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LA VERTIGINE. Un drammatico primato di cui le sinistre divise e il Pd portano tutta intera la responsabilità

Senato, da Liliana Segre a Ignazio Benito La Russa in pochi minuti:  l'autobiografia della nazione

La vertigine confessata dalla senatrice Liliana Segre, nel pronunciare, dal più alto scranno del senato, il discorso di apertura della XIX legislatura, a cento anni dalla marcia su Roma, è un sentimento che abbiamo condiviso con lei. Insieme a una sensazione di smarrimento nell’assistere al passaggio del testimone tra la sua figura e quella del neopresidente del senato, Ignazio La Russa, geloso custode della memoria fascista.

Con parole semplici, forti, da partigiana, la senatrice Segre ha riassunto il senso profondo delle nostre radici repubblicane, da Calamandrei a Matteotti. Un discorso importante, dal grande valore simbolico (che pubblichiamo integralmente).

Che a rappresentare le istituzioni repubblicane nate dalla Resistenza sia oggi la schiera politica che non ha mai condiviso la celebrazione del 25 Aprile, né quella del Primo Maggio, cardini della nostra Costituzione, antifascista e fondata sul lavoro, è un doloroso bagno di realtà offerto dal

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LA CLASSE OPERAIA TORNA IN PARLAMENTO. Quindici anni di fabbrica, poi tutta la trafila da delegato a segretario nazionale Fiom: non voglio essere un panda, punto a ricostruire un dialogo con la società. La politica li ha lasciati soli: da 30 anni votano a destra. Torniamo internazionalisti perché torni la solidarietà

Tino Magni: «Via il Jobs act e i lavoratori ci riascolteranno»

 

Tino Magni, lei ha fatto quindici anni – veri – di fabbrica: dal 1961 al 1976 in una piccola azienda lecchese. È stato prima delegato di fabbrica, poi ha fatto tutta la trafila sindacale nella Fiom fino a diventare segretario nazionale. E domani entra ufficialmente in senato fra i quattro eletti dalla Alleanza Verdi-Sinistra italiana riportando un operaio in parlamento dopo due legislature: gli ultimi furono Antonio Boccuzzi (Pd) della Thyssen di Torino e Antonio Barozzino (Sel) licenziato (e poi reintegrato) dalla Fiat a Melfi. Un piccolo segnale di riscossa per il mondo del lavoro?

Per me è una cosa insperata. Sono molto contento di come sono stato percepito durante la campagna elettorale e dai compagni del partito. Ma non mi basta: vorrei riuscire a costruire un rapporto con la società. Non mi vorrei occupare solo di fabbriche in crisi, non vorrei essere un panda, ma impegnarmi per riaffermare la cultura del lavoro. Io ho fatto 15 anni di fabbrica e con il mio salario potevo progettare il futuro, oggi con la precarietà dilagante non è più possibile: ne va della dignità stessa delle persone.

Tino Magni, senatore eletto con l’Alleanza Verdi-Sinistra Italiana
Tino Magni, senatore eletto con l’Alleanza Verdi-Sinistra Italiana

L’assenza di operai in parlamento è coincisa con la totale sparizione dei temi del lavoro dall’agenda politica. Un processo molto lungo però: lei vede un punto di svolta in questa regressione?

Penso la cosiddetta “marcia dei 40mila” a Torino. E la conseguente rottura sindacale. Da quel momento il mondo del lavoro è passato sulla difensiva. Io ho vissuto le grandi conquiste degli anni settanta in fabbrica: i Consigli, l’Flm, lo Statuto dei lavoratori. In quegli anni oltre ai diritti aumentarono i salari, ci fu una redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori. Per farla breve: la Costituzione entrò in fabbrica. Dagli anni ottanta in poi invece il lavoro è stato frantumato: noi eravamo tutti assunti con le stesse condizioni e quindi eravamo una controparte unica per il proprietario. Nelle fabbriche di oggi ci sono tanti appalti esterni e lavoratori con condizioni e contratti tutti diversi. Se vogliamo ridare dignità al lavoro la prima cosa da fare è riunificare le condizioni con un solo contratto di lavoro, magari dopo un periodo di prova ma che poi diamo modo ai giovani di avere un contratto a tempo indeterminato per potersi creare un futuro sicuro.

Treu, Sacconi, Fornero e infine il Jobsact di Renzi: le riforme del lavoro approvate dal parlamento quasi senza opposizione hanno progressivamente tolto diritti e futuro ai lavoratori, specie ai giovani.

Il Jobs act è stata veramente la peggiore, una vera frattura anche perché fatta da chi sosteneva di essere di sinistra e invece era neoliberista. Siamo tornati agli anni sessanta quando il padrone poteva licenziarti per un alzata di ciglia. E ha trasformato il lavoro in merce: anche se ha torto, l’imprenditore ti licenzia in cambio di poche mensilità. Tutte queste “riforme” vanno cancellate, come in Spagna.

Da vent’anni si polemizza sugli operai che votano a destra quando il problema è averli lasciati soli. Non pensa che il problema sia nella perdita di coscienza di classe e nell’aver smesso di trasmettere loro il senso di solidarietà?

Quando a Milano divenne sindaco il leghista Formentini nel 1993, come Fiom commissionammo un’indagine a Mannheimer e venne fuori che gli operai votavano già in massa la Lega. Ma lo facevano – anche se è facile dirlo adesso – perché si sentivano sostanzialmente soli: il capitale si era riorganizzato e reso globale, la classe operaia e il sindacato non sono stati ancora in grado di rispondere internazionalizzandosi: ci siamo solo difesi a livello nazionale, un paese contro l’altro. E allora quando hai paura, ascolti uno che ti dice come difenderti, senza accorgerti che stai perdendo i tuoi valori, a partire dalla solidarietà. Ma gli operai non possiamo biasimarli, la colpa è più nostra.

C’è però anche un problema di conoscenza dei problemi: in fatto di pensioni la Quota 41 proposta da Salvini salverà qualche operaio 65enne ma non la stragrande maggioranza che oramai non hanno carriere così lunghe e anni di contributi.

È vero, sulle pensioni presto in molti si accorgeranno che Salvini non li aiuterà: serve una pensione di garanzia e aumentare i coefficienti.

Lei sabato era in piazza con la Cgil: è d’accordo con Landini che si è tenuto lontano dalla campagna elettorale facendo leva sull’autonomia del sindacato dalla politica?

La più grande manifestazione metalmeccanica a cui ho partecipato è del 2 dicembre del 1977 in polemica con il Pci e buona parte della Cgil sulle «convergenze parallele». Io non sono sempre stato d’accordo con Sabattini ma l’autonomia del sindacato dalla politica è giusta. Detto questo, destra e sinistra però non sono la stessa cosa.

La solidarietà fra lavoratori si può ricostruire partendo dalla pace?

Certamente, è una priorità manifestare e costruire la pace. Io sono stato volontario 25 anni nei Balcani e so benissimo che ogni guerra si alimenta con le armi. C’è difficoltà a mettere in campo un movimento ma dobbiamo assolutamente provarci chiedendo a gran voce il disarmo globale.

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REPORT. Al tempo della pandemia le ingiustizie sociali, fiscali e formative crescono soprattutto nei paesi poveri.

Oxfam: «Governo Meloni, l’uguaglianza non è all’ordine del giorno»

 

La lotta alle diseguaglianze non rientra tra le priorità del prossimo governo. Lo rimarca il rapporto di Oxfam e Development Finance International (DFI) che analizza le politiche fiscali, del lavoro e del Welfare (istruzione, sanità e protezione sociale) in 161 paesi durante il primo biennio pandemico.
Se i piani della nuova maggioranza su caro-vita e caro-energia non sono ancora noti, i programmi elettorali su politiche fiscali, del lavoro e della spesa pubblica non lasciano presagire «un potenziamento della portata redistributiva del nostro sistema fiscale, interventi robusti orientati a promuovere minimi salariali adeguati, contrastare la povertà lavorativa, ridisegnare un welfare pubblico universalistico».

Lo ha dichiarato Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia, secondo cui dovrebbe «destare allarme» la sottovalutazione dei divari economici e sociali che lacerano il paese.
Non è un mistero che la fissazione di un minimo salariale non sia mai stata una bandiera della futura premier, che, in una tappa della campagna elettorale a Cosenza, l’aveva definita uno «specchietto per le allodole». Per Meloni la misura sarebbe solo «un’arma di distrazione di massa», dato che gran parte dei lavoratori dipendenti – meno i tre milioni di esclusi – rientrano in categorie coperte dai contratti collettivi nazionali di lavoro.

L’Italia è uno di quei paesi analizzati da Oxfam che non hanno incrementato i salari minimi nel biennio 2020-2021. In questi casi la povertà lavorativa ha raggiunto livelli record, mentre oggi l’impennata dell’inflazione erode il potere d’acquisto dei lavoratori. Per di più nelle economie avanzate come gli Stati Uniti dove esiste, il salario minimo federale è rimasto invariato dal 2009.

Maslennikov si dice «preoccupato» anche delle sorti del reddito di cittadinanza «che invece di essere reso uno strumento di contrasto alla povertà più equo ed efficiente, rischia la cancellazione». In realtà la misura, potrebbe essere neutralizzato. Nei piani di Meloni verrebbe riconosciuta solo agli over 60 privi di reddito, agli invalidi, alle famiglie con minori a carico. La metà degli attuali percettori – chi ha tra i 18 e i 59 anni ed è in grado di lavorare – sarebbe invece tagliata fuori.

Preoccupano le politiche fiscali annunciate dalla prossima maggioranza. Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega avrebbero tre progetti diversi di «Flat Tax» ad esempio. A tale proposito Oxfam chiede invece di cambiare politica e di «tassare i ricchi». Questo non è avvenuto nel corso del biennio pandemico 2020-2021 quando i governi hanno rifiutato di incrementare l’imposizione su redditi o patrimoni più elevati e tassare in maniera straordinaria gli extra-profitti delle multinazionali del settore farmaceutico o del commercio online. Risorse importanti che oggi potrebbero aiutare chi subisce i colpi più duri della crisi.

In Italia gli interventi di «Welfare emergenziale» hanno attenuato temporaneamente l’esplosione delle disuguaglianze, senza però cambiare la situazione. In 77 paesi a basso reddito su 161 analizzati da Oxfam gli interventi si sono rivelati inadeguati. La spesa sanitaria e sociale è stata tagliata in metà dei casi e il 70% dei paesi hanno ridotto quella dell’istruzione. Una decisione presa per non incidere sui debiti pubblici i cui interessi sono difficilmente rimborsabili in momenti di crisi come questi.

«Per ogni dollaro speso per la sanità pubblica i paesi in via di sviluppo spendono quattro dollari per ripagare i propri debiti contratti in prevalenza con ricchi creditori esteri – sostiene Matthew Martin, direttore del DFI – Vanno garantiti un’immediata sospensione del servizio del debito e favoriti accordi equi per una sua ristrutturazione»

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EUROPE FOR PEACE. In risposta a Luigi Manconi

Uniti per la pace aderisce all'appello di "Europe for peace" per

Ringrazio Luigi Manconi che dalle colonne de la Repubblica ha voluto valutare e commentare le posizioni e proposte di Europe For Peace con la consueta attenzione, rispetto e stima nei nostri confronti.

Non a caso per noi sono sempre stati proficui e importanti i confronti con lui, proprio perché provenienti da posizioni non coincidenti ma «in ascolto».
Concordo con Manconi che le manifestazioni abbiano una grande importanza per la loro carica simbolica, ma credo che ancor di più siano rilevanti i contenuti che sostengono e rilanciano. In tal senso lo vorrei rassicurare rispetto ad alcune mancanze che ritiene di aver riscontrato nei nostri recenti documenti. In realtà fin dall’inizio di questa sanguinosa guerra avevamo esplicitato una posizione chiara scrivendo, in un comunicato del 24 febbraio, che «la Rete Italiana Pace e Disarmo» e le sue Organizzazioni condannano in modo fermo l’azione militare iniziata da questa notte in Ucraina da parte della Federazione Russa. Ancora una volta si sceglie la follia della guerra, i cui impatti più devastanti ricadranno sui civili e le popolazioni inermi, per colpa di sete di potere, di rivendicazioni nazionaliste, di interessi particolari soprattutto legati al profitto armato», chiedendo non solo una cessazione immediata degli scontri e la possibilità di protezione per i civili per un intervento umanitario, ma anche «alla Russia il ritiro delle proprie forze militari da tutto il territorio ucraino e la revoca immediata del riconoscimento dell’indipendenza delle Repubbliche del Donbass».

Concetti e parole confermati e richiamati sia nella grande manifestazione nazionale del

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LA CRISI DEI DEM. Il punto non è essere stati troppo a lungo al governo: è essere stati troppo a lungo al governo avendo essenzialmente il fine di rimanere al governo per perpetuare l’esistente
Il Pd e l’alibi delle poltrone Enrico Letta all'ultima direzione del Pd - LaPresse

Quando questo governo cadrà… dovremo chiedere le elezioni anticipate, nessun governo di salute pubblica… Noi oggi cominciamo un percorso congressuale ma questo è intimamente connesso al lavoro di opposizione che da oggi comincia». Così Enrico Letta, nella veste di segretario uscente, alla direzione nazionale del Partito democratico del 6 ottobre scorso. E ancora: «Perché il mandato che ci ha dato il voto è quello di guida dell’opposizione».

Parole salutate con generale favore dai commentatori, come segnale della, tardiva ma necessaria, presa d’atto dell’errore che avrebbe reso invisi i democratici persino a tanti dei loro elettori: l’essersi trasformati nel partito delle poltrone, sempre al governo dal 2011 a oggi, con la breve eccezione del primo esecutivo guidato da Conte.

Sempre al governo, dunque, sebbene sempre sconfitti alle elezioni: a dimostrazione di un’attitudine al gioco di palazzo tanto spregiudicata da essersi, infine, trasformata in una trappola per i suoi stessi fautori.

C’è del condivisibile, in questa lettura, che raramente viene, tuttavia, condotta sino alle sue logiche conseguenze: vale a dire, alla presa d’atto che il vuoto in cui oramai si muovono i partiti politici è così spinto che senza risorse di potere governative (nemmeno più parlamentari: governative) a cui ancorarsi sono ridotti alla condizione di un palloncino che vaga per il cielo in balia dei venti. E, più di tutti, proprio il Partito democratico, nato, per esplicito disegno del suo fondatore, come partito leggero.

Ma c’è anche del discutibile, in questa lettura, che prova, al contempo, troppo e troppo poco.

Prova troppo, perché non è vero che in un sistema parlamentare, com’è il nostro, le elezioni servono a sancire vincitori e vinti. Le elezioni servono a eleggere il parlamento, non il governo, e qualsiasi governo nato nel corso della legislatura è legittimo tanto quanto quello nato subito dopo il voto, alla sola condizione che goda della fiducia del parlamento.

È il modo in cui ordinariamente funzionano i regimi parlamentari. Le elezioni registrano il consenso, crescente o calante rispetto alla volta precedente, di cui godono i partiti politici e, dunque, la consistenza parlamentare con cui potranno dar sostegno alle proprie idee. Dopodiché, si tratta di fare politica: di creare convergenze e alleanze, di sfruttare contraddizioni e debolezze altrui. Certo, una legislazione elettorale compatibile con il quadro costituzionale aiuterebbe, a partire dal riconoscimento che nessuna democrazia garantisce la creazione di una maggioranza assoluta per la durata della legislatura. Nessuna: non la Spagna, non la Germania, non il Regno unito; e nemmeno i sistemi presidenzialisti come la Francia e gli Stati uniti d’America.

La tesi delle poltrone prova, tuttavia, anche troppo poco, perché enfatizzare la vocazione governista del Pd, imputandole la spiegazione dell’insuccesso alle elezioni, è un alibi assai comodo per non dover rispondere delle politiche realizzate, o non realizzate, durante il decennio passato al governo. Se i ministri democratici fossero stati in tutto questo tempo impegnati in una lotta radicale alle diseguaglianze sociali, alla povertà dilagante, al lavoro precario e sottopagato, alla disoccupazione (specie giovanile), al sottofinanziamento dei diritti sociali (la sanità, l’istruzione, la casa, i beni culturali casa), all’evasione fiscale, alla devastazione dell’ambiente e del paesaggio, al cambiamento climatico: siamo sicuri che il risultato elettorale sarebbe stato ugualmente insoddisfacente?

Il punto non è essere stati troppo a lungo al governo: è essere stati troppo a lungo al governo avendo essenzialmente il fine di rimanere al governo per perpetuare l’esistente, senza la minima volontà e capacità di affrontare le emergenze sociali e ambientali che minacciano il nostro futuro e che pure sono ben note, ben studiate e, oramai, anche ben “corredate” di possibili soluzioni. Sarà banale, ma alla fine non è tanto questione di segretari, di nomi, di simboli o di poltrone: è questione di politiche. Riuscirà, finalmente, il Pd a farne il tema centrale del suo prossimo congresso?

 
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SINISTRE. Riscoprire e rilanciare il “bene comune”, dovrebbe diventare il simbolo di una strategia, attenta a non cristallizzarsi sulla lunga opposizione che verrà, ma già in grado di prefigurare un diverso modello sociale alternativo alle destre e a un riformismo di necessità

I destini delle forze di opposizione Un'opera di Renato Mambor

Se qualcuno si aspettava un cambio di marcia del Pd, sarà rimasto deluso dal dibattito della sua direzione. E ancora di più chi ne chiedeva – su giornali, tv e sui social – lo scioglimento come panacea dei suoi mali (d’altra parte il 19 per cento è pur sempre un bottino elettorale).

Ma a Letta e al gruppo dirigente spetta comunque un compito che va oltre le dichiarazioni di intenti ( “faremo una opposizione dura”, “non consociativa”, “saremo intransigenti” ), oltre le pur doverose autocritiche (“siamo apparsi come un partito interessato solo a coloro che ce la fanno” e “abbiamo fallito nella rappresentanza femminile”).

In sostanza un partito borghese e maschilista, non proprio trascurabili dettagli.

Certamente tutto è destinato a poggiare sulla sabbia se non verrà chiarita qual è l’identità di un partito che intende rappresentare una larga, consistente parte del Paese, e, soprattutto di quale parte vuole farsi interprete.

Una questione che peraltro non riguarda soltanto il Pd ma, sui punti dolenti della credibilità e del consenso, tutte le varie forze alla sua sinistra, principalmente gli alleati di Si e Verdi.

C’è in primo luogo una domanda alla quale tutti siamo chiamati a rispondere: perché le forze democratiche, progressiste e di sinistra, che sono maggioranza in Italia, non sono in grado di esprimere questa potenzialità a livello organizzativo-politico?

E qual è l’obiettivo di un area ampia e variegata, che non sia soprattutto – se non unicamente – la conquista di più seggi elettorali?

E soprattutto, visti i cambiamenti strutturali, economico-sociali dell’ultimo ventennio, a quali categorie di cittadini ci si rivolge visto che il vecchio, tradizionale zoccolo duro dei lavoratori, quelli delle fabbriche, dei cantieri, della terra, è profondamente mutato, scomparso nelle forme conosciute, mentre resta tuttora saldo il mondo dei dipendenti pubblici, dei pensionati? Si punta sul sicuro, cioè a rappresentare i cittadini privilegiati, garantiti, emancipati culturalmente?

Oggi la discussione rischia di ruotare solo intorno ai problemi del Pd,  alle sue lotte interne, alle sue contraddittorie autocritiche, alla figura del segretario (o della segretaria) che verrà.

Sicuramente la riflessione interna deve far parte di un confronto pubblico a tutto campo. E’ necessario interrogarsi sulle occasioni mancate, ad esempio sul perché sui diritti civili – ius soli, ddl Zan, eutanasia – il Pd si sia mosso oscillando tra avanzamenti e brusche frenate, retaggio della componente cattolico-clericale.

D’altronde lo stesso marchio d’origine è segnato dall’unione tra ex comunisti ed ex cattolici, che seppure ispirato dalle migliori intenzioni e da un’iniziale spinta propulsiva, poi, strada facendo, ha perso gli aspetti positivi della “unità nella diversità”, riportando a galla le originarie divisioni politico/culturali, degenerate nel peggior correntismo in stile democristiano.

Tuttavia il vero baco politico si chiama “governismo”, come ormai riconoscono in tanti e da vari punti di vista.

Non perché governare sia di per sé un richiamo diabolico (c’è anche chi ritiene che la sinistra dovrebbe collocarsi sempre all’opposizione), ma perché amministrare il bene pubblico – annullando qualsiasi interesse privato, personale e partitico – dovrebbe essere la mission di una risolta cultura di sinistra.

Dopo gli anni Settanta del secolo scorso, segnati dalla conquista delle Regioni e delle città “rosse”, si è fatta strada, lentamente, un’altra visione: dal governo al governismo, con il doppiopetto della spartizione del potere.

Non a caso, a sinistra, in modo distinto e distante dal Partito democratico, ha preso vita e forza, nei tempi più recenti, la ricerca teorica (ispirata da Stefano Rodotà) e politica (praticata dalle lotte dei movimenti), del “bene comune”, una fertile vena purtroppo dimenticata negli ultimi anni.

E’, dovrebbe essere, questo uno degli obiettivi del cambiamento: il rilancio del “bene comune”. Le forze politiche progressiste dovrebbero spingere per un rinnovato impegno su questo fronte, cercando le parole e le forme concrete per inverarlo nelle pratiche politiche.

Di più: riscoprire e rilanciare il “bene comune”, dovrebbe diventare il simbolo di una strategia, attenta a non cristallizzarsi sulla lunga opposizione che verrà, ma già in grado di prefigurare un diverso modello sociale alternativo alle destre e a un riformismo di necessità.

Intendiamoci, “bene comune” non è soltanto la cosa pubblica: è il lavoro, dignitoso, garantito, sicuro e soprattutto equamente pagato (come giustamente rivendicato ieri in piazza anche dalla grande, importante manifestazione della Cgil); è il diritto di scegliere come vivere e come morire senza andare all’estero; è l’ambiente, da difendere e valorizzare in tutti i luoghi e in ogni momento dell’esistenza; è la capacità di convivere tra diversi, accogliendo chi viene nel nostro Paese con la sostanza di un lavoro e di una piena cittadinanza; è il diritto ad una assistenza sanitaria di qualità, efficace, rapida, che non costringa a ricorrere all’intramoenia (la misura più iniqua perché destinata a chi non ha problemi economici, introdotta dalla sinistra); è il diritto di vivere in città e comunità sicure, preoccupandosi dell’emarginazione giovanile che alimenta la paura di cui profittano le destre; è la pace tutta da costruire nello sconvolgimento bellico dei nuovi assetti delle grandi potenze.

Si dice spesso che sono più le cose che uniscono il nostro campo di quel che le divide. Ma allora bisogna chiedersi quali sono le forze politiche in grado di partecipare ad un radicale e profondo progetto di cambiamento che non si fermi alla opposizione intransigente.

In parte sono a sinistra del Pd, il Pd stesso, i radicali. E i 5Stelle sui quali è importante chiarirsi.

Forse è azzeccata la sintesi di Domenico De Masi: il Pd si dice di sinistra senza esserlo, i 5Stelle sono di sinistra senza dirlo. Certo è che dopo il formidabile ridimensionamento elettorale, rispetto al 2018, quel che rimane del M5S, anche per l‘auto narrazione che ne fa il leader Conte, si sta collocando nel mondo della sinistra.

Identità fragile, che non va guardata con il sopracciglio alzato, ma che ha invece bisogno di essere sollecitata, salvaguardata da una deriva verso un peronismo di sinistra. E il modo migliore per farlo è trovare un’alleanza stabile e duratura nelle prossime elezioni locali (rimediando al catastrofico errore che ha regalato l’Italia alla resistibile ascesa della destra).

Naturalmente noi, e parlo del manifesto, non abbiamo una ricetta, una soluzione, un programma. Tanto meno ci interessano le faide interne ai partiti. Abbiamo soprattutto un desiderio, non tanto o non solo per chi ha una certa età, ma per i più giovani: vivere in un Paese meno disuguale, meno retrivo e illiberale di quel che è e sarà con la destra al governo.

La premessa anche solo per provare a realizzarlo, è impegnarsi insieme per un confronto ampio, profondo, senza steccati.

Oltrepassando i confini delle forze politiche, per abbracciare l’incredibile mosaico di associazioni e strutture che coinvolgono migliaia e migliaia di donne, uomini, giovani, anziani, che credono in quello che fanno, contro il rancore e la solitudine.

La loro è la nuova militanza, che non chiede di essere ascoltata, tanto meno paternalisticamente cooptata, ma di essere protagonista del rinnovamento.

 

 

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