Sembra prevalere, specialmente in economia, il luogo comune che, assimilando i valori a “gusti” e a “preferenze”, li relega in ambito personale e privato
Attraverso le difficoltà aspre e crescenti che incontrano le democrazie contemporanee torna a riproporsi con grande forza, a dispetto di tutti i vagheggiamenti di neocentrismo, la discriminante destra/sinistra. Le difficoltà, infatti, sono di tipo materiale – indotte dalla crisi pandemica, la delocalizzazione della manifattura dai paesi occidentali, l’automazione, l’esplosione della disoccupazione e della precarizzazione gravanti soprattutto sulle donne e sui giovani – ma anche di tipo culturale (di reattività verso i cambiamenti nei costumi, il terrorismo, la microcriminalità diffusa e così via) e morale, queste ultime giudicate da Michael Sandel ancora più importanti, perché mettono in gioco, oltre ai wages e agli jobs, la social esteem ferita e tradita. Un forte disorientamento e smarrimento culturale tradiscono la coesistenza paradossale di una crisi di valori e di una domanda valoriale inevasa.
Assai influente su tutto ciò è stato ed è il “pluralismo dei valori”, conquista irrinunciabile della modernità – in quanto opponentesi al dominio della tradizione e di tutti i vincoli naturalistici: la famiglia, il clan, la razza, la nazione – ma che nella versione del “secolarismo liberale” ha finito con l’identificarsi con una sorta di ostracismo dato alla discussione dei valori nella sfera pubblica, il quale, a sua volta, è in non piccola misura causa dei processi di “depoliticizzazione” e “dedemocratizzazione” in atto, alimentati dalla ibridazione reciproca tra neoliberismo e populismi.
Sembra essere arrivato alla sua definitiva imposizione un luogo comune (nella cui coltivazione si è distinta la disciplina economica) risalente da molto lontano, che sancisce “de gustibus non est disputandum” e che, assimilando i valori a “gusti” e a “preferenze” – dei quali, appunto, in quanto espressioni del tutto personali e private, non è possibile disputare – estende ai valori l’interdizione alla disputa e all’esame critico pubblici, da condurre in modi aperti, argomentati, razionali.
In effetti, il secolarismo liberale – che, con la speranza di neutralizzare le pulsioni distruttive delle guerre di religione, ha confinato le credenze metafisiche e le convinzioni assolute, dunque anche quelle valoriali, in un territorio extrapolitico e extrapubblico, nella sfera privata – ne opera una sorta di privatizzazione che lega la loro apprezzabilità a uno statuto di mutismo politico, inducendo a calare un velo di trascuratezza e di sottovalutazione su dissensi pregni di credenze significative su cosa è vero e cosa è falso, cosa è giusto e cosa è ingiusto, cosa è moralmente apprezzabile e cosa no.
L’esito di questa sottrazione al discorso pubblico delle questioni valoriali si risolve in una difficoltà di loro sottoposizione all’argomentazione, all’esame critico, alla verifica razionale, al dibattito collettivo, al dialogo intercomunicativo. La cecità morale si trasforma in cecità cognitiva e viceversa, così come (lungo il filone Nietzsche-Heidegger-Schmitt-Foucault) il nichilismo morale è l’altra faccia del nichilismo logico, il “tutto è permesso” l’altra faccia del “non c’è alcuna verità”, arrivando fino alla mancanza di rispetto per la verità nel comportamento dei repubblicani americani che hanno venduto la loro anima a Trump, inventore della politica della “postverità”.
Qui oggi c’è una latitanza, e pertanto una responsabilità, di tutto il pensiero – economico, politico, filosofico – specie di quello di matrice illuministica ed umanistica che fu, invece, alla base delle battaglie di libertà e di giustizia del mondo moderno, a partire dalle grandi Rivoluzioni americana e francese, le cui categorie chiave – libertà, eguaglianza, fraternità – sono profondamente morali, per arrivare al rinnovamento costituzionale degli Stati nel Novecento, dopo le catastrofi delle due guerre mondiali.
Troppo spesso oggi si confonde la linfa antidogmatica, antifondamentalista, liberatrice della modernità con l’accettazione del relativismo e si escludono i valori dall’ambito del razionalmente tematizzabile e indagabile, separandoli dalla conoscenza e dalla ricerca.
Ben diverso è sempre stato l’approccio sostenuto dalla scuola di Francoforte fondata da Horkheimer e Adorno, oggi proseguito da Habermas, che vi ha collocato il fondamento della sua proposta di “patriottismo costituzionale”, e dai suoi allievi. Axel Honneth, per esempio, fa del recupero della dimensione valoriale e simbolica la base della sua proposta di un socialismo con “corposa concezione etica” fondato sulla riscoperta radicale del valore del lavoro, grazie al quale critica anche il marxismo tradizionale per la sua grave opacità quanto alla considerazione delle ricadute politico-morali del capitalismo e per il suo “monismo economicista disperante”, nel quale non rimane più “nessun spazio legittimo né per l’autonomia dei singoli, né per la ricerca intersoggettiva di una volontà comune”.