Pci 100 anni. Quel partito fu «una scuola di cittadinanza», «una risorsa democratica nei momenti bui della Repubblica». È stato bello crederci ma ora, ci dicono, è finita l’illusione
La ricorrenza dei cento anni dalla fondazione del partito comunista italiano è stata un’occasione rivelatrice, va detto, per come in tanti hanno in realtà celebrato la fine, non l’inizio, di quel partito (il 3 febbraio saranno 30 anni). Con quel senso che è un misto di sollievo e ricordo di un’esperienza difficile che, alla fine dei conti, è stato un bene per tutti che ci siamo lasciati alle spalle. Anche i più ben disposti – parliamo degli opinionisti e dei commentatori, i politici hanno altro a cui pensare – lo hanno fatto con lo stesso sentimento con il quale si guarda alle fotografie seppiate dei braccianti in rivolta, come per dire «guarda quanto eravamo illusi, con quella miseria nelle facce». È stato bello crederci, ci è stato detto, ora è finalmente finita l’illusione. Sì, quel partito fu «una scuola di alfabetizzazione e di cittadinanza», «una palestra di resistenza al fascismo», «una risorsa democratica nei momenti bui della Repubblica», «una comunità di ideali». Ma quanta condiscendenza!
Certo, la politica ha i suoi tempi e obiettivi, la politica è gestione del concreto, nel quotidiano delle scelte che vanno fatte, al governo come all’opposizione. E qui invece parliamo di storia e, come ci ricordava Susan Sontag, «non c’è nessuno che seriamente pensi che la storia possa prendere la politica sul serio» (e viceversa). Eppure, qui parliamo di una storia che, in barba agli epitaffi e alle ricorrenze, non è mai finita.
Il comunismo – questo giornale ne sa qualcosa, con l’occhiello che reca – nacque e visse come prospettiva di rovesciamento definitivo di una condizione di oppressione di una classe – quella operaia, che abbracciava tutte le altre – che era stata subalterna per secoli, da sempre, anche quando era semplicemente formata da lavoratori che non avevano altra ricchezza se non le proprie braccia, la forza-lavoro.
Furono pensatori, filosofi, intellettuali, non politici, che ci ruminarono sopra e fu quel sommovimento che diede luogo alla rivoluzione francese che diede il là ai Michelet, ai France, ai Babeuf, ai Saint Simon, ai Fourier, agli Owen, finché arrivò il giovane Karl Marx con il suo «18 brumaio» e poi, con l’ancora più giovane Friedrich Engels, con il loro «Manifesto». Che non fu una “pensata” estemporanea, ma voleva dare senso politico ai movimenti operai che già reclamavano diritti e salari dignitosi nei paesi del capitalismo nascente. Lo spettro che si allora aggirava per l’Europa ha poi cambiato facce, si è fatto più maturo, divenne persino cosa concreta con la rivoluzione dei soviet. Si erse a vessillo per gli oppressi di tutto il mondo, degenerò, riapparve in altre spoglie con il Grande timoniere, con Ho Chi Minh, con Che Guevara. Senza mai smettere di spaventare le borghesie capitaliste di tutto il mondo.
E non smise mai di essere fucina di pensieri, divergenti, ribollenti. Quanto fu importante il movimento comunista, e la riflessione dei suoi intellettuali nel mondo, per l’emancipazione degli oppressi, anche quando Stalin prese la via autocratica che porterà ai gulag. Quando Togliatti tornò in Italia per affermare «la via italiana al socialismo» aveva in mente già un’altra cosa, ma con un obiettivo simile (l’emancipazione delle classi subalterne). Questo fece il Pci: aspirare al socialismo lottando per la democrazia progressiva. E quanto fu capace, quel partito, di produrre cultura, dibattito, riflessione (alla faccia del centralismo). Quanto fu ricca quella stagione di idee, dentro e fuori il Pci.
Poi, successe quel che sappiamo e quel partito, lasciato morire per sopraggiunta assenza di causa ultima, non ha lasciato eredi. Ne sono nati due, e poi altri. Uno, il più grande, ha pensato bene di liberarsi dell’eredità considerandola scomoda nella società «liberal». Gli altri, hanno preferito la «testimonianza» di chi guarda l’album di famiglia con la nostalgia dei bei tempi andati.
E gli oppressi? Sono ancora là, non sono più tanto solo operai, ma rider, marginali, laureati senza lavoro, braccianti venuti d’oltremare, ma anche semplici “tecnici”, “impiegati”, lavoratori alienati (si diceva così, un tempo), tutti senza chi li rappresenti. Il partito-successore ha dilapidato il patrimonio, si è accoppiato sconsideratamente e ora rimpiange molte cose, senza sapere quali. Pensava forse che, ora che non doveva più giustificare l’amicizia coi sovietici dei gulag, fosse finita quella cosa che chiamavano «anti-comunismo», un collante perfetto per chi voleva che si lasciasse fare al capitalismo quello che sa fare meglio, profitto sulla pelle degli altri (e se ci va di mezzo il pianeta, tant’è). Si è ritrovato a dover fare i conti con un mostro che è ancora più attrezzato di prima, senza bagaglio teorico e, soprattutto, senza più l’obiettivo di trasformare l’ordine delle cose.
E senza capire che anche oggi, nella post-democrazia della post-verità, dove le masse succubi del «surveillance capitalism» possono andare dietro al pifferaio di turno, avrebbero bisogno di dare un senso alla loro vita molecolarizzata, non questo ritorno all’Ottocento di politici che rendono solo conto dei loro «like», perché non c’è libertà senza giustizia e senza uguaglianza, proprio come allora, proprio come sempre.
Commenta (0 Commenti)Missione fallita, missione compiuta.
Matteo Renzi ha ottenuto l’obiettivo che si era prefisso: distruggere la maggioranza di governo, annientare il centrosinistra e tirare la volata a un governo di unità nazionale, consegnando il paese nelle mani di un salvatore della patria che ha un nome e cognome: Mario Draghi, incaricato, ieri sera, dal presidente Mattarella, di formare un ministero di salute pubblica.
Sono ore drammatiche, sottolineate dal tono e dalle parole del Capo dello Stato che, parlando in diretta televisiva, ha informato il paese delle sue determinazioni.
Mattarella ha spiegato perché le elezioni anticipate non sono ritenute un’alternativa possibile in questo momento e perché è invece necessario avere subito un governo capace di affrontare la situazione sanitaria e dunque di centrare l’obiettivo del Recovery fund.
Siamo di fronte se non a un azzeramento certamente a una micidiale riduzione degli spazi democratici, a un vero e proprio commissariamento del paese, come capitò con Monti e come non capita in nessun paese europeo, e segnatamente in una congiuntura storica come quella che stiamo vivendo.
Si annullano le differenze politiche e si affidano le sorti del nostro paese a un illustre economista. Che solo il paravento di una falsa coscienza può definire un tecnico.
E quando la politica fa un passo indietro per lasciare il campo a uomini della finanza, vuol dire che la democrazia gode di una cattiva, pessima salute.
Un motivo in più per tenere alta la guardia.
Commenta (0 Commenti)Crisi di governo. Il capo di Iv è il re del travestitismo, inganna i suoi sodali, si muove alle spalle del proprio schieramento, tramortisce l'opinione pubblica con accorate finzioni
Ha centrato il cuore del problema Maurizio Landini, intervenendo al Congresso di Sinistra Italiana. Sbarazzando il campo dalle fantasticherie giornalistiche sulla diversità dei caratteri fra Conte e Renzi, e da altre amenità di pari consistenza, che sarebbero alla base dello scontro in atto, ha sottolineato che il conflitto nasce da due progetti contrapposti di gestione della crisi pandemica e delle risorse del Recovery Fund. Punto. Landini non si è poi soffermato molto sul tema, anche se ha ricordato che in Europa siamo il paese che ha più a lungo protetto i lavoratori dai licenziamenti.
Un provvedimento che fa tanto innervosire Matteo Renzi, il quale, com’è noto, e come bisognerebbe ricordare a politici e giornalisti senza memoria, brucia di così tanto amore per le condizioni della classe operaia da aver abolito l’articolo 18 e imposto la precarietà e il caporalato di Stato attraverso il Jobs Act. E oggi il nostro stratega – lo racconta bene Roberta Covelli in La scelta di Renzi: cacciare Conte e portare avanti il programma di Confindustria in Fanpage.it – presso la corte di uno sceicco assassino, dove va a raccattare danaro, si dichiara «molto invidioso» dei salari di fame che gli imprenditori sauditi possono permettersi a Riad. Sulla cui condotta criminale il manifesto ha più volte richiamato l’attenzione (si veda da ultimo, Francesco Strazzari, Il primo, tardivo, segnale di politica pacifista).
Ma che Renzi sia uno dei più temibili uomini di destra della scena italiana è il segreto di pulcinella per i gonzi, e per la vasta fauna di scrittori e cianciatori nulla sapienti, che affollano la scena pubblica italiana. È tra i più diabolici per la sua straordinaria capacità di travestimento, in grado di ingannare anche i suoi sodali, di muoversi alla spalle del proprio schieramento, di tramortire l’opinione pubblica con accorate finzioni, di fare patti sotterranei col nemico.
Basterebbe l’elenco delle sue scelte di governo: dal Jobs act, alla Buona scuola, all’esenzione dall’Imu sulla prima casa, alla lotta contro il reddito di cittadinanza, alla critica contro le iniziative di sostegno sociale dell’attuale governo, ecc. Ma basta questo per spiegare la sua caparbia avversione al governo Conte? È solo una prima ragione. Perché questo governo, lo si voglia o no, per quanto era nelle sue possibilità, ha puntato a proteggere la vita dei cittadini, contro la volontà di Confindustria (e di Renzi) di continuare le attività produttive nonostante il virus (qualcuno ricorda quanto accadeva nelle fabbriche lombarde, nella scorsa primavera?). E ha cercato di attenuare il peso della paralisi economica sulla condizione dei ceti più deboli, con un minimo di distribuzione monetaria.
Ma io credo che Renzi sia animato da un doppio progetto politico, uno immediato e un altro di prospettiva. L’uomo, in realtà non ha alcuna fede, se non in sé stesso, e appoggia i gruppi dominanti per ambizione, per averne in cambio sostegno di potere e danaro. Danaro non per avidità personale, ma per costruire le proprie fortune politiche. Perché primeggiare nel comando è il rovello che non lo fa dormire la notte.
Ebbene, agli occhi di Renzi Giuseppe Conte ha non solo il torto di non avviare subito la vecchia politica di opere pubbliche – oggi in contrasto con lo spirito del piano Next generation – di riaprire i cantieri, vale a dire riprendere il progetto del Tav in Val di Susa, il Ponte sullo stretto, tornare a saccheggiare il nostro territorio, facendo ripartire le grandi opere, magari senza appalti e senza tanti vincoli. Non è solo questo.
Conte ha il torto di tenere insieme due forze diversissime, per anni in reciproco conflitto, facendole cooperare all’interno di uno degli esecutivi di maggior successo in Europa. Chi sostiene il contrario, ricordando il numero dei morti da Covid in Italia, dimentica che la pandemia in Europa è iniziata in casa nostra, quando l’ignoranza sul virus era universalmente totale, e le nostre strutture sanitarie smantellate e impoverite da decenni di tagli.
Ma Conte non solo riesce a far cooperare due forze diverse, con una politica di europeismo critico, che gli è valso un riscontro senza precedenti nella storia dei nostri rapporti con l’Ue. Egli tiene uniti i singoli partiti, i quali non sono partiti, ma coacervi di correnti, gruppi, club, aggregati da collanti labili. Se salta Conte anche questi corpi rischiano di esplodere e nel rimescolamento generale Renzi conta non solo di dar vita a un esecutivo amico, ma di pescare forze fra i fuoriusciti dalla diaspora che seguirebbe.
Il suo l’obiettivo di fondo è di guadagnare nel prossimo futuro una consistenza parlamentare sufficiente a farlo diventare, in modo stabile, l’ago della bilancia di ogni possibile governo. Qualcosa di simile al ruolo di arbitro supremo che si ritagliò a suo tempo Bettino Craxi. È il caso di ricordare, dunque, alla sinistra, ma anche a tutti i democratici, a chi ha a cuore le sorti del paese, che bandire dalla scena politica Matteo Renzi costituisce una delle condizioni inaggirabili per la liberazione e il progresso della vita civile italiana nei prossimi anni.
Commenta (0 Commenti)Equologica. Oggi si chiudono le votazioni on-line. Fratoianni: la nostra comunità è un bene utile
Il primo congresso in Italia di una forza politica totalmente on-line si è chiuso domenica con numeri inaspettati: 750 persone collegate, 26 interventi esterni e, soprattutto, la voglia di diventare il coagulo di formazioni politiche diverse verso quella «cosa rosso-verde» dando gambe e forza al progetto Equologica, partito con buoni risultati a dicembre.
Con la replica del segretario Nicola Fratoianni, domenica si è concluso il secondo giorno del secondo Congresso Nazionale di Sinistra Italiana. Se sabato le 10 ore di dibattito avevano perfino portato a stravolgere il calendario delle consultazioni per il governo di Roberto Fico – la delegazione di Leu era stata spostata nella serata per consentire a tutti di seguire il congresso – domenica altre 10 ore di dibattito e confronto politico con interventi molto variegati.
Nella due giorni si sono alternati personaggi come il sindaco di Milano Beppe Sala, Maurizio Landini, associazioni come Arci, Anpi e Legambiente, il vicesegretario del Pd Andrea Orlando, Massimiliano Smeriglio, molti fuoriusciti dal M5S – in primis l’ex ministro Lorenzo Fioramonti – e tutti i partiti e movimenti a sinistra del Pd, fuori e dentro Liberi e Uguali (Leu): Articolo 1, Rifondazione comunista, Verdi italiani.
Dalle ore 12 di ieri fino alle ore 12 di oggi vengono votati online l’ordine del giorno conclusivo del congresso, i vari documenti presentati, l’assemblea nazionale di 137 membri e la commissione nazionale di garanzia. Sarà poi l’assemblea nazionale a votare i vertici del partito.
Nella sua relazione conclusiva Nicola Fratoianni aveva tirato le fila del lungo dibattito. «Per quel che mi riguarda, questi due giorni dicono che questa comunità continua ad esprimere un valore, un valore di cui credo dovremmo innanzitutto riconoscere l’importanza anche quando misuriamo la nostra fragilità ed insufficienza – ha esordito Fratoianni – . Io credo che questo piccolo partito, piccolo ma prezioso, continui ad essere per noi un bene utile per la sinistra, per gli ambientalisti, per le tante esperienze civiche di questo paese – ha aggiunto – . Proviamo a rendere merito a tutte noi di questo lavoro che con tanta difficoltà, con tanti errori, abbiamo fatto in questi anni. E che oggi, insieme, decidiamo di voler continuare a fare anche per i prossimi anni».
In questo quadro quasi tutti gli interventi interni al congresso di Sinistra Italiana hanno valutato positivamente «il passo avanti» rappresentato dalla nascita di Equologica, «rete degli ecologisti e della sinistra». Il suo carattere provvisorio è però considerato necessario per evitare precipitose unificazioni, nonostante la necessità – avvertita da tutti – di un soggetto politico che superi la «insopportabile» frammentazione esistente.
Sul territorio esistono già numerosi esempi di «reti» di sinistra ecologista che non sempre però hanno una visione nazionale e sentono l’urgenza di entrare in un movimento che ambisca ad entrare in parlamento.
Quanto alla situazione politica di queste ultime ore, Fratoianni è molto duro col presidente di Confindustria Carlo Bonomi e con le sue ingerenze sulla crisi di governo: «Se prima poteva sembrare un’ipotesi, ora sembra molto più chiaro. Il presidente di Confindustria Bonomi lo ha detto senza problemi: “il governo si era arroccato su se stesso. Nel nuovo governo vorremmo ascolto, ma vero”. Per poi aggiungere, in merito al blocco dei licenziamenti, che “nei settori che avranno una ripresa diciamo invece dateci la possibilità di liberare”.
Non ci si crede. Chiamano libertà il dramma che rappresenta, e che ha rappresentato per tante e tanti, perdere il lavoro nel mezzo di questa terribile pandemia. Davvero senza vergogna», sostiene Fratoianni – . Anche noi vogliamo essere chiari – prosegue l’esponente di Sinistra Italiana – il prossimo governo deve rinnovare ristori, cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti. Senza se e senza ma. E ci aggiungerei anche l’introduzione del salario minimo, il rinnovo dei contratti – conclude Fratoianni – e una tassa sulle grandi ricchezze».
Commenta (0 Commenti)Mentre il leader d'Italia viva entrava al Quirinale per le consultazioni col presidente della Repubblica in Arabia è stata trasmesso l'intervento registrato dell'ex segretario del Pd al Future Investment Initiative, ribattezzato dai locali come la "Davos del deserto". Un dibattito col controverso principe Mohammed bin Salman durante il quale l'ex segretario del Pd si è prodotto in una serie di affermazioni entusiastiche nei confronti del Paese arabo. Le cui autorità, secondo Amnesty, reprimono "i diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione. Hanno vessato, detenuto arbitrariamente e perseguito penalmente decine di persone critiche nei confronti del governo"
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Polemiche. La tecnologia che l’Eni vuole utilizzare non azzera le emissioni dovute alla combustione, ma le riduce soltanto, e la riduzione ha un costo molto elevato. Nulla esclude che un giorno il gas serra possa tornare in atmosfera
Nei piani di trasformazione verso il green dell’Eni c’è il progetto di catturare la CO2 prodotta nella sua area industriale di Ravenna e pomparla, sotterrandola, nei suoi giacimenti esausti dell’Adriatico.
Si tratta cioè di mettere in atto la tecnologia detta CCS (Carbon Capture and Sequestration, ovvero cattura e sequestro del carbonio) che è stato proposto venga usata su grande scala per combattere il riscaldamento globale.
In effetti, l’idea è semplice, a parole: si preleva la CO2 emessa dalla ciminiera di una fabbrica o da una centrale elettrica e la si immette in una tubazione che la trasporta da qualche parte dove viene pompata sottoterra; e sottoterra dovrebbe rimanere per sempre. In questo modo, pur bruciando un combustibile fossile, la concentrazione della CO2 in atmosfera non aumenterebbe. Semplice e geniale, dicono i sostenitori. Pericoloso e concettualmente inaccettabile, dicono i detrattori.
Ma come stanno veramente le cose?
Proviamo ad esaminare il tutto prendendo in considerazione le operazioni che vanno fatte per mettere in pratica la CCS. Semplificando al massimo, le principali operazioni sono: separare la relativamente bassa concentrazione di CO2 dal grande flusso di azoto che costituisce la maggior parte dei fumi; e bisogna separarlo anche da altri componenti minori e dal particolato. Questa operazione, ovviamente, non è gratis: richiede energia e conseguenti emissioni, oltre grandi quantità di prodotti chimici – per produrre i quali occorrono energia (quindi emissioni) e risorse fisiche; trasportare e iniettare la CO2 sottoterra, cioè pompare; e per pompare gas occorre energia, e tanta, con relative emissioni.
Un’indagine condotta su 11 impianti sperimentali di CCS già realizzati ha evidenziato che, tenendo conto delle perdite e delle emissioni di CO2 conseguenti all’uso dell’energia occorrente per il processo, con la CCS l’immissione netta di anidride carbonica in atmosfera si riduce di una quota che va dal 63 all’82%, a seconda del tipo di impianto. Dunque, la CCS non azzera le emissioni dovute alla combustione, ma solo le riduce, e questa riduzione ha oggi un costo molto elevato. Il costo è in parte compensato, quando la CO2 si inietta in giacimenti di petrolio o metano esausti, da cui – con l’aumento di pressione – si possono spremere quantità residuali che non era stato conveniente estrarre. Il fatto è che l’operazione costa e non conviene farlo, a meno che non si sia un sussidio statale.
UN ALTRO ASPETTO DA PRENDERE in considerazione è: per quanto tempo potremo andare avanti bruciando combustibile fossile come al solito, anzi di più, sotterrando la CO2 prodotta? Cioè, quale è la quantità totale di CO2 che si può togliere di mezzo sotterrandola, tenendo conto della capienza dei siti nei quali questa operazione si può fare in condizioni di relativa sicurezza? Si è stimato che in pratica i siti che possono essere effettivamente utilizzati in tutto il mondo hanno una capacità totale che si saturerebbe entro 120 anni (stime più ottimiste dicono 300 anni) con l’attuale produzione di emissioni, molto meno se aumenteranno, come è certo che avverrebbe se dovessimo abbandonarci alle lusinghe della CCS. Così, all’inizio del prossimo secolo potremmo già ritrovarci nella situazione di partenza, anzi più critica, perché – non dimentichiamolo – le riserve di energia fossile non sono infinite e quelle ancora estraibili avrebbero un costo molto elevato. In più, continueremo nella nostra dissennata sistematica alterazione degli ecosistemi attraverso il cambiamento dell’uso del suolo, il depauperamento delle risorse idriche, della immissione di sostanze inquinanti nell’ambiente terrestre e marino, e avremo così profondamente alterato gli equilibri della biosfera, che il problema da fronteggiare non sarebbe il cambiamento climatico ma la sesta estinzione. Questo temono le associazioni ambientaliste e la comunità scientifica.
DA NON SOTTOVALUTARE POI SONO I RISCHI. Infatti niente assicura (non abbiamo esperienza in proposito) che il biossido di carbonio sequestrato a un certo punto, fra pochi o molti anni, lentamente o improvvisamente (per esempio per effetto di terremoti) non finisca per essere di nuovo rilasciato in atmosfera: un bel regalo per chi verrà dopo di noi, che sarà costretto a subire un brusco aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera, con conseguenze certamente non benigne. E poi, anche se si dovesse operare in modo da minimizzare il rischio, occorre ricordare che rischio basso non significa che l’evento non può aver luogo.
C’è qualcuno che porta avanti un’altra argomentazione contro la CCS, non proprio scientifica, ma che forse non va presa troppo sottogamba. Chi avrebbe il massimo vantaggio dalla diffusione della tecnologia CCS e per questo le promuove vigorosamente? Le compagnie Oil&Gas, che continuerebbero a estrarre e a vendere idrocarburi. Ma si tratta delle le stesse che per anni hanno distorto la verità – con milioni di dollari distribuiti a chi di dovere – negando che fossero le emissioni di CO2 causa del riscaldamento globale, o negando il riscaldamento globale tout court. Se quindi questi stessi soggetti sostengono ora che il CCS è sicuro e ci risolve tutti i problemi, che gli ambientalisti dicono stupidaggini…. ogni sospetto è lecito, anzi d’obbligo.
AL DI LÀ DEI COSTI, DEI RISCHI e della sfiducia, c’è un elemento incontrovertibile che milita decisamente a sfavore di questa soluzione, sia pure transitoria – come qualcuno sostiene debba essere per addolcire la pillola. L’elemento incontrovertibile è che dovremmo finalmente avere capito quello che la comunità scientifica ci dice da decenni: il solo modo di garantire prosperità ed equità all’umanità è quello di cercare di mimare il modello di funzionamento degli ecosistemi, cioè il modello circolare. Lo stesso dobbiamo fare noi, con l’economia circolare. Dobbiamo sempre chiudere i cicli. La CCS va contro questa logica, è in linea invece con quella che ci ha portato al riscaldamento globale, e nell’Antropocene: la logica dell’estrai-usa-getta. Nel caso specifico, estrai-usa-sotterra, come si fa con i rifiuti nelle discariche. La CCS è incompatibile con l’economia circolare.
CON TANTI FATTORI A SFAVORE, come mai la CCS, al di là delle pressioni interessate delle compagnie Oil&Gas ha comunque dei sostenitori in buona fede? L’argomento che si pone a favore delle CCS è che senza questa tecnologia non possiamo raggiungere l’obiettivo zero emissioni nel 2050. Il motivo per cui è indispensabile, dicono i sostenitori, deriva dal fatto che, se l’elettricità delle centrali termoelettriche può essere prodotta dai campi eolico e fotovoltaici, lo stesso non può farsi per la produzione di cemento e di acciaio, per esempio, che richiedono gas o altro combustibile fossile per il loro processo produttivo. Quindi per tutte queste fabbriche non c’è fonte rinnovabile che possa essere usata, e dunque dobbiamo continuare con le fossili, e sotterrare la CO2. Per fortuna le cose non stanno così, perché c’è invece un’alternativa, che è l’idrogeno verde, cioè l’idrogeno prodotto attraverso l’elettrolisi dell’acqua con energia elettrica proveniente da fonte rinnovabile. Infatti l’idrogeno può essere utilizzato per la produzione di acciaio primario e in altri processi produttivi della siderurgia, della raffinazione del petrolio, della chimica, cemento, vetro e cartiere. Ci sono numerose sperimentazioni in corso e su questa linea bisogna puntare.
VERO CHE OGGI L’IDROGENO non è competitivo con il gas, ma se all’attuale costo del gas aggiungiamo quello della CCS, la distanza si accorcia alquanto, e forse si annulla, se si considerano tutti i fattori, rischio incluso. E poi, quello dell’idrogeno è un ciclo chiuso: si parte dall’acqua, scindendola nei suoi componenti idrogeno e ossigeno, e all’acqua si torna quando si brucia l’idrogeno e si ricombina con l’ossigeno. Il tutto alimentato da energia rinnovabile. Non a caso è sull’idrogeno verde che il Green Deal Europeo ha puntato, e per svilupparlo ha messo a disposizione ingenti risorse.
* Federico Maria Butera è un fisico italiano, professore emerito di Fisica Tecnica Ambientale al Politecnico di Milano.
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