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Economia Il presidente cinese riceve i vertici dell’industria globale e si erge a leader antiprotezionista

Il forum economico globale ospitato nella Grande Sala del Popolo di Pechino dal presidente cinese Xi Jimping foto Ap Il forum economico globale ospitato nella Grande Sala del Popolo di Pechino dal presidente cinese Xi Jinping – Ap

«Trump sta dicendo che ci sono sia amici che nemici e che gli amici possono essere più difficili. Questo è molto complicato da capire». A dirlo, da Tokyo, è il premier giapponese Shigeru Ishiba, furioso dopo la mancata esenzione sui dazi per le auto imposti dalla Casa bianca.

Qualche centinaio di chilometri a ovest, la Cina osserva e prova a farsi amici quelli che temeva fossero ormai nemici. Dopo aver risposto con ritorsioni mirate ai precedenti round tariffari anti cinesi di Trump, stavolta Xi Jinping ha adottato una strategia diversa: corteggiare in una volta sola le aziende straniere, governi occidentali, i vicini asiatici e paesi del sud globale. In che modo? Ergendosi a leader dell’antiprotezionismo e garante del libero commercio. D’altronde, i dazi sulle auto colpiscono soprattutto gli alleati storici degli Stati uniti, sia in Europa che in Asia.

SIGNIFICATIVO che, ieri mattina, di fronte a Xi nella grande sala del popolo di Pechino sedesse nientemeno che Akio Toyoda, presidente di Toyota. Mentre il colosso dell’auto giapponese crollava del 4,76% in borsa a causa delle tariffe, Toyoda ha ringraziato Xi per il recente via libera alla costruzione di un impianto di veicoli elettrici a Shanghai, per cui non ci sarà inusualmente bisogno di joint venture con un partner locale. Con lui, circa 40 grandi manager internazionali. Tra gli altri: Ola Kallenius di Mercedes-Benz, Oliver Zipse di BMW, Paul Hudson di Sanofi, Raj Subramaniam di FedEx, Georges Elhedery di HSBC, Ray Dalio di Bridgewater. Presenti anche i vertici di colossi dell’elettronica come Hitachi e Samsung, dei microchip come la sudcoreana SK Hynix, di giganti del petrolio come Saudi Aramco.

«L’UNILATERALISMO e il protezionismo si stanno intensificando, ma la Cina aprirà sempre di più le sue porte», ha detto Xi, in un chiaro riferimento alla politica dei dazi di Trump. «Il multilateralismo è una scelta inevitabile, la Cina promuove un’economia mondiale aperta», ha aggiunto, garantendo sostegno ad aziende simbolo dei rispettivi settori. Lo stesso messaggio è stato recapitato a una lunga lista di altri manager: da Tim Cook di Apple ai vertici di Qualcomm, da Blackstone a Maersk, da AstraZeneca a Total Energies.

NON HANNO PARTECIPATO TUTTI all’incontro con Xi, ma erano presenti in massa al China Development Forum, dove sono stati ricevuti da figure apicali del Partito comunista come il ministro del Commercio Wang Wentao e il vicepremier He Lifeng, zar delle politiche economiche. Già da un po’ il governo cinese punta sui rapporti personali con le grandi aziende e i loro leader. Negli scorsi anni, sono stati ricevuti a più riprese Elon Musk, su cui vengono ora riposte speranze di un dialogo fruttuoso con la Casa bianca, come Pat Gelsinger di Intel o Bill Gates di Microsoft. La speranza è di far ripartire gli investimenti esteri (in netto calo da anni) e ottenere forme di pressione anti dazi delle multinazionali presso i rispettivi governi. Il tutto rafforzando la narrativa degli scambi “people-to-people”, sottolineando come sia la «mentalità da guerra fredda» del governo Usa a impedire la cooperazione.

«L’unilateralismo e il protezionismo crescono, ma la Cina aprirà sempre di più le sue porte. È una scelta inevitabile, siamo per un’economia mondiale aperta Xi Jinping

STESSA POSTURA sul fronte diplomatico. Sempre ieri, Xi ha ricevuto il premio Nobel Muhammad Yunus, attuale leader del Bangladesh, con cui ha firmato una serie di accordi. Ora si punta a migliorare i rapporti con l’Europa, di cui si è appena ospitato il commissario al Commercio Maros Sefcovic, e coi vicini asiatici, facendo leva sulle rispettive rimostranze anti Trump.

Per il Giappone, le auto rappresentano oltre il 30% delle esportazioni negli Usa e il 7% dell’export totale. Secondo Nikkei, i dazi ridurranno le spedizioni del 15-20%, con un impatto dello 0,2% sul pil. Cifre simili per la Corea del Sud, che solo con Hyundai e Kia ha venduto quasi due milioni di veicoli sul mercato statunitense nel 2024. Tokyo e Seul vedono le tasse aggiuntive come un tradimento. Nel 2019, Trump aveva firmato con l’allora premier giapponese Shinzo Abe un accordo in cui prometteva uno stop ai dazi in cambio di maggiori importazioni.

A SEUL C’È CHI SI LAMENTA di ricevere un trattamento simile alla Cina, nonostante Hyundai abbia appena annunciato un investimento da 21 miliardi di dollari per una nuova fabbrica in Louisiana. Non sembra un caso che domani si terrà un trilaterale tra i ministri del Commercio di Giappone, Corea del Sud e Cina. È la prima volta dal 2019. In agenda colloqui su un possibile accordo di libero scambio.

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Il governo fa un ennesimo decreto contro i migranti. In Albania, dove i campi sono rimasti vuoti, potranno essere trasferiti anche gli «irregolari» dall’Italia. Calpestati i diritti ma non funzionerà neanche stavolta

Giro di vite Con il nuovo decreto possibili i trasferimenti degli «irregolari» dal territorio nazionale. Ma l’esecutivo non chiarisce come avverranno. «In parlamento il governo ha detto che nei centri c’è la nostra giurisdizione ma non è territorio italiano. La modifica è fuori dalla direttiva rimpatri», afferma Riccardo Magi (+Europa)

L’arrivo nel gennaio scorso di 49 migranti al porto di Shengjin, Albania, dopo essere stati intercettati in mare dalla guardia costiera italiana L’arrivo nel gennaio scorso di 49 migranti al porto di Shengjin, Albania, dopo essere stati intercettati in mare dalla guardia costiera italiana – Armando Babani /Zuma via Ansa

I centri in Albania non sono territorio italiano, anzi sì. Ci mandiamo i richiedenti asilo per scoraggiare nuove traversate, anzi no. Se non basta il protocollo facciamo una legge di ratifica. Se i giudici non ci danno ragione trasferiamo la competenza. E ieri la giostra dell’accordo Roma-Tirana ha fatto un altro giro. Un ennesimo decreto per trasformare le strutture di Shengjin e Gjader nella Guantanamo italiana. Giusto due settimane dopo che la Guantanamo vera è stata svuotata da Trump: costava troppo ed era inutile. Proprio come la nostra. Evidentemente per Giorgia Meloni una photo opportunity con i centri albanesi finalmente pieni val bene l’ennesimo spreco di risorse e la costruzione di un meccanismo di trasferimenti andata/ritorno ancora più farraginoso e crudele del precedente.

Il decreto varato ieri modifica in due punti la legge di ratifica del protocollo Roma-Tirana per spedire oltre Adriatico gli stranieri «irregolari» dal territorio nazionale. Nel primo elimina l’avverbio «esclusivamente» dal comma che diceva «nelle aree del Protocollo possono essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale». Nel secondo stabilisce che il trasferimento non fa venire meno il titolo di trattenimento, non produce effetti sulla procedura, né richiede una nuova convalida del giudice (quello competente sugli «irregolari» è il giudice di pace).

SI TRATTA DI UN TOTALE stravolgimento degli obiettivi iniziali con cui era stato pensato il progetto Albania. Fino a ieri in quei centri dovevano andare i richiedenti asilo provenienti dai «paesi sicuri» secondo una finzione giuridica che li considerava non ancora entrati nel territorio nazionale e dunque sottoposti alle procedure accelerate di frontiera. Per il governo questo meccanismo avrebbe avuto un effetto dissuasivo sulle traversate scoraggiando chi rischiava di finire a Gjader invece che in Italia. Sorprendentemente durante la conferenza stampa di ieri il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha detto: «Quando salgono sulla nave italiana usata per il trasferimento entrano in territorio nazionale». Innegabile, se non fosse che fino a giovedì l’esecutivo aveva sostenuto il contrario.

In attesa del verdetto della Corte di giustizia Ue sui «paesi sicuri», da cui la maggioranza spera di avere il via libera per trattenere in Albania i richiedenti asilo, le modifiche permetteranno di trasferire oltre Adriatico anche gli «irregolari». Ovvero i destinatari di provvedimenti di espulsione, già rinchiusi o da rinchiudere in un Cpr italiano. Come questo avverrà resta da capire. Teoricamente dovrebbero essere portati con una nave italiana che fa scalo a Shengjin, mentre sembra più complicata l’ipotesi di voli su Tirana e conseguente trasferimento via terra. Ma a questo punto è lecito aspettarsi qualsiasi cosa. In ogni caso, ha detto Piantedosi, si tratterebbe al massimo di 140 persone, la capienza del Cpr di Gjader adiacente ma distinto dalla struttura di trattenimento per i richiedenti. Queste persone sarebbero sottoposte a una disciplina diversa dalle procedure accelerate di frontiera che prevedono il trattenimento per massimo un mese: potrebbero restare «parcheggiate» in Albania fino a un anno e mezzo. Poi riportate in Italia e da lì rimpatriate, ammesso ci siano accordi con i paesi di origine. L’illogicità di tutto il meccanismo è evidente: se la deportazione è

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Fronte est Macron e Starmer non intendono allentare le sanzioni a Mosca né cedere alla richiesta del Cremlino di smilitarizzare Kiev

Asse Londra-Parigi. Nasce la «forza di rassicurazione» Tusk, Zelenskyy, Macron, Starmer e von der Leyen al vertice dei “volenterosi” di Parigi – Ap

Ennesima fumata bianca da Parigi: nessuna decisione ma molte dichiarazioni altisonanti. Francia e Gran Bretagna continuano sulla linea dell’intransigenza verso la Russia, evocando una «forza di rassicurazione» che dovrebbe essere diversa dal contingente di peacekeeping menzionato finora ma si configurerebbe come una garanzia di sicurezza de facto per Kiev. Un corpo di militari internazionali (principalmente europei), sotto «un mandato delle Nazioni unite, che dispiegherebbero truppe di mantenimento della pace in quel momento». È la via della «pace attraverso la forza» più volte invocata da Zelensky che ha trovato ieri una formulazione semantica nuova.

A TENERE le fila della discussione il padrone di casa Macron, che ora vorrebbe formare un gruppo di «volenterosi e capaci», tra Paesi Ue e loro alleati (senza gli Usa) per contribuire a una «soluzione duratura» del conflitto in Europa dell’est. Una delle opzioni sul tavolo dei convitati a Parigi è stata il dispiegamento di una «forza considerevole» nell’Ucraina centrale, nei pressi del fiume Dnipro ma lontano dal fronte.

Secondo Associated Press, che ha raccolto le dichiarazioni di un anonimo alto funzionario di Parigi, un’ulteriore opzione, più conservativa, potrebbe essere lo schieramento del contingente occidentale nell’estremo ovest del Paese, magari a Leopoli, a ridosso della Polonia, o addirittura oltre il confine ma con la consegna di tenersi «pronto a intervenire». «Oggi la proposta viene da Francia e Regno Unito ed è accettata da Ucraina e altri stati membri, non c’è bisogno dell’unanimità per questa missione a guida francese e britannica.

Abbiamo lavorato in team anche con i rappresentanti delle Forze armate ucraine, per definire luogo, numero di forze e capacità. Niente è escluso, dalle forze di terra a quelle marittime a quelle aeree, ma queste non si sostituiscono né ad eventuali forze di pace né alle forze ucraine» ha dichiarato Macron a conclusione del vertice di ieri. La questione dell’unanimità è stata molto dibattuta e alla fine si è deciso di procedere ugualmente. I militari occidentali avranno due compiti fondamentali: addestrare l’esercito di Kiev ed evitare che l’Ucraina non sia attaccata di nuovo. Ma non si sostituiranno alle forze armate ucraine, non saranno forze di «mantenimento della pace» e non «combatteranno al fronte». Ma, proprio perché non c’è unanimità e Londra e Parigi hanno deciso in autonomia, le regole d’ingaggio sono tutt’altro che chiare e i rischi all’orizzonte sono molti.

AD ESEMPIO, è evidente che Macron e Starmer non hanno intenzione di acconsentire alle richieste di Mosca di una smilitarizzazione dell’Ucraina e del suo status di neutralità. Al momento Donald Trump non ha reagito ai proclami europei ma è chiaro che a lungo andare la voglia di protagonismo militare dell’Ue rappresenterà un problema per le trattative.

Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, «Londra e Parigi continuano a escogitare piani per l’intervento militare in Ucraina mascherati da una sorta di missione di mantenimento della pace». Simili le dichiarazioni dei fedelissimi di Putin che accusano i «volenterosi» di voler costruire un «nemico comune» per giustificare il riarmo e la militarizzazione del Vecchio continente. Tra l’altro, evitando di intervenire direttamente sulle dichiarazioni uscite ieri da Parigi, il capo del Cremlino si è concentrato sui possibili sviluppi della politica trumpiana.

«Tutti sono ben consapevoli dei piani degli Stati uniti per annettere la Groenlandia, sono piani seri», ha dichiarato Putin citato da Interfax, «è profondamente sbagliato credere che si tratti di una sorta di discorso stravagante della nuova amministrazione americana». Non può passare inosservata la strana coincidenza dei discorsi sull’Ucraina, dunque delle mire russe, e dell’isola artica che Washington continua a reclamare. Un eventuale accordo del Cremlino e della Casa bianca sull’artico (anche senza la Groenlandia) potrebbe essere uno degli argomenti sul tavolo tra Trump e Putin per la spartizione delle rispettive aree di influenza.

SULLE DECISIONI di Trump si è espresso anche Macron che ha definito «paradossale» l’aumento dei dazi, «proprio nel momento in cui l’America chiede all’Europa più sforzi nella difesa». Il capo dell’Eliseo ritiene che le recenti decisioni di Washington creino «inquietudine» e ha auspicato che il tycoon ritorni sui suoi passi. In ogni caso, e questo è il punto focale del nuovo asse Francia-Regno unito: «Non possiamo dipendere dagli americani e non possiamo accettare che la pace dipenda solo dagli americani».

 

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Vertice di Parigi La premier: coinvolgere gli Usa. Ok della Lega. Il Capo dello Stato: «Le forze armate devono avere un approccio di deterrenza e prevenzione per difendere il diritto internazionale». Crosetto in Parlamento: «Servono più investimenti militari»

Meloni frena: «No a militari italiani». Mattarella: «Sulla difesa l’Ue decida» Sergio Mattarella – Ansa

«Appare essenziale una riflessione sul nuovo contesto strategico internazionale che naturalmente richiederà conseguenti processi decisionali. Vale per le decisioni nel contesto dell’Alleanza atlantica e vale per le decisioni nell’Unione europea che non sono più rinviabili». Sergio Mattarella parla dopo l’incontro con i vertici dell’Aeronautica militare per il 102esimo anniversario dalla fondazione, al Quirinale.

E nel suo ragionamento, giocoforza, entra il caos geopolitico. «Le tensioni globali, la competizione – piuttosto caotica, per la verità – tra potenze per il dominio del mondo, l’inatteso ritorno del conflitto convenzionale in Europa, le nuove minacce ibride stanno alterando il contesto di regole faticosamente costruito, dalla comunità internazionale, dopo la Seconda guerra mondiale».

Ed è per questo, dice il Capo dello Stato, che le decisioni in sede Ue non sono più rinviabili. Senza per questo cedere ad una logica puramente bellicista. «La missione affidata alle Forze armate è quella di difendere gli ordinamenti democratici del Paese e il rispetto del diritto internazionale, operando sempre con un approccio di deterrenza, di prevenzione, di difesa collettiva», spiega Mattarella.

Nel suo discorso non ci sono riferimenti diretti al vertice di Parigi convocato da Macron sull’Ucraina, né sul piano di riarmo di von der Leyen. Meno che mai alle divisioni in politica estera tra le forze di maggioranza. Meloni a Parigi ha ribadito due concetti: il no dell’Italia alla partecipazione ad una forza militare in Ucraina e la richiesta di coinvolgere anche una delegazione Usa al prossimo summit dei «volenterosi».

Una «pace giusta e duratura» necessita del continuo sostegno all’Ucraina e di garanzie di sicurezza solide e credibili», si legge in una nota di palazzo Chigi, che per Meloni devono «trovare fondamento nel contesto euroatlantico, anche sulla base di un modello che in parte possa ricalcare quanto previsto dall’articolo 5 del Trattato di Washington».

Su questa ipotesi su cui la premier insite da tempo, garantire a Kiev il soccorso Nato in caso di nuova aggressione russa (pur senza una adesione dell’Ucraina alla Nato) , Macron « ha sollevato l’opportunità di un approfondimento tecnico», che Meloni «ha accolto con favore».

Una posizione molto prudente, rispetto agli slanci di Francia e Gran Bretagna, che la Lega ha salutato con soddisfazione: «Bene la linea del governo italiano, saggia e prudente, con la richiesta di coinvolgere gli Stati Uniti», dicono fonti leghiste. «Mai come in questo momento è doveroso abbassare i toni e soffocare le pulsioni belliciste».

In mattinata i ministro di Esteri e Difesa Tajani e Crosetto, sono stati ascoltati in Parlamento. « Per quanto riguarda l’attuazione e il monitoraggio del cessate il fuoco, sosteniamo da tempo un ruolo profilato delle Nazioni Unite, nella cornice autorizzativa del Consiglio di Sicurezza, di cui fanno parte anche Russia e Cina», ha detto Tajani.

Crosetto è uscito dallo schema della prudenza: «Nei prossimi mesi o anni le Camere dovranno decidere su un nuovo modello di difesa che preveda un aumento di organico, così la formazione, gli investimenti in difesa. Noi continuiamo a sostenere che l’interesse dell’Italia non è perseguire il riarmo ma costruire la difesa. Oggi la mancanza di investimenti, che dopo la caduta del Muro sono scesi drasticamente». E ancora: «Il ministro della Difesa deve chiedersi: “Se l’Italia domattina subisse un attacco di tre ore come quello ricevuto da Israele sarebbe in grado di difendersi?”. Se la risposta è no, deve agire. Il suo compito è impedire che quelle bombe cadano sulle città, sugli ospedali, sull’Italia».

 

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Isolata in Europa sulla guerra in Ucraina, silenziosa sui dazi americani che sono un guaio per l’Unione e un guaio doppio per l’Italia. Panico tra i produttori nazionali, ma Meloni scommette ancora su un rapporto speciale con Trump. Che però è smentito dai fatti

Il nemico americano L’attacco a Cina ed Europa colpisce anche i produttori locali attraverso la componentistica e le delocalizzazioni in Messico. La Casa bianca minaccia di tassare su «grande scala» l’Ue se farà asse con il Canada «contro la nostra economia»

I dazi Usa affossano l’auto su entrambi i lati dell’Atlantico Stoccarda, container nel porto – Ap

La sola certezza è che cresce l’incertezza economica in tutto il mondo, con il rischio di conseguenze gravi per l’occupazione e il benessere delle società. L’ultimo attacco al multilateralismo da parte di Donald Trump è l’annuncio di una sovrattassa alle frontiere del 25% per “tutte” le importazioni di auto, veicoli, camion non fabbricati negli Usa «in vigore dal 2 aprile, cominciamo a incassare il 3» poi, nel giro al massimo di un mese, i dazi verranno imposti anche a tutta la componentistica auto. Un 25% che si aggiunge ai dazi già esistenti, per l’export Ue si va al 27,5%, mentre «se costruite la vostra auto negli Usa, non ci sono dazi». E il 2 aprile è anche «il giorno della liberazione» per Trump, con la messa in atto dei «dazi reciproci» per tutti, l’occhio per occhio del commercio internazionale, tariffe doganali eguali a quelle imposte dagli altri, per tassare «i paesi che ci rubano posti di lavoro, le nostre ricchezze», che «ci hanno rubato molto, amici come nemici, e francamente sovente gli amici sono peggio dei nemici» (la Ue nata «per fregare» gli Usa).

I TITOLI delle case automobilistiche – straniere ma anche statunitensi – hanno sofferto ieri in borsa. Queste minacce di dazi «fanno pesare un’incertezza importante sulle previsioni di crescita», afferma il ministro francese dell’Economia, Eric Lombard. Persino il presidente della Fed, Jerome Powell, ha sottolineato un clima di incertezza «estremamente alto». Il colpo è pesante: gli Usa importano la metà delle auto vendute, per un valore nel 2024 di 214 miliardi. La mossa rischia un effetto inflazionistico, gravando sui prezzi, gli Usa aspettano 100 miliardi di entrate per i dazi. L’attacco, che mira alla Cina (125% di dazi), torna a colpire il Messico, da cui proviene il 16,2% delle auto vendute negli Usa, perché molti costruttori hanno delocalizzato per approfittare del costo del lavoro più basso.

I COSTRUTTORI USA, che hanno espresso subito preoccupazione, hanno ottenuto che i dazi vengano imposti solo sul prodotto finito e limitatamente alla parte non made in Usa, evitando una tassazione a ogni movimento delle componenti. Persino Elon Musk giudica un effetto «non trascurabile» sui costi per

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L'amica immaginaria Oggi sciopero della Fiom, Fim e Uilm

L’aprile nero dell’automotive in crisi preoccupa tutti tranne il governo Atessa, fabbrica Stellantis – Luca Prosperi / Ansa

Il settore dell’automotive nazionale arriverà al 2 aprile già in crisi nera. I dazi dell’amministrazione Trump si innestano nel peggior momento del mercato delle auto. E il governo sovranista di Meloni balbetta davanti al precipizio in cui cadranno i lavoratori.
A dirlo non sono solo i sindacati dei metalmeccanici, che oggi scioperano in tutta Italia per il rinnovo del contratto e la salvaguardia dei posti di lavoro, ma anche gli studi di enti del settore. Il legame a doppio filo che ha l’industria dell’auto e quella delle componentistica (compresi quindi pezzi di ricambio, airbag, cinture di sicurezza, pneumatici, freni e componenti elettrici) con le esportazioni negli Stati Uniti rende il comparto altamente vulnerabile ai dazi Usa, in particolare in Italia e Germania. Secondo le stime di Oxford Economics le esportazioni automobilistiche tedesche e italiane potrebbero diminuire rispettivamente del 7,1 e del 6,6 per cento. E i dati forniti da Confindustria, che oggi parla di «dazi che si verificano in un momento infelice», non sono dissimili.

Federcarrozzieri nelle scorse settimane aveva evidenziato l’impatto negativo sia per i consumatori italiani, che potrebbero avere un rincaro dai 1.500 ai 3mila euro in più a modello nei prossimi mesi, che per alcune case automobilistiche: le conseguenze peggiori sarebbero per Stellantis e Volkswagen con miliardi di ricavi a rischio (16 per la prima e 8 per la seconda) con l’introduzione delle tariffe doganali. Va inoltre considerato anche il calo di produzione del resto della filiera. «Gli effetti, certamente negativi, ad ora non sono neanche prevedibili – dice Michele De Palma, segretario nazionale della Fiom Cgil – tutti si stanno concentrando sui dazi al 25% per quanto riguarda Stati Uniti e Unione Europea ma i rischi arrivano anche dai dazi dal Messico, dove passano le nostre esportazioni».

Fiom, Fim e Uilm, dopo le 16 ore di astensione del lavoro già effettuate tra dicembre e febbraio, oggi manifestano in tutte le regioni per riaprire la trattativa interrotta con Federmeccanica e Assistal e per chiedere tutele. «I dazi sono una guerra di carattere economico alla struttura industriale europea e a pagare il prezzo saranno i lavoratori – spiega De Palma -. Non abbiamo bisogno che si facciano la guerra i singoli paesi europei ma di una politica industriale europea che faccia investimenti sull’industria dell’auto per colmare il gap tecnologico con la Cina, che in questo momento è oggettivo, e riaprire la domanda interna, ridando potere d’acquisto perché un’industria basata sull’export oggi non regge allo scontro che c’è in corso». E per rilanciare il potere d’acquisto, dicono i sindacati, «è necessario rinnovare il contratto nazionale: lo sciopero di oggi non è una battaglia solo per difendere i nostri salari ma per far ripartire il paese».

La convinzione di Meloni di poter trovare una via di fuga in solitaria per il suo rapporto con il presidente Usa lascia scettici tutti gli attori del settore. Anche perché sul tavolo del ministro delle Imprese, Adolfo Urso, i dossier sono fermi e nell’impasse il Mimit ha consigliato alle industrie automobilistiche di riconvertire la produzione al settore bellico. Strategia bocciata anche dal presidente di Stellantis, John Elkann, che anche ieri ha ribadito: «Exor non ha alcuna intenzione di investire nel settore della difesa» aggiungendo di non credere «che ci siano affinità tra l’industria automobilistica e quella della difesa». Per quanto riguarda i dazi, Elkann ha rilanciato la dichiarazione dell’Aapc (l’American Automotive Policy Council), di cui fanno parte Stellantis, Gm e Ford, «sul dialogo in corso con l’amministrazione Trump e sull’importanza della competitività del settore automobilistico» che esprime «preoccupazione per l’accessibilità dei nostri prodotti made in America e sulle ripercussioni che questa incertezza avrà sulla domanda negli Stati Uniti».

Le Borse europee intanto proseguono in calo, dopo l’annuncio di Trump: i principali listini sono appesantiti dal comparto dell’automotive (meno 1,9%), dove Stellantis e Mercedes cedono oltre il 3%.

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