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Inseguito da un mandato di cattura della Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità commessi a Gaza, Netanyahu è atteso domani a Budapest. Il diritto è carta straccia per Orbán ma non solo: anche per Roma, Parigi e Berlino, Bibi può stare tranquillo

Israele/Europa Il premier ungherese ignora il mandato d’arresto spiccato dalla Corte penale. I media filo-governo occultano la notizia, i paesi europei non parlano. Il leader di Fidesz sfida il diritto internazionale in nome di una radicata alleanza e dei suoi interessi

Il premier ungherese Orbán e l’israeliano Netanyahu a Gerusalemme nel 2019 foto Ap/Ariel Schalit Il premier ungherese Orbán e l’israeliano Netanyahu a Gerusalemme nel 2019 – Ap/Ariel Schalit

Benjamin Netanyahu sarà a Budapest dal 2 al 6 aprile, ospite di Viktor Orbán. La presenza del primo ministro israeliano in Ungheria a partire dalla serata di domani, mercoledì 2 aprile, è stata confermata da fonti interne di Tel Aviv domenica sera. Non sarà una semplice visita di cortesia, ma un gesto di sfida congiunto del governo ungherese e di quello israeliano al diritto internazionale e alle istituzioni europee.

SU NETANYAHU pende infatti un mandato di cattura. Lo ha emesso il 21 novembre scorso la Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja, confermando le accuse di crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza «dall’8 ottobre 2023 fino ad almeno il 20 maggio 2024» rivolte al premier israeliano. Tale pronunciamento rende Netanyahu latitante punibile con l’arresto nei 123 Stati che aderiscono allo Statuto di Roma.

Fra questi non ci sono Israele, Russia e Stati uniti, ma è presente l’Ungheria, che ratificò lo Statuto nel 2001, durante il primo mandato di Orbán al governo, e quindi dovrebbe attenervisi. Come assicurato a novembre dall’Alto rappresentante europeo per gli Affari esteri, Josep Borrell, il parere della Cpi «è vincolante per tutti gli Stati che fanno parte della Corte, che comprende tutti i membri dell’Ue, vincolati ad attuarla».

Parole a cui ha fatto eco ieri un portavoce della Cpi: «La corte si affida ai singoli Stati per fare rispettare le proprie decisioni. Non è soltanto un obbligo legale nei confronti della Corte stessa, come stipulato dallo Statuto di Roma, ma anche una

responsabilità verso gli altri Stati che la riconoscono».

RACCOMANDAZIONI ignorate dal premier ungherese, che aveva subito definito la sentenza dell’Aja «sbagliata», spalleggiato dal proprio ministro degli esteri Péter Szijjártó secondo cui il pronunciamento della Corte era «Inaccettabile». Per ribadire il concetto e lanciare un nuovo guanto di sfida a Bruxelles e alle istituzioni internazionali, già il giorno dopo la sentenza Orbán aveva invitato il premier israeliano in Ungheria, garantendogli che non avrebbe fatto applicare il mandato d’arresto. Un invito raccolto ora da Netanyahu, proprio in giorni in cui le azioni militari a Gaza sono riprese in modo massiccio, con centinaia di vittime civili.

I rapporti fra Orbán e Netanyahu sono cordiali da tempo e il mandato di arresto li ha rafforzati. All’immediata condanna orbaniana della sentenza, il suo omologo israeliano aveva risposto ringraziandolo per la sua «chiarezza morale». I due si sentono entrambi al di sopra della giustizia internazionale e sanno di poter contare sull’appoggio di Donald Trump che a febbraio ha fatto per primo gli onori di casa a Netanyahu, a Washington. La liaison fra Budapest e Tel Aviv ha radici profonde.

Da quando Orbán è al potere, l’Ungheria vota sistematicamente “no” alle risoluzioni dell’Ue che condannano le violazioni di Israele dei diritti umani dei palestinesi. Senza dimenticare il caso dello spyware israeliano Pegasus, acquistato dal governo di Budapest nel 2018 con il beneplacito di Netanyahu, o il fatto che nel marzo 2023 l’Ungheria era pronta a spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Due anni dopo i legami restano solidi e dal 7 febbraio il Likud di Netanyahu è partito osservatore delle attività del gruppo Patrioti per l’Europa a Bruxelles, quello sovranista di cui fa parte Fidesz, il partito di Orbán, insieme a Vox, Rn e la Lega.

QUESTO CASO aggiunge un nuovo capitolo alle battaglie del premier ungherese contro Bruxelles, le istituzioni internazionali, le ong straniere e la presunta lobby Lgbtq+. Battaglie portate avanti a colpi di settimanali messaggi radiofonici alla nazione, di quesiti referendari a risposta obbligata, e di emendamenti alla Legge fondamentale, la nuova Costituzione da lui voluta nel 2012.

In questo scenario, Orbán pare voler normalizzare la visita del premier israeliano, tacendo degli obblighi che comporterebbe all’Ungheria. Di fatto nel tardo pomeriggio di ieri la notizia dell’imminente arrivo di Netanyahu era assente o relegata a un trafiletto nei principali media filogovernativi ungheresi, come il quotidiano Magyar Nemzet e il portale Origo. Quanto alla società civile e ai pochi organi d’informazione indipendenti, come il sito Telex, ancora non si preannunciano manifestazioni di protesta. Potrebbe essere la quiete prima della tempesta oppure un segnale di momentanea stanchezza, in un’Ungheria nella quale scendere in piazza è divenuta una forma di resistenza quotidiana.