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Due esperienze nel Lazio, organizzate da giovani e anziani, con il sindacato e le università, su progetti con al centro la vita nelle periferie, per ripensarle con un lavoro collettivo
Ri-generazioni di una sinistra che lavora sul territorio Un murales a Corviale, Roma - Ansa

I Due eventi positivi perché progettuali che ho pensato sarebbe stato utile condividere e così sono qui a raccontarveli. Il primo, promosso dalla nuova associazione Nuove Ri-generazioni, inventata dallo Spi (Cgil-pensionati) e dalla Fillea (Cgil edili), disegnata da Gaetano Sateriale, ex sindacalista ma anche ex sindaco di Ferrara. Il nome dice tutto: bisogna riparare e reinventare il nostro modo di abitare e di lavorare, e per farlo occorre ripartire dal territorio sul quale i suoi abitanti devono assumere un ruolo determinante.

Un compito da affidare in primo luogo alla nuova “generazione”, ma anche ai vecchi – i pensionati, appunto – ancora disposti a fare la propria parte insieme a loro per ringiovanire anche il nostro modo di fare politica, per ripensarsi come sinistra, ciascuno nel proprio campo ma insieme.

Riscoprire il valore dell’agire collettivo sta infatti al primo posto del nostro «che fare», per bloccare il dominio del principio cardine dei Trattati dell’Unione europea e dei valori “occidentali”: la competitività anziché la collaborazione (“Io da solo forse ce la faccio”).
All’odg della assemblea, il battesimo della associazione Nuove Ri-generazioni del Lazio, di cui è stata eletta presidente una giovane architetta pensionata, Linda Mosconi, e poi due tavole rotonde: una sul punto cui si è arrivati nella realizzazione di comunità energetiche; la seconda sul valore politico della costruzione di nuove forme di democrazia organizzata.

Protagonisti i rappresentanti di neo associazioni collegate (e anche non ) con i municipi capitolini, molti animatori di gruppi informali giovanili che in modo crescente occupano la scena metropolitana. (Fra questi anche i compagni del Quarticciolo con cui ormai da tempo lavora anche la nostra taskforce Natura e Lavoro). Così come, ovviamente, i militanti sindacali, che dovranno, anche loro, convertire i mestieri destinati a costruire nuovi giganteschi complessi edilizi (la cementificazione del suolo è arrivata in Italia a 64 ettari al giorno), in quelli adatti a riadattare le costruzioni esistenti che vanno non solo riparate, ma di cui occorre reinventarsi le funzioni per rispondere ai tanti nuovi bisogni del vivere.

Il territorio cui si sono riferiti nel dibattito è la grande cerchia della periferia di Roma, la zona più politicizzata della capitale. Ed è stato assai interessante che nelle loro conclusioni Ivan Pedretti, segretario dello Spi, Alessandro Genovesi, segretario della Fillea, e Michele Azzolla, segretario Cgil del Lazio, abbiano sottolineato proprio l’importanza di questo impegno per ridar sangue alla nostra democrazia. (Sono contenta che Pedretti abbia persino ripreso il mio accenno ad una innovativa esperienza sindacale dei primi rossi anni ’70 : i Consigli di Zona, figli di quelli di Fabbrica, una indicazione oggi rilanciata da Landini con il nome “sindacato di strada”. )
Tutt’altro scenario, ma stessa tematica, nel convegno, qualche giorno dopo, promosso da due docenti di urbanistica della Sapienza di Roma e membri della nostra taskforce, Eliana Cangelli e Carlo Cellamare ( non a caso soprannominato “urbanista di strada” ).

Analoga grande partecipazione che ha riempito l’Aula Magna del Rettorato, titolo dell’incontro “La periferia e/è Roma”. Le due “e” a sottolineare lo stato delle cose presenti – due mondi separati – e come dovrebbe esser invece percepito quanto c’è dentro l’area contenuta dal Gra, e quanto sta fuori, dove vivono 800.000 persone, che in comune hanno il non aver quasi niente.

Nel dibattito alla Sapienza ricorrono gli stessi nomi dell’incontro di Ri-generazione – Corviale, Tor Bellamonica, Malagrotta,i più antichi San Basilio o Quarticciolo – ma anche quelli delle periferie di Napoli, di Bari, di Milano eccetera perché a partecipare all’incontro e a illustrare i loro progetti sono venuti anche dalle altre università italiane. Che si sono assunte l’impegno di lavorare nelle rispettive aree geografiche per raccogliere, e sostenere, tutti coloro, giovani soprattutto, che in questa concreta attività collettiva ritrovano l’interesse e il gusto della politica. Che ha già dato vita a non poche mobilitazioni, anche se raramente queste vengono riconosciute come politica.

Non poche delle persone impegnate non vanno a votare, ma non perché sono spoliticizzate, al contrario, perché molta della politica istituzionale non le rappresenta.
Questo intreccio fra soggetti diversi che hanno però in comune la coscienza che la partecipazione si produce quando ai cittadini viene dato protagonismo, è, credo, il punto da cui ripartire. Mi riconduce all’esperienza preziosa vissuta nel Pci romano degli anni ’40/50, quando andavamo nelle borgate per aiutare, e imparare, come i sudditi possano trasformarsi in soggetti, premessa dell’impegno politico.

Non scrivo queste cose per nostalgia del passato. Le ricordo perché credo che animare protesta sia essenziale ma non basti a riempire il vuoto che separa sempre più la società dalle istituzioni se non si consolidano nuove forme di democrazia diretta.
Lo so che ci vuole un partito, e cioè un progetto strategico che indichi dove si deve e si può arrivare. Lo so, ma quello che voglio dire è che non è rimettendo insieme pezzetti di sinistra provati da molte sconfitte che costruiremo il partito necessario. Non è, per carità, un invito a disertare le urne. Ho fatto con impegno la campagna elettorale e sono contenta che nel pessimo quadro che ne è emerso il mio partito, Sinistra Italiana, sia ora presente in Parlamento, un sia pur piccolo ma chiaro riferimento per la battaglia che dobbiamo condurre.

Ho solo cercato di spiegare perché non ho voglia di partecipare al presente dibattito post elettorale sui destini della sinistra: per farne una che serva il processo sarà lungo, e il primo passo è prendere atto che non siamo in un tempo qualunque, ma a un passaggio d’epoca – la crisi del capitalismo – che può portarci alle barbarie sociali ma anche a al mondo liberato per il quale Carlo Marx ci ha insegnato a lottare.

 
 
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Per il primo ricercatore presso il Cnr, "chi ha guadagnato dall'inquinamento deve impegnarsi per limitare i danni sociali della transizione energetica"

Mario Tozzi, biografia

"Se la transizione energetica ricadesse sulle spalle dei lavoratori, sarebbe una tragedia sociale". Il geologo e divulgatore sociale, Mario Tozzi, non ha dubbi sulle misure da adottare per un passaggio più giusto e democratico a un modello economico che limiti il surriscaldamento del pianeta: "Le società petrocarbonifere devono investire parte dei propri profitti per raggiungere questo obiettivo".

Secondo il professore, tornato da ieri in onda su Raitre con la prima di sei nuove puntate di "Sapiens, un solo pianeta", il programma che pone domande sulla natura, sullo spazio, sulla Terra e sul futuro dell'uomo, l'obiettivo delle compagnie petrolifere è di addossare alla collettività il prezzo del loro sviluppo: "Proprio per questo – ha spiegato a margine di un incontro sulla transizione energetica organizzato a Ravenna dalla Filctem Cgil – non dovrebbero più ricevere nemmeno un euro di finanziamenti pubblici".

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"Oltre a impegnarsi a investire sulle rinnovabili per far diminuire le bollette – ha sottolineato Tozzi – il nuovo governo dovrebbe ripristinare il ministero dell’Ambiente". Secondo lo scienziato, ora che tutta l'attenzione è spostata sulla transizione ecologica è necessario tornare a occuparsi delle questioni ambientali e naturalistiche, oltre all'impegno supremo per abbandonare definitivamente i combustibili fossili. "Ma se il ministero della Transizione ecologica venisse affidato a qualcuno che viene proprio dal mondo delle compagnie petrocarboniere – ha chiosato – allora non ci saremmo proprio".

 

 

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Il direttore di Limes Lucio Caracciolo riflette sui possibili scenari legati alla guerra in Ucraina: tra la minaccia atomica che potrebbe essere utilizzata da Putin come risorsa di ultima istanza e complessi rapporti tra potenze

In conferenza stampa ad Astana, in Kazakistan, dove ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, Vladimir Putin ha dichiarato che non vede necessità di colloqui con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Indonesia, a margine del prossimo G20. "Non è il momento di parlare di negoziati diretti con lui - ha chiarito -, dobbiamo ancora vedere come la Russia parteciperà al vertice di Bali", ma ha anche ribadito che uno scontro diretto tra la Russia e la Nato comporterebbe "una catastrofe globale". La conferenza asiatica Cica si era aperta all'indomani della risoluzione Onu che ha bocciato l'annessione russa dei territori ucraini. In molti in Europa si aspettavano un segnale dall'incontro tra il capo del Cremlino e Erdoğan, magari nella direzione di un cessate il fuoco. Così non è stato. In questa intervista a Lucio Caracciolo, il direttore di Limes - che da oggi, 15 ottobre, è in edicola e in libreria con il nuovo numero - alcune riflessioni sui possibili scenari che ci troviamo davanti a partire dal temuto rischio nucleare.

Quanto è realisticamente elevato questo pericolo? 

Nella questione della bomba atomica c’è una forte componente

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CONFLITTO. Appello al governo di 45 ex diplomatici perché si faccia promotore in Europa di una forte iniziativa diplomatica per l’immediato cessate il fuoco e l’avvio di negoziati.

Guerra e rischio calcolato dell’«inverno nucleare» Il poster "This is the Enemy" foto Wikimedia Commons

Quante sono state in un decennio le occasioni perdute dalla diplomazia internazionale per evitare il fratricidio tra russi e ucraini? Tante. Con qualche sofferto compromesso la soluzione era a portata di mano. 1° neutralità protetta dell’Ucraina; 2° referendum nel Donbass sotto l’egida Oscee; 3° rinuncia alla Crimea (da Krusciov ceduta a Kiev senza ragione).

AL CONTRARIO si è preferita l’autodistruttiva pulsione a guerreggiare in un fratricidio – prima con la guerra civile tra Kiev e il Donbass, poi con la scellerata aggressione di Putin -, e ora le truppe sono impantanate in scontri d’usura, imboscate, cadaveri in putrefazione fra le rovine di città in rovina. Questa guerra d’attrito ha un sapore ottocentesco, sa di fango e sangue. Ma ora sta emergendo qualcosa che ci riporta al Medioevo.

Nel 1145 Bernardo di Chiaravalle predicò

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ELEZIONI. Le parole di La Russa e Fontana confermano che la Costituzione è gravemente a rischio. Magari anche con il concorso di quei 17 voti già andati in aiuto a La Russa.

I due presidenti neoeletti mettono le mani sulla Costituzione 

Per essere una prima assoluta nella storia della Repubblica, la destra di governo parte secondo il costume antico, colluttando sulle poltrone. Dal totopresidenti sono usciti La Russa (FdI) e Fontana (Lega), eletti con 116 e 222 voti.

Persino a destra si poteva trovare di meglio. In specie, spetterà a La Russa sostituire il Presidente della Repubblica in caso di assenza o impedimento. Auguriamo all’occupante del Quirinale di godere ottima salute, e gli chiediamo di viaggiare il meno possibile, magari curando di esercitare le funzioni in remoto.
Il momento più alto di questo avvio di legislatura è stato il discorso di Liliana Segre. Le sue parole ci hanno fatto intravedere l’Italia che avremmo voluto. I nomi dei neo-eletti ci danno la misura di quanto ne siamo oggi lontani, e di quanto può essere difficile ritrovarla. Un obiettivo affidato alle opposizioni, che fin qui non hanno dato prova di esserne all’altezza. I discorsi di investitura dei presidenti sono stati in ampia parte, e fisiologicamente, scontati: centralità del parlamento, rapporto maggioranza-opposizioni, ruolo di chi presiede l’assemblea, emergenze da affrontare. Ma qualche punto va sottolineato.

Fontana ha parlato in pieno stile leghista, per di più in salsa veneta. Parte con un “ringraziamento personale” a Bossi, che già può considerarsi inappropriato per un presidente di assemblea, ed è particolarmente significativo venendo a valle del “comitato del Nord”. Ha poi insistito fortemente sulle autonomie, ricchezza dell’Italia “da valorizzare nelle modalità previste e auspicate dalla Costituzione”. Il riferimento all’art. 116.3 e all’autonomia differenziata è trasparente. L’omologazione – leggi il potere nazionale che limita l’autonomia – è espressione di totalitarismo. L’Italia non deve omologarsi a realtà estere più monolitiche e a culture che non diversificano.

Tanto valeva far parlare Zaia. Il discorso di Fontana è palesemente squilibrato e di parte. Colpisce poi che la sola diversità che riconosce ed esalta è quella territoriale. Altre diversità, non meno importanti e costituzionalmente protette, non contano. Il cattivo giorno si vede dal mattino. E trova almeno in parte conferma nel discorso di La Russa. Per un verso scontato, come quello di Fontana, e invece significativo sulle riforme: modificare la Costituzione nella seconda parte, mentre la prima viene definita intangibile (tesi che i legami tra le due parti dimostrano infondata); assemblea costituente o commissione bicamerale; volontà politica di riformare.

Anche La Russa meglio avrebbe fatto a tacere. Probabilmente pensa al presidenzialismo, ma non nega l’autonomia differenziata. E qui gioca anche il modo in cui è stato eletto. La non partecipazione dei forzisti al voto in Senato per l’errore di Berlusconi, sconfitto e colto nel vaffa, può solo indebolire la capacità contrattuale di Forza Italia nella rissa sui ministeri che ora è in agenda, consolidando la posizione della Lega. Poi, contano i nomi. Se ne parla molto con riferimento ai ministeri economici, cui guardano l’Europa e i mercati. Ma ci sono anche altri fronti.

Tra questi, si fa il nome della Stefani – leghista – per il ministero delle autonomie, che poco servirebbe pudicamente ribattezzare come ministero per gli affari regionali. Sarebbe grave se il ministro venisse da un partito che esplicitamente riprende come priorità la tutela degli interessi del Nord e la questione settentrionale. Preoccupazione accresciuta, nella specie, perché proprio la Stefani ha espresso la stagione peggiore dell’autonomia differenziata, ponendosi dichiaratamente al servizio delle pulsioni separatiste di Zaia & Co.

Le parole di La Russa e Fontana confermano che la Costituzione è gravemente a rischio. Magari anche con il concorso di quei 17 voti già andati in aiuto a La Russa. Renzi nega che ci siano anche i suoi, ma nessuno gli crede, anche per qualche segnale già dato alla destra. Sbaglia Cassese quando afferma che sono sufficienti gli argini posti alla revisione. E vorremmo poter essere d’accordo con Segre quando afferma che “Il popolo italiano ha sempre dimostrato grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre sentita amica”.

Purtroppo, non è così. È almeno dal 1994 e dal I governo Berlusconi che una parte significativa del paese poco si riconosce nella Costituzione, cui paga un omaggio puramente verbale. Il voto del 25 settembre ne dà conferma. La Costituzione è oggi vicina più che mai ad essere stravolta.

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UCRAINA. Il conflitto tra nazionalismo grande-russo e nazionalismo ucraino ha origini e svolgimenti di crescente auto-alimentazione con carattere speculare. Sono ambedue il frutto della necessità delle oligarchie dominanti nella Federazione Russa ed in Ucraina di trovare una legittimazione forte su un terreno che esclude riflessione e lotta sulla questione sociale, sulla democrazia sociale.

Contro, contro e ancora contro 

Dal punto di vista dei conflitti che attraversano ogni paese, non ci sono differenze tra miserevoli micro-nazionalismi, grandi nazionalismi con vocazione di imperialismo territoriale, grandi nazionalismi, più «moderni», con vocazione di imperialismo globale.

Come ha ben rimarcato il 7 ottobre Marco Bascetta «il «nazionalismo significa, quasi esclusivamente (e classicamente), la cancellazione delle fratture e delle linee di conflitto che attraversano, in ogni paese, la società e i suoi immensi squilibri».

In tale contesto la conoscenza/comprensione del momento attuale è impossibile senza l’analisi delle nuove forme imperialismo e del loro svolgimento nel sistema postsovietico delle relazioni internazionali. In tale contesto valgono ancora di più le ragioni di quel «contro», «contro», evocato da Tommaso Di Francesco, sempre su il manifesto, agli inizi dell’«operazione militare speciale». La guerra in Ucraina, infatti, si manifesta come il luogo-rivelazione di un insieme causale e di un orizzonte prospettico misurabili su tempi e spazi assai diversi da quelli della contingenza. Papa Francesco ha detto che «è un errore (…) pensare che questa è una guerra tra Russia e Ucraina e basta. No: questa è una guerra mondiale». Qualsiasi seria analisi porta a queste conclusioni: siamo di fronte ad una guerra mondiale che (per ora) si combatte su terreno ucraino.

Una guerra mondiale con due protagonisti: la Russia di Putin e gli Usa con la loro dépendance Nato-Ue. Poi all’interno di questa cornice si combattono altre guerre. Insomma un terreno fecondo per il moltiplicarsi dei Gavrilo Princip.

Il conflitto tra nazionalismo grande-russo e nazionalismo ucraino ha origini e svolgimenti di crescente auto-alimentazione con carattere speculare. Sono ambedue il frutto della necessità delle oligarchie dominanti nella Federazione Russa ed in Ucraina di trovare una legittimazione forte su un terreno che esclude riflessione e lotta sulla questione sociale, sulla democrazia sociale.

Un terreno dove il russo, l’ucraino poveri, possano sentirsi uguali ai loro oligarchi. Questo è l’unico progetto di uguaglianza che quelle oligarchie possono proporre ai popoli di cui sono dominanti più che governanti. Il Gavrilo Princip che, con l’invasione, ha trasformato un conflitto a bassa intensità nell’orrenda carneficina che si svolge sotto i nostri occhi, non è portatore di nessun messaggio di giustizia, tantomeno di giustizia sociale. Putin è il rapprentante di oligarchie che, sulla base di rapporti capitalistici del tutto senza regole, accentrano profitti altissimi di contro all’area di povertà assai estesa esistente nella Federazione russa.

I contendenti di questa guerra non sono gli alfieri di modelli ecomico-sociali alternativi. Nello scontro tra l’idea di un mondo regolato tra imperialismi molteplici sostenuta da Putin ed il mono-imperialismo accanitamente difeso da Stati Uniti e assimilati, coloro che di sicuro usciranno sconfitti li troveremo in tutti i gradi della condizione subalterna. Anche i più accesi nazionalisti non ne sfuggiranno.

Nella Ue, prontamente allineatasi a Stati Uniti-Nato tanto da risultarne indistinguibile, questi effetti saranno, lo sono già, particolarmente sensibili. Nella Ue infatti, nonostante il forte ridimensionamento nel «trentennio inglorioso», la presenza dello Stato sociale non è stata ancora eliminata. La perdita di quel poco di autonomia politica che da alcune parti si era cercato di costruire, la connessa subordinazione economica agli interessi del Grande alleato, ci portano a passi veloci all’uniformità con il modello sociale statunitense.

La nostra parte, debolissima, che pure deve trovare gli strumenti adatti «contro» l’imperialismo dalle forme arcaiche di Putin, «contro» il monoimperialismo moderno ed insieme tradizionale degli Stati Uniti, può esercitare una qualche funzione soprattutto battendosi «contro» le nostre oligarchie.

La guerra in corso è la questione più importante dell’attuale agenda politica. Altro che agenda Draghi. Possiamo affrontare il problema solamente dando corpo «all’unico spettro che ancora si aggira, molto timidamente, per l’Europa», cioè la lotta di classe. Questo deve diventare il nocciolo duro di tutti i progetti di rinascita della sinistra. All’orizzonte però prevalgono ancora le chiacchiere vuote intorno al riposizionamento di coloro che tale nocciolo hanno cancellato dal loro orizzonte analitico e politico.

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