiducia al governo -La storia non finisce oggi, le leggi delega passeranno in parlamento e i progetti vanno definiti, è importante continuare la mobilitazione». «Voterò contro questo scandalo – ha detto Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) in piazza- Il governo precedente è caduto perché aveva permesso la partecipazione al piano. Ora il Parlamento lo discute a scatola chiusa».

 

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Mediterraneo. Le immagini dei gommoni che si aggirano tra i corpi senza vita di uomini e donne che speravano di salvarsi mettendosi nelle mani dei trafficanti, ancora l’unica possibilità di scappare, dovrebbero spingere governi e Ue ad attivare subito un piano di evacuazione delle migliaia di persone prigioniere delle milizie, per evitare che debbano scegliere tra la violenza e il pericolo di morte

Una vittima del naufragio di giovedì

Chissà se il premier Draghi sarà ancora soddisfatto del suo accordo con la Libia dopo la strage di esseri umani causata proprio da quell’accordo. Chissà se il nostro governo europeista interverrà per richiamare l’Ue, dato che Frontex sapeva e non è intervenuta.

Se tutto il mondo ha potuto vedere quali sono le conseguenze del cinismo italiano ed europeo è grazie ai «buonisti» della Ong Sos Mediterranèee, che hanno provato ad aiutare quelle imbarcazioni in fuga.

Il leader dei sovranisti nostrani, il «duro» Salvini, che accusa chi salva vite umane di essere responsabile di quelle morti, dovrebbe vergognarsi insieme ai tanti che, con responsabilità diverse, hanno contribuito in questi anni a consegnare alle milizie e ai trafficanti libici il destino di migliaia di persone in fuga da una guerra civile che abbiamo contribuito ad alimentare.

Per chi si ritrova prigioniero in Libia le opzioni sono due: tentare la fuga, rischiando la morte, o restare alla mercé della violenza organizzata, sdoganata anche dal Memorandum siglato dal nostro governo.

I governi europei, quelli che si ergono a giudici di chi vìola i diritti umani, davanti alla cancellazione di quei diritti si girano dall’altra parte e lasciano che siano le milizie ad occuparsi di questa umanità evidentemente per loro «meno umana».

La Libia non è un porto sicuro, ha ribadito più volte l’Alto Commissario Onu Filippo Grandi. Solo nel 2021 più di 6 mila persone sono state catturate con imbarcazioni libiche pagate dal nostro governo e riportate in lager dove è noto a tutti, anche ai nostri ministri, che le persone subiscono trattamenti disumani e degradanti.

Ma il Governo continua a fare affari con quel Paese, dichiarando che fermare quelle persone in fuga è nel nostro interesse, anche sapendo a che destino vanno incontro. Argomenti non dissimili dalla «difesa delle frontiere della patria» proclamata dal leader leghista per giustificare il sequestro di persona di cui dovrà rispondere ai giudici di Palermo.

Il Parlamento italiano deve istituire subito una Commissione d’inchiesta sull’accordo Italia – Libia e sulle responsabilità del governo nelle stragi e nelle violenze perpetrate.

Le immagini dei gommoni che si aggirano tra i corpi senza vita di uomini e donne che speravano di salvarsi mettendosi nelle mani dei trafficanti, ancora l’unica possibilità di scappare, dovrebbero spingere governi e Ue ad attivare subito un piano di evacuazione delle migliaia di persone prigioniere delle milizie, per evitare che debbano scegliere tra la violenza e il pericolo di morte.

Purtroppo finora ha prevalso il calcolo elettorale e l’assenza di coraggio e intelligenza politica, oltre che di un briciolo di coscienza, anche nelle forze democratiche.

Servono a poco quote simboliche per i cosiddetti corridoi umanitari, praticati peraltro dalle associazioni religiose e non dai governi. Dimostrano che si può fare, si possono salvare le persone, ma che a farsene carico devono essere i governi, con programmi adeguati. L’Ue si è arresa, e il Patto Europeo su migrazioni e asilo lo dimostra con chiarezza, all’ideologia dei partiti sovranisti e razzisti. Era l’aprile del 2015, solo 6 anni fa, quando a seguito dell’ennesima strage il Consiglio Europeo fu convocato d’urgenza.

Iniziò con un minuto di silenzio e si concluse con l’impegno di fermare le stragi. Il minuto di silenzio dura da 6 anni e non servono lacrime di circostanza e finte promesse. Bisogna agire subito: evacuazione e chiusura dei campi per migranti in Libia e un programma di ricerca e salvataggio europeo. Fermare la strage è possibile!

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Clima. Serve una «Costituzione che istituisca un demanio planetario con inventario non solo di diritti universali ma di beni comuni, inappropriabili da parte di nessuno

Non è una «giornata» che si può celebrare impunemente la «giornata della Terra» messa in calendario per oggi, 22 aprile. È infatti il secondo anno che cade in piena pandemia e non ci si può prendere cura della Terra senza far tesoro della lezione che ne è venuta: è sotto gli occhi di tutti come essa ci abbia preso di sorpresa e come sulla base delle risorse e delle culture disponibili non siamo minimamente in grado di reggere alla prova. Basta vedere le immagini della infinita distesa di morti malamente inumati nelle foreste a questo scopo disboscate del Brasile, per capire che senza una rivoluzione del sistema di governo e una conversione della maggioranza dei cuori la vita così com’è non può continuare sulla Terra.

La pandemia, concentrando su di sé tutta la cura del mondo, ha distolto l’attenzione da altre urgenze già presenti prima di essa e da questa aggravate. Basta pensare all’innalzamento delle acque a seguito della crisi climatica quando, come dice un documento “People and Oceans” delle Nazioni Unite, circa 145 milioni di persone vivono entro un metro sopra l’attuale livello del mare e quasi due terzi delle città del mondo, con una popolazione di oltre 5 milioni di abitanti, si trovano in aree soggette al rischio mentre quasi il 40% della popolazione mondiale vive entro 100 km da una costa. I movimenti migratori strutturali che ne deriveranno imporranno ben altre priorità alle politiche nazionali. E basta pensare al solo problema dello smaltimento delle acque contaminate dalle centrali nucleari sinistrate, come quella di Fukushima, che diventeranno inoffensive solo fra 24.000 anni, per comprendere la portata delle questioni da affrontare.

Si comprende allora lo sgomento del papa che nel messaggio di Pasqua ha definito come uno scandalo il rincrudirsi delle guerre e diffondersi delle armi nel confermato esercizio della lotta di tutti contro tutti. Ma non meno scandaloso è che mentre la ragione suggerirebbe l’immediata mondializzazione dei vaccini, enormi profitti derivanti dai loro brevetti e dall’esplodere delle tecnologie informatiche abbiano scavato nuovi abissi tra un pugno di ricchi e moltitudini di poveri, sottraendo immense risorse a bisogni vitali, nell’indiscussa obbedienza alla sovranità dei mercati.

Una risposta a queste sfide è la lotta per giungere all’adozione di una «Costituzione della Terra», come è concepita e promossa a partire dall’Italia da un movimento e una Scuola, di cui a suo tempo il manifesto ha dato notizia. Ora si è giunti al momento di cominciare a discuterne un progetto di base che sarà reso pubblico il prossimo 8 maggio in una apposita assemblea convocata per via telematica, a partire dalla Biblioteca Vallicelliana a Roma. A illustrarlo sarà Luigi Ferrajoli, che ne ha curato la stesura; si tratta di un testo aperto, in cui dovranno congiungersi il talento dei costituzionalisti, la logica dei filosofi del diritto e la poesia di uomini e donne concreti che vogliano farsi costituenti di un ordine di giustizia e pace sulla Terra.

Non si tratta solo di proclamare diritti e di porre vincoli e limiti ai poteri come fanno le Costituzioni degli Stati nazionali, si tratta anche di istituire nuovi ordinamenti che, nel pluralismo delle differenze, ne realizzino l’effettività e ne garantiscano il godimento. Si tratterà di una Costituzione ben altra rispetto a quelle vigenti, perché si tratta di dare risposte a «problemi sconosciuti ad altre età», per riprendere le parole con cui sognavano la nuova società gli spiriti grandi che già ne avevano concepito l’idea all’indomani della tragedia della seconda guerra mondiale, dopo i primi bagliori dell’arma nucleare e i sofferti genocidi, quando i popoli si riunirono a san Francisco e gettarono le basi del mondo nuovo di cui le Nazioni Unite furono l’embrione.

Ben al di là di quanto si fece allora si deve ora istituire un demanio planetario, fare un inventario non solo di diritti universali ma di beni comuni, inappropriabili da parte di nessuno, a cominciare dalle acque, dalle foreste, dalle rotte marine e spaziali, dalle medicine di base, stabilire un elenco di beni illeciti, fuori mercato, a cominciare dalle armi di offesa, abolire gli eserciti nazionali e stabilire la sola legittimità di una forza di polizia internazionale per la sicurezza e la pace, introdurre una fiscalità mondiale, debellare la fame omicida, tutelare lo storico patrimonio dei saperi e delle arti prodotto nei secoli.

Non si tratta solo di ecologia, si tratta di far continuare la storia. Occorre non violentare la Terra, spremendone e dilapidandone le ricchezze, ma riconoscendola come un pianeta vivente, una perla dell’universo, casa comune degli esseri umani, delle piante e di una grande quantità di animali, sede di storia e di lavoro, del diritto e della scienza, di amori e di illimitate speranze, come dice l’ «incipit» di questa nuova Costituzione. Si tratta di istituire una «Federazione della Terra». Naturalmente si tratta solo dell’inizio di un cammino. Ma il futuro passa anche da qui.

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Transizione ecologica. Inizia sul sito del manifesto un appuntamento fisso a cura del gruppo "Natura e lavoro"

Sciopero per il clima

Care lettrici e cari lettori de il manifesto.

Comincio così perché questo non è un articolo ma una lettera, cioè una richiesta di contatto diretto con chi fra voi abbia il tempo, e la voglia, di collaborare con quanto da ormai quasi un anno ci siamo messi a fare (il “ci” sta per una decina di ecologi scienziati e professionisti di alto livello, di cui io sono solo la portavoce): una task force chiamata “Natura e lavoro”.

Non mi dilungo qui sia perché è sul Manifesto, nel luglio scorso, che abbiamo pubblicato il nostro primo programma (un inserto intitolato “Attenti ai dinosauri”), sia perché da allora sono stati già parecchi gli articoli dei membri della nostra task force pubblicati da questo giornale. Adesso vi scrivo per informarvi che dai prossimi giorni daremo vita, sull’edizione on line del giornale, a una rubrica fissa in cui daremo conto con regolarità delle cose che andiamo facendo (già molte, siamo abbastanza soddisfatti), sia informando, e commentando quanto sta facendo il governo ma anche i tanti gruppi che operano sul fronte ecologico.

Il manifesto già da tempo sta dando un importante contributo con il prezioso inserto del giovedì, l’Extraterrestre. Noi affrontiamo nell’ambito assai largo delle cose da fare una tematica specifica, quella legata direttamente al lavoro, per aiutare in particolare i sindacati a condurre le indispensabili vertenze atte a promuovere i settori di occupazione nuova e utile che dovranno sostituire quelli che devono esser abbandonati perché aggravano ulteriormente il disastro che minaccia la Terra.

Il ricatto che pesa sui lavoratori, imposto da chi ritiene che ci si possa salvare senza una trasformazione profonda del modo di produrre e consumare, è pesantissimo e l’impegno deve andar ben oltre una generica protesta. Per questo, scopo della rubrica non è solo informarvi, ma sollecitare la vostra fantasia e il vostro impegno, qualcosa che ogni persona di sinistra – che si preoccupa oltre che di se stesso anche degli altri – dovrebbe cercare di fare.

Per questo stiamo cercando di attivare sul territorio, reti che mettano in rapporto soggetti sociali diversi per cominciare ad aprire a quel livello le vertenze necessarie. L’indicazione di Landini di costruire accanto ai sindacati di categoria, sempre meno esaustivi oggi che il lavoro è stato così frantumato, anche “sindacati di strada”, facilita la nostra iniziativa.

Per farvi un esempio: il 16 aprile stiamo preparando assieme al sindacato edili, la Fillea, e gruppi femministi, un primo incontro per riflettere sull’abitare oggi e su come usare bene i fondi per la transizione ambientalista nel ridisegnare immobili e quartieri.

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Decreto Sostegni. Il segretario Cgil: allungare il blocco da giugno a tutto ottobre, l’emergenza non è finita. In audizione al senato stoccata al governo sul condono: serve lotta all’evasione e una riforma fiscale

Un lavoratore con la mascherina in una fabbrica a Milano

Il blocco dei licenziamenti va allungato e nel frattempo serve «un piano straordinario del lavoro». Maurizio Landini in audizione al senato sul decreto Sostegni bacchetta il governo Draghi e lancia una proposta per battere gli effetti della pandemia sull’occupazione.

Per il segretario generale della Cgil la situazione è ancora troppo grave per consentire altre scelte: il blocco dei licenziamenti – che proprio il decreto Sostegni allunga da fine marzo al 30 giugno – va portato fino al 31 ottobre. «È importante – ha detto Landini in video collegamento con il senato –. Siamo ancora in piena emergenza».

NEL CORSO DELL’AUDIZIONE il leader della Cgil ha anche ricordato che è aperto il confronto sulla riforma degli ammortizzatori e, dunque, «avere questo periodo che evita di aprire la strada dei licenziamenti – ha detto – credo sia un tema importante». Il decreto Sostegni, ha poi riconosciuto, è un «fatto nuovo e importante», anche se è necessaria «una strategia più generale che affronti un piano straordinario per l’occupazione sia nel settore privato che in quello pubblico».

I sindacati, dunque, pur sottolineando l’importanza del provvedimento da 32 miliardi, tornano in pressing, chiedendo modifiche durante l’iter parlamentare. «Pur apprezzando gli sforzi fatti, continuiamo a ritenere che la data del 30 giugno per lo sblocco dei licenziamenti sia troppo vicina – ha affermato Ignazio Ganga – la distinzione, presente nel decreto, tra datori di lavoro rientranti nel perimetro della cassa integrazione ordinaria (cigo) e cassa integrazione in deroga – rileva la Cisl – non trova riscontro nella situazione reale ancora molto grave sotto i profili sanitario ed economico-sociale, una situazione che non vede settore economico nel Paese che non sia direttamente o indirettamente colpito dagli effetti del virus». Per questo «rinnoviamo la richiesta di prorogare il blocco dei licenziamenti per tutti», prolungando in parallelo la cassa integrazione Covid, «fino a quando sarà terminata la campagna vaccinale e l’emergenza sanitaria», insiste il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra. l licenziamenti «vanno bloccati fino alla fine della pandemia», rimarca Proietti.

LANDINI NON HA POI PERSO occasione per parlare anche della vertenza Alitalia: «Non è accettabile che perdiamo una nostra compagnia così importante e che si subiscano una serie di diktat dall’Europa, che non ha lo stesso comportamento con tutti, come si vede per Air France», facendo riferimento al salvataggio della compagnia francese avallato dalla commissione europea. Il sindacato, proprio per questo, sta «chiedendo la convocazione al governo delle parti sociali per evitare una situazione di non ritorno e drammatica per i posti di lavoro e la capacità industriale, turistica e produttiva del nostro paese».

Infine un giudizio negativo sul condono fiscale che «non ci convince». Esiste il problema del cosiddetto «magazzino» – l’arretrato di cartelle esattoriali che lo stato difficilmente riuscirà a smaltire – , ha detto «ma un conto è cancellare ciò che è realmente irrecuperabile, altro è arrivare a forme che assumono carattere di condono fiscale». «Lotta all’evasione fiscale e una vera e propria riforma del fisco sono l’esigenza che poniamo, il tema che deve essere aperto – ha concluso -. Non può essere che chi paga le tasse debba sentirsi un cittadino si serie B o poco furbo. C’è la necessità di un intervento strutturato di riforma».

POSIZIONI CONDIVISE DA CISL e Uil che sono state audite, sebbene con i soli segretari nazionali e non generali. Per Ignazio Ganga, Cisl, è «necessario sedersi a un tavolo per la riforma fiscale e quindi – ha aggiunto – siamo contrari a un condono». E Domenico Proietti della Uil chiede «preliminarmente di stralciare dal decreto tutto quello che riguarda la rottamazione delle cartelle»: in primo luogo perché «è una vergogna e uno schiaffo in faccia ai lavoratori dipendenti, ai pensionati e alle imprese che fanno il loro dovere con il fisco. La seconda ragione è che non è coerente alle finalità del decreto che vuole sostenere le politiche attive. Chiediamo al Parlamento un atto preciso: stralciare la norma». Proietti si è detto a favore di una «riforma fiscale per la trasparenza e l’equità». E ha chiesto di «mantenere nella sua attuale forma il cashback (contestato da Fratelli d’Italia e da buona parte della destra, ndr) perché – ha detto – come dimostrano i dati dell’Agenzia delle entrate, ogni euro investito nella lotta all’evasione produce 4 euro».

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Novecento. Il 6 aprile 1941 l’invasione nazifascista della Jugoslavia. Un appello di storici chiede giustizia per le atrocità che furono compiute allora. La «continuità dello Stato» del dopoguerra: nessuno pagò per stragi e violenze. Mussolini annunciò già nel ’20: politica del bastone contro la razza slava, inferiore e barbara

Battaglione delle camicie nere entra in Jugoslavia nei primi giorni dell’invasione

Il 6 aprile 1941 divisioni tedesche e italiane invadevano la Jugoslavia dividendola in zone di occupazione. L’Italia monarchico-fascista costituì la «provincia italiana di Lubiana» in Slovenia annettendo al regno di casa Savoia, dal luglio 1941, anche il Montenegro.

Iniziò così l’occupazione della Jugoslavia che non solo completò l’aggressione del regime ai Balcani, iniziata nel 1939 in Albania e seguita nel 1940 in Grecia, ma rappresentò il correlato storico-politico del «fascismo di frontiera» emerso negli anni Venti con lo squadrismo e sintetizzato nei suoi obiettivi da Mussolini nella visita a Pola del 22 settembre 1920: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone (…) si possono più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

IN LINEA con questo impianto ideologico le truppe del regio esercito, le autorità di polizia, i carabinieri e le milizie fasciste dei battaglioni «M» disposero su tutto il territorio le misure della «guerra ai civili», che lo stesso popolo italiano avrebbe poi drammaticamente conosciuto durante l’occupazione nazista. Fucilazioni di civili e partigiani, deportazioni di massa (100.000 jugoslavi trasferiti nei campi d’internamento italiani), incendio e saccheggio delle città e dei villaggi (nel febbraio 1942 l’intera città di Lubiana venne circondata da una «cintura» di filo spinato e posti di blocco e poi razziata), stragi (il 12 luglio 1942 a Podhum 108 fucilati e oltre 800 deportati; a Niksic e in altre città del Montenegro fucilazione di 95 comunisti e 200 civili tra il 20 giugno 1942 e il 25 giugno 1943) violenze e abusi sulla popolazione (nella sola Lubiana morirono 33.000 persone pari al 10% dei suoi abitanti) assunsero un carattere sistemico codificato dalle disposizioni della «circolare 3C» firmata dal generale Mario Roatta, già capo del Servizio Informazioni Militari, guida delle truppe fasciste in Spagna e poi al vertice della II Armata di occupazione in Croazia.

L’OCCUPAZIONE MILITARE costò alla Jugoslavia oltre un milione di morti mentre in tutta l’area dei Balcani i crimini di guerra compiuti dal regio esercito e dalle autorità italiane contribuirono da un lato al rincrudimento delle misure di repressione e controguerriglia antipartigiana e dall’altro ad alimentare la Resistenza militare e civile delle popolazioni in Albania, Grecia e Jugoslavia.

Nel maggio 1942 su La Voce del Montenegro il generale Alessandro Pirzio Biroli da «governatore» della regione scriverà: «Tutto il popolo sappia che ogni partigiano, ogni collaboratore, informatore e simpatizzante dei partigiani sarà fucilato sul luogo della cattura». Dal canto suo Mussolini il 31 luglio 1942 a Gorizia aveva ordinato ai generali: «Al terrore dei partigiani si deve rispondere col ferro e col fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri (…) questa popolazione non ci amerà mai (…). Questo territorio deve essere considerato territorio di esperienza. Non vi preoccupate del disagio della popolazione, lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze».

Al termine del secondo conflitto mondiale le Nazioni Unite stilarono un lungo elenco di criminali di guerra italiani che solo per la Jugoslavia comprendeva 750 nomi (generali, ufficiali dell’esercito, carabinieri, questori, camicie nere) a cui si aggiungevano i 142 iscritti nelle liste dell’Albania, i 111 della Grecia, i 12 dell’Urss.

Le ragioni della Guerra Fredda, la nuova collocazione geopolitica di Roma e la sistematizzazione dell’anticomunismo di Stato permisero ai governi dell’Italia post-bellica di non estradare i criminali nei Paesi che ne facevano richiesta; evitare processi presso un tribunale internazionale; non pagare i risarcimenti alle vittime ed agli Stati nonostante le disposizioni del Trattato di Pace di Parigi del 1947. Così la «mancata Norimberga italiana» rappresentò un vulnus storico nella stessa radice di nascita della democrazia repubblicana alimentando il falso mito degli «italiani brava gente», consentendo l’impunità dei criminali ed il loro reinserimento negli apparati delle Forze Armate, dei servizi segreti e delle forze dell’ordine sostanziando una «continuità dello Stato» che incise fortemente sul carattere e la qualità della nostra democrazia nei decenni successivi, tanto che diversi criminali di guerra furono coinvolti nelle stragi e nei tentativi di colpo di Stato degli anni Settanta.

OTTANT’ANNI DOPO l’occupazione della Jugoslavia, un appello di centinaia di storici e studiosi chiede alle istituzioni e al Paese un atto di coraggio in grado di rielaborare sul piano pubblico questo tragico passato rimosso, assumendo come memoria storica collettiva le responsabilità per i crimini compiuti dal fascismo contro altri popoli in un’ottica di superamento dei nazionalismi, di valorizzazione del dettato costituzionale in ordine al ripudio della guerra, di liquidazione tanto etico-morale quanto politico-sociale del fascismo.

Devastazioni prodotte dall’esercito italiano. Un’immagine proveniente dal Museo nazionale di storia contemporanea della Slovenia

L’APPELLO

Alle istituzioni per un riconoscimento ufficiale dei crimini fascisti in Jugoslavia in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’invasione da parte dell’esercito italiano.

QUEST’ANNO ricorre l’ottantesimo anniversario dell’invasione della Jugoslavia da parte dell’esercito italiano, avvenuta il 6 aprile 1941. Durante l’occupazione fascista e nazista, e fino alla Liberazione nel 1945, in questo territorio si contano circa un milione di morti. L’Italia fascista ha contribuito indirettamente a queste uccisioni con l’aggressione militare e l’appoggio offerto alle forze collaborazioniste che hanno condotto vere e proprie operazioni di sterminio. Ma anche direttamente con fucilazioni di prigionieri e ostaggi, rappresaglie, rastrellamenti e campi di concentramento, nei quali sono stati internati circa centomila jugoslavi.
La Repubblica Italiana non ha mai espresso una netta condanna, né una presa di distanza radicale da queste atrocità: non sono stati istituiti giorni commemorativi, né sono state compiute visite di Stato in luoghi della memoria dei crimini fascisti in Jugoslavia.

CHIEDIAMO DUNQUE al Presidente e ai rappresentanti delle principali istituzioni una presa di coscienza di questo dramma storico rimosso. L’ottantesimo anniversario sarebbe l’occasione ideale per farsi carico della responsabilità storica di pratiche criminali (…). Una dichiarazione pubblica o una visita ufficiale (per esempio al campo di concentramento di Arbe, sull’isola di Rab, dove morirono di fame e di stenti 1465 persone) avrebbero un notevole significato simbolico e dimostrerebbero il senso di responsabilità delle nostre istituzioni e il riconoscimento della sofferenza inflitta ai popoli della Slovenia, della Croazia, del Montenegro, della Bosnia e Erzegovina. Nel solco dei precedenti incontri ufficiali che hanno avuto luogo negli anni passati (…) questa dichiarazione rappresenterebbe un ulteriore passo in avanti sulla strada della riconciliazione europea e di una più ampia comprensione dei processi storici.

Il testo completo dell’appello, già sottoscritto da centinaia di storici e studiosi, sarà pubblicato da oggi sul sito dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, www.reteparri.it

Da oggi la mostra
«A ferro e fuoco»

Sarà presentata questo pomeriggio alle 17 la mostra virtuale «A ferro e fuoco» che racconta l’occupazione italiana della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943 grazie a 200 immagini, 25 testimonianze d’epoca e 81 interviste ai maggiori studiosi dell’argomento: Giancarlo Bertuzzi, Giulia Caccamo, Štefan Cok, Marco Cuzzi, Costantino Di Sante, Filippo Focardi, Eric Gobetti, Federico Goddi, Brunello Mantelli, Luciano Monzali, Jože Pirjevec, Guido Rumici, Nevenka Troha, Anna Maria Vinci. Il progetto è stato curato dallo storico Raoul Pupo. Realizzata dall’Istituto Parri, dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza del Fvg e dal Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Trieste, la mostra è visitabile su www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it. Oggi la presentazione su https://zoom.us/j/93156396203 e www.youtube.com/user/IRSMLFVG

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