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CONGRESSO PD. La/il nuova/o leader avrà di fronte un compito arduo ma ineludibile: inventare nuove procedure di discussione, partecipazione e decisione democratica, che diano al Pd quella che un tempo si chiamava agibilità politica

 Il voto in un gazebo per una tornata di primarie del Pd - foto Ansa

Alla vigilia delle primarie del Pd, è possibile delineare un primo bilancio di quanto accaduto. Un primo elemento di giudizio riguarda il carattere che si voleva dare al percorso congressuale: semplicemente, non c’è stato nulla di propriamente costituente. E ciò è accaduto perché, sin dall’inizio, non si è voluto costruire un processo che non avesse esiti predefiniti.

L’esito (provvisorio) della nota vicenda del nuovo “Manifesto dei valori” (approvato, ma senza che sostituisse il vecchio!) costituisce una rappresentazione plastica dei dilemmi identitari di questo partito.

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Per molte settimane, in assenza di testi su cui si potesse discutere, c’è stato il vuoto: e di fatto, com’era facile prevedere, tutto è precipitato nella competizione tra i candidati, affidata alle interviste. Si è potuto capire meglio il profilo politico delle diverse proposte solo quando sono state presentate infine le mozioni dei candidati, all’inizio di febbraio. Ma anche quando sono emerse nero su bianco, quel che ha caratterizzato gran parte del dibattito è stata una bizzarra incongruenza. I vari candidati (in misura diversa) si sono soprattutto impegnati a presentare proposte di policy, come se si trattasse di illustrare un programma di governo. Ma un congresso dovrebbe prima di tutto servire a definire l’idea di partito, i principi a cui ci si ispira, la cultura politica che fa da cornice ai programmi, il modello di democrazia interna e di partecipazione, la strategia delle alleanze (sì, anche questa: non la si può eludere, rimandandola a chissà quando!).

E’ giusto riconoscere che nelle mozioni e nei discorsi di Cuperlo e Schlein ci sono stati elementi che vanno in questo senso, ma nel complesso non si può non notare questo appiattimento della discussione sul terreno delle “politiche”. La “politica” ha un po’ latitato.

Alla fine, al di là della significativa diversità tra i candidati, emerge un elemento che è un dato di lunga durata, nella vita del Pd: una notevole povertà del livello di elaborazione politica e intellettuale che ha caratterizzato, nel suo complesso, e continua a segnare la cultura politica diffusa, la “cassetta degli attrezzi” concettuali e analitici, con cui dirigenti e militanti riflettono sul loro stesso lavoro politico.

Detto ciò, come leggere il risultato di domenica? Decisivo, anche qui, il livello della partecipazione. Nel 2019, il rapporto tra voti degli iscritti e votanti alle primarie fu di circa 1 a 8,5: si può dunque presumere che, con 150 mila votanti tra gli iscritti, venga toccata la soglia del milione di votanti. Un salto di scala che potrebbe rendere ininfluenti gli scarti percentuali registrati nel primo voto. La grande incognita è questa: chi saranno mai tutti questi elettori? Da chi sarà composto il “corpo sovrano”, mutevole e indistinto, volatile e inafferrabile, chiamato a dare questa investitura plebiscitaria? Che tipo di “circolazione extra-corporea” si attiverà? Si possono formulare alcune ipotesi.

Primo punto: il Pd è stato percepito, in tutti questi anni, come il partito-sistema, che ha gestito molto potere, al centro e in periferia. Senza voler dare alla questione un tono moralistico, è indubbio che un partito siffatto attira molti gruppi di interesse e cordate di potere. Domanda: ma un partito catch-all che sta diventando catch-little, è in grado ancora di attivare queste filiere? Le forze che si sono allontanate da destra sono ancora interessate alla competizione interna al Pd?
Secondo punto: la novità sta nel fatto che una candidatura “anomala” come quella di Elly Schlein sta scommettendo proprio sulla riattivazione di una base elettorale esterna e chiaramente connotata a sinistra che, nel corso degli ultimi dieci anni, si è dispersa e allontanata dal Pd. I segnali che arrivano sembrano indicare un fenomeno di ri-mobilitazione: fino a dove potrà giungere?

Infine, i rapporti di forza che emergeranno dal voto non sono indifferenti rispetto alla successiva tenuta del partito. Oggi i due candidati non possono fare altro che promettersi lealtà reciproca: ma certo non potranno controllare i comportamenti di decine di migliaia di loro elettori. Distacco, delusione, risentimenti, convenienze: potrà accadere di tutto e di più, dopo, chiunque vinca. La/il nuova/o leader avrà di fronte un compito arduo ma ineludibile: inventare nuove procedure di discussione, partecipazione e decisione democratica, che diano al Pd quella che un tempo si chiamava agibilità politica; ovvero, un modello di democrazia interna che permetta il formarsi di distinte, e vere, aree di cultura politica e renda praticabile e produttiva la battaglia politica interna. L’unico modo per provare ancora a tenere insieme questo partito. Perché certo non lo potrà fare di per sé un leader (sulla carta) legittimato dal popolo delle primarie, ma di fatto (come la storia del Pd dimostra) fragile e vulnerabile