12 dicembre ’69. Quella strage racconta la modalità regressiva delle classi dirigenti italiane di fronte alle crisi e alla loro incapacità nell'assorbire l'ingresso delle masse nella vita pubblica
Un aspetto dei funerali che si sono svolti nell'interno del Duomo. Fuori dal Duomo una folla immensa © Torino/LaPresse
Il 12 dicembre 1969, cinquantadue anni fa, è una data che racconta molto dell’Italia di fine anni Sessanta. È un Giano bifronte della storia del Paese che sintetizza le grandi spinte progressive emerse dalle lotte sociali delle classi subalterne nel corso del biennio 1968-1969 (la più grande mobilitazione operaia e sindacale della storia della Repubblica) e le recrudescenze regressive delle classi proprietarie deflagrate, in maniera anonima e non rivendicata, con la strage di Piazza Fontana e gli attentati di Roma.
Il 12 dicembre il Senato votava l’approvazione in prima lettura dello Statuto dei Lavoratori (diverrà legge il 20 maggio 1970 con il voto della Camera) mentre a Parigi il ministro degli Esteri Aldo Moro rappresentava l’Italia nella riunione del Consiglio d’Europa che avrebbe espulso la Grecia dei colonnelli (che preferì ritirasi da sola) dal consesso delle democrazie continentali.
Nelle ore successive alla strage, compiuta dai fascisti di Ordine Nuovo con il decisivo supporto degli apparati di forza dello Stato, l’Italia poté assistere all’indecenza di un ferroviere anarchico già staffetta partigiana (Giuseppe Pinelli) interrogato negli uffici della Questura di Milano diretta da un ex capo-carceriere fascista (Marcello Guida, già direttore del confino di Ventotene). Da quegli uffici Pinelli uscì volando dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi dove era trattenuto illegalmente ben oltre i termini del fermo di polizia. Intanto il canale unico della Rai-Tv con l’inviato Bruno Vespa annunciava a tutti gli italiani che l’anarchico Pietro Valpreda era «uno dei colpevoli della strage di Milano e degli attentati di Roma». Si ruppe lungo quel crinale il rapporto di fiducia tra l’informazione ufficiale e l’opinione pubblica e da lì nacque, con glorie e limiti, la «controinformazione».
L’anomalia italiana rispetto al resto d’Europa si configurò nel rapporto torsivo tra ingresso della democrazia conflittuale nella sfera pubblica e risposta armata di organismi politici, paramilitari e militari. Milioni di ore di sciopero, manifestazioni, occupazioni di università e scuole o scioperi «selvaggi» si ebbero in tutti i Paesi europei a capitalismo maturo e democrazia liberale. In nessuno di questi Stati lo stragismo si manifestò come fenomeno di lunga durata e di opposizione diretta a tali processi, configurando una dimensione distorta non solo del conflitto sociale ma anche della categoria della «violenza politica» che nell’immaginario collettivo di oggi è associata non alle stragi e alle responsabilità dello Stato (prontamente autoassoltosi) ma solo agli anni cinematograficamente definiti «di piombo», così da cancellarne il tratto democratico con cui si caratterizzano.
Il 12 dicembre racconta la modalità regressiva con cui le classi dirigenti italiane hanno storicamente approcciato alle crisi ma soprattutto tanto la loro incapacità nell’assorbire l’ingresso delle masse nella vita pubblica quanto la loro repulsione verso la democrazia conflittuale, che segna invece il carattere della Costituzione repubblicana nata dall’eredità dell’antifascismo e della Resistenza.
In un quadro storico completamente mutato; ad oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino; in una fase di «riflusso» della globalizzazione; in un contesto mondiale piegato dalla crisi pandemica che da subito si è correlata con la crisi economico-sociale e formativo-culturale, fa una certa impressione – fatta salva l’«unicità» della stagione di lotte dell’autunno caldo – registrare come scioperi, manifestazioni e partecipazione dal basso vengano anche oggi delegittimati e definiti «irresponsabili» quando al contrario rappresentano il diritto ad esistere delle classi subalterne dentro questa crisi non più solo come oggetto ma come soggetto.
Tra gli indirizzi positivi che si possono trarre dalle stagioni ’60-’70 emergono senza dubbio la centralità dell’agire collettivo e la pratica dell’uguaglianza sostanziale e della sovranità popolare che informano cuore e visione della Costituzione. Quando in discussione sono i fondamenti della salute, del lavoro, della giustizia sociale, dell’istruzione e dell’uguaglianza di genere è indispensabile, per la sopravvivenza di una democrazia, la mobilitazione delle forze sociali e popolari.
Per questo è una buona notizia «che viene dal passato» e si conferma nel presente delle diseguaglianze, il fatto che lavoratori, precari, disoccupati e chi paga nel quotidiano il prezzo duro della crisi liberale pretendano il diritto di parola e rivendichino i propri diritti ed interessi di classe. Ciò segna, a dispetto della «indignazione liberale», il ritorno nello spazio pubblico di un pezzo largo della società, non più ricurvo nella solitudine scura della crisi. «È fatto giorno -scriveva Rocco Scotellaro- siamo entrati in gioco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo».