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Nessun obiettivo politico giustifica l'omicidio di massa. La violenza, la crudeltà e la conquista di terre straniere non hanno posto nell'Europa del XXI secolo

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Mi chiamo Olena, vengo da Odessa, nel sud dell'Ucraina. E ora la mia terra fiorente è bruciata e calpestata dalla guerra che distrugge le nostre case e toglie la vita alla nostra gente. L'invasione russa crea rischi di catastrofe nucleare e di terza guerra mondiale. Questo non può essere permesso. Dio conceda che questo non accada, che le persone non si uccidano a vicenda e diano valore alla vita, che prevalgano l'amore e il buon senso. Sono una madre, sono una figlia, sono una donna e faccio appello a tutte le persone buone del nostro pianeta affinché liberino l'umanità dalla guerra, chiedano pace e giustizia, si schierino con noi per la nostra indipendenza, per la nostra libertà, per le nostre vite. Per favore, aiutate l'Ucraina! Abbiamo bisogno di pace! C'è un film basato sul famoso libro Niente di nuovo sul fronte occidentale. Mostra come un secolo fa un terribile e insensato massacro sia continuato fino all'abdicazione del Kaiser. Proprio come oggi, negli stessi giorni di novembre del 1918, si concludeva la Prima Guerra Mondiale. Non possiamo aspettare la fine della guerra in Ucraina.

Mi appello al Presidente Putin: fermi immediatamente lo spargimento di sangue e ritiri le sue truppe dall'Ucraina! Sedetevi al tavolo dei negoziati e pentitevi di tutto il dolore che avete portato agli ucraini con la vostra invasione! Se non avete il coraggio di agire in modo responsabile, cedete il potere a persone più oneste e pacifiche! E se il Cremlino non mi ascolta, mi appello ai russi, che Putin sta perseguitando fino alla morte. Nessun obiettivo politico giustifica l'omicidio di massa. La violenza, la crudeltà e la conquista di terre straniere non hanno posto nell'Europa del XXI secolo. Se milioni di persone scendono pacificamente in piazza e protestano contro la guerra, questa finirà molto rapidamente. Avete visto nei telegiornali come gli ucraini si sono riuniti come comunità e, anche senza armi, con la forza dello spirito hanno fermato i carri armati russi. Prendiamo esempio da questo. C'è sempre una speranza di pace, c'è sempre un'opportunità di fare sforzi per evitare spargimenti di sangue. Pensateci. Per concludere, voglio citare una poesia del poeta ucraino Ivan Franko, scritta durante la Prima guerra mondiale: "Il cielo azzurro è più fiero, // Quando la disumana guerra sanguinosa // Si trasforma in pace".

Olena Besedovska è una blogger e volontaria dell'associazione "Proteggi Odessa, proteggi l'umanità"

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5 NOVEMBRE a ROMA. Per una manifestazione che, ci auguriamo, sia piena di giovani, forte, variegata, unitaria contro la guerra. Senza bandiere di partito, sperando che a sinistra i partiti si occupino di pace non strumentalmente.
Basta guerra, un movimento necessario Manifestazione per la pace - Andrea Sabbadini

La guerra d’aggressione di Putin all’Ucraina vive uno stato di pericoloso «stallo», in attesa di nuovo spargimento di sangue, di fronte alla drammatica realtà che mostra l’irresolutezza delle armi, quelle usate per aggredire in modo criminale un paese sovrano e quelle usate per la legittima difesa che ormai sono diventate di offesa – e sono tante, Amnesty International ha denunciato che anche la loro dislocazione improvvida mette a rischio i civili. È proprio in questo momento di vuoto che annuncia tempesta che vuole inserirsi, dal basso, il movimento per la pace che oggi scende in piazza a Roma chiamato ad essere protagonista da “Europe for peace”. Per una manifestazione che, ci auguriamo, sia piena di giovani, forte, variegata, unitaria contro la guerra. Senza bandiere di partito, sperando che a sinistra i partiti si occupino di pace non strumentalmente.

E che sventolerà le bandiere arcobaleno per un «raduno» che è una pratica della democrazia, così fragile in questo momento, rispondendo così all’arroganza di Giorgia Meloni che, dimenticando la stessa parola pace, sfotte arrogante: «Non è sventolando le bandiere arcobaleno che si fa la pace». No, è vero il contrario. Dopo più di nove mesi di guerra, di stragi contro la popolazione ucraina, di repressione delle proteste dei giovani russi, di una escalation che ripropone – addio deterrenza -l’uso dell’arma atomica.

Perché, nel deficit irresponsabile e criminale dell’azione diplomatica, c’è bisogno proprio di un attore nuovo, disperato ma rinvigorito, il pacifismo, capace di produrre immaginario futuro perché ha una storia da non dimenticare, in Italia e nel mondo Un movimento che non è stato a guardare, con proteste nazionali e in ogni città subito dopo il 24 febbraio, carovane umanitarie a Kiev e sostegno a tutti i disertori. Un movimento che dal basso chiede finalmente che l’«inutile strage» finisca, un negoziato e una Conferenza internazionale sul modello di Helsinki .

Coinvolgendo attori internazionali – l’Onu che sembra fuorigioco e cancellato da troppe sconfitte, insieme a Paesi come Francia e Cina che vedono nella continuazione di questo conflitto il disastro della loro stessa strategia politica; e protagonisti sociali – i sindacati e la società civile, tutti consapevoli dei costi spaventosi che l’«economia di guerra» arreca alle classi subalterne.

A chi serve che resti accesa una crisi bellica, un Afghanistan, nel cuore d’Europa? Nessuno vincerà questa guerra, ma tutti la perderanno. A chi serve che non esista l’Unione europea? A troppi: al neo-zar Putin, al pesante latrare della Nato e ai nuovi sovranismi nazionalisti, all’arrembaggio da est e da ovest .

Serve ora un movimento che chieda dunque un cessate il fuoco e un tavolo negoziale. Se lo si è fatto per il grano perché, magari per gradi come accaduto per altre guerre, non è possibile avviare una iniziativa di mediazione per una tregua delle armi e sullo status di Donbass e Crimea? Subito. Perché ora la parola è solo alle armi. E se non c’è diplomazia serviranno altre armi, che occupano lo spazio abbandonato dell’iniziativa di mediazione e di pace.

Sveliamo dunque il mondo in cui viviamo. Che crede di essere in pace mentre, al contrario vive «di» e «sulla» guerra, mentre nuovi e vecchi imperialismi e i mercanti di armi la fanno sempre da padrone, non solo in Ucraina ma in tutto il mondo, la cui condizione non è di vivere i conflitti armati quotidiani e permanenti.

Non c’è infatti una guerra degli ultimi trenta anni che non abbia lasciato sul campo milioni di vittime civili – con crimini di guerra rimasti impuniti – e che non sia rimasta con la sua scia di sangue e odio a determinare il presente, fatto di una geopolitica che dispiega bandierine, ma resta incapace di capire e fermare la deriva di morte tornata in piena Europa dopo la crisi jugoslava.

A proposito di guerre d’aggressione, vale per l’Iraq, per la Libia, per la Siria, per il Libano, per la Palestina, per il Kosovo, per l’Africa, per la tragedia dei migranti in fuga da nuova miseria e nuovi conflitti armati da noi alimentati. Per questo il manifesto oggi è in piazza e partecipa di questo movimento che ha nel suo Dna. Il manifesto, quotidiano comunista, che ha iniziato i suoi primi passi più di cinquanta anni fa protestando contro l’aggressione sovietica a Praga e contro quella americana al Vietnam, contro ogni imperialismo.

 
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ASSALTO ALLA CGIL. Nelle scorse settimane sono state pubblicate le motivazioni della sentenza in merito al processo di alcuni responsabili – coloro che hanno accettato il rito abbreviato – dell’assalto alla sede nazionale […]

Una sentenza  particolare: «Sono fascisti. Anzi no»

Nelle scorse settimane sono state pubblicate le motivazioni della sentenza in merito al processo di alcuni responsabili – coloro che hanno accettato il rito abbreviato – dell’assalto alla sede nazionale della Cgil avvenuta nell’ottobre dello scorso anno. La sentenza ha avuto scarsissima eco sulla stampa, ma merita una riflessione attenta per alcuni aspetti paradossali.

Essa si riferisce esclusivamente ai reati di danneggiamento e devastazione. Viene rigettata la costituzione dell’Anpi come parte civile perché, fra l’altro, non «risultano elementi che possano connotare la protesta come di matrice fascista».
Eppure nella stessa sentenza si legge che nella manifestazione «si sono insinuati militanti di estrema destra, alcuni ben noti agli operanti, al solo scopo di istigare i manifestanti alla violenza». Si sottolinea il ruolo di direzione nell’avvio del corteo diretto alla sede Cgil avuto da «Castellino Giuliano, noto leader del movimento politico di estrema destra Forza Nuova», che «si muove con il sostegno e l’attiva collaborazione di Fiore Roberto e Aronica Luigi, riconosciuti dalle forze dell’ordine perché già noti appartenenti a movimenti politici di estrema destra, il Fiore quale fondatore del movimento Forza Nuova e Aronica Luigi, già membro dei Nar». E si aggiunge che «i tre si pongono alla testa del corteo e manifestano in modo molto animato (…) l’intenzione di recarsi, appunto, presso la sede della Cgil, dicendo: «Portateci Landini o lo andiamo a prendere noi».

Si descrive il comportamento criminale di membri o simpatizzanti di organizzazioni di tipo neofascista o delle aree affini, come per esempio l’imputato Roberto Borra, «militante dei sodalizi di estrema destra Forza Nuova e Avanguardia nazionale e degli Ultras dell’Inter», o Fabio Corradetti, noto «per alcuni precedenti penali di natura violenta, tifoso romanista colpito da Daspo e militante del movimento di estrema destra Forza Nuova».

L’intero quadro rappresentato dalla sentenza disegna un’azione pianificata e portata a termine in piena coerenza con le imprese squadristiche tipiche degli anni Venti. Tale quadro viene ulteriormente e clamorosamente confermato nella sentenza, ove si traccia il profilo politico (e penale) di ciascun aggressore.
Non «risultano elementi che possano connotare la protesta come di matrice fascista». Ma come è possibile se proprio dalla lettura della sentenza emerge in modo dirompente che l’assalto alla sede Cgil è stato promosso, organizzato ed effettuato con metodo squadristico da una serie di militanti di organizzazioni neofasciste o comunque ruotanti attorno ad esse?

Da tempo assistiamo a sentenze obiettivamente contraddittorie rispetto alla stessa tipologia di comportamenti, come per esempio il saluto romano, ove in alcuni casi si condanna l’azione ed in altri analoghi casi si afferma che il fatto non costituisce reato. Prendiamo atto che la discordanza fra sentenze attinenti comportamenti simili crea un vulnus alla certezza del diritto.
Da anni sono clamorosamente disattese le leggi Scelba e Mancino, in assenza peraltro di un’iniziativa del governo in merito allo scioglimento delle organizzazioni neofasciste.

Perché la Procura della Repubblica all’atto della stesura dei capi d’imputazione, non si è riferita anche alla legge Scelba? Essa infatti prevede che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione (…)». Non c’è stata forse l’esaltazione, la minaccia e l’uso della violenza quale metodo di lotta politica? Non sono forse state attaccate e vilipese con la violenza le libertà garantite dalla Costituzione? Eppure proprio la sentenza ce lo conferma: «L’obiettivo prescelto per l’azione, la sede nazionale del sindacato (…) rivela un’aggressione ad un organo costituzionalmente riconosciuto».

Nel pieno rispetto dell’autonomia della magistratura, c’è da auspicare una riflessione ed un approfondimento su di un tema che è oggi di particolare drammaticità, data la crescita di movimenti neonazisti, neofascisti, razzisti su scala continentale, e la crescente impunità di comportamenti che rientrano palesemente nella fattispecie della ricostituzione del partito fascista. Vedi Predappio.

* Presidente nazionale ANPI

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Sono contento che ti metti in marcia per la pace. Qualunque sia la tua età e condizione, permettimi di darti del “tu”. Le guerre iniziano sempre perché non si riesce più a parlarsi in modo amichevole

Liberi insieme dalla guerra

Cara amica e caro amico,
sono contento che ti metti in marcia per la pace. Qualunque sia la tua età e condizione, permettimi di darti del “tu”. Le guerre iniziano sempre perché non si riesce più a parlarsi in modo amichevole tra le persone, come accadde ai fratelli di Giuseppe che provavano invidia verso uno di loro, Giuseppe, invece di gustare la gioia di averlo come fratello. Così Caino vide nel fratello Abele solo un nemico.

Ti do del “tu” perché da fratelli siamo spaventati da un mondo sempre più violento e guerriero. Per questo non possiamo rimanere fermi. Alcuni diranno che manifestare è inutile, che ci sono problemi più grandi e spiegheranno che c’è sempre qualcosa di più decisivo da fare. Desidero dirti, chiunque tu sia – perché la pace è di tutti e ha bisogno di tutti – che invece è importante che tutti vedano quanto è grande la nostra voglia di pace. Poi ognuno farà i conti con se stesso. Noi non vogliamo la violenza e la guerra. E ricorda che manifesti anche per i tanti che non possono farlo. Pensa: ancora nel mondo ci sono posti in cui parlare di pace è reato e se si manifesta si viene arrestati! Grida la pace anche per loro!

Quanti muoiono drammaticamente a causa della guerra. I morti non sono statistiche, ma persone. Non vogliamo abituarci alla guerra e a vedere immagini strazianti. E poi quanta violenza resta invisibile nelle tante guerre davvero dimenticate. Ecco, per questo chiediamo con tutta la forza di cui siamo capaci: “Aiuto! Stanno male! Stanno morendo! Facciamo qualcosa! Non c’è tempo da perdere perché il tempo significa altre morti!” Il dolore diventa un grido di pace.
La pace mette in movimento. È un cammino. « E, per giunta, cammino in salita», sottolineava don Tonino Bello, che aggiungeva: «Occorre una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non è un dato, ma una conquista. Non un bene di consumo,

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IL 5 LA PACE IN PIAZZA. Oltre ad aver portato distruzione e morte nelle città ucraine e possibili conseguenze catastrofiche indotte su gran parte del mondo la criminale invasione di Putin ha avuto come effetto il […]

Il disarmo nucleare, prima che si apra il «vaso di Pandora»

 

Oltre ad aver portato distruzione e morte nelle città ucraine e possibili conseguenze catastrofiche indotte su gran parte del mondo la criminale invasione di Putin ha avuto come effetto il blocco immediato (o meglio un pesante arretramento) di qualsiasi progresso internazionale su disarmo e politiche di pace. Lo dimostrano le decisioni di aumento robusto della spesa militare, che si vanno a sommare ad un trend già in decisa crescita.

L’unico aspetto sul quale ci si poteva aspettare una ripresa di ipotesi disarmiste, o quantomeno di controllo della proliferazione, era invece quello legato agli arsenali nucleari. Proprio perché, a causa dell’evidente minaccia di escalation, non si potevano più considerare esagerazioni o ipotesi di scuola i continui allarmi della società civile (per troppo tempo snobbate come allarmiste o visionarie). Ma al posto di far crescere il rifiuto a priori di qualsiasi ipotesi di guerra nucleare, con conseguente pressione verso lo smantellamento degli arsenali, le continue minacce e gli annunci retorici degli ultimi mesi hanno invece normalizzato l’idea di utilizzo dell’arma più distruttiva mai costruita dall’uomo. A partire sicuramente da Putin (e forse ancor dai toni accesi di Medvedev), ma con il «rilancio» altrettanto pericoloso – pur più sottile – di coloro che, anche in Occidente, si sono dilungati in analisi militari sulla opportunità e le conseguenze di un utilizzo circoscritto delle testate nucleari. Pericoloso quando si è di fronte ad un «vaso di Pandora» impossible da richiudere, se davvero qualcuno deciderà di lanciare un ordigno (qualsiasi ne sia la potenza distruttiva o la prospettiva in termini di piani miliari).

Ma il problema vero non è la retorica, quanto alcune scelte politico-militari che nemmeno davanti al baratro hanno avuto il coraggio di scardinare questo sistema di falsa sicurezza. Pensiamo alle esercitazioni strategiche annuali che la Russia ha confermato per queste settimane, così come la simmetrica conferma da parte della Nato delle grandi manovre “Steadfast Noon”: una settimana di “esercitazioni di deterrenza” che ogni anno coinvolge aerei e personale militare degli Stati dell’Alleanza. Denominata «attività di addestramento ricorrente e di routine» per sminuire il fatto che lo scopo della missione è quello di addestrarsi ad uccidere in massa di civili. Attività che potrebbero favorire escalation ed incidenti (non a caso gli Usa hanno cancellato una esercitazione con missili balistici a marzo) legittimando la pericolosa retorica nucleare della Russia e sminuendo gli sforzi per isolare politicamente Putin. Che si è guardato bene dal condannarle, proprio perché consolidano la sua posizione.

Non a caso tutti gli Stati nucleari e i loro alleati (tra i quali, purtroppo, anche l’Italia) hanno votato settimana scorsa contro una Risoluzione nel Primo Comitato Onu a sostegno del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari Tpwn (passata con 124 voti favorevoli). E addirittura votando contro o astenendosi (come l’Italia) su una seconda Risoluzione che ribadiva «la profonda preoccupazione per le conseguenze catastrofiche delle armi nucleari» sottolineando «che è nell’interesse della sopravvivenza stessa dell’umanità che le armi nucleari non vengano mai più utilizzate, in nessuna circostanza». La risoluzione esortava inoltre gli Stati «a compiere ogni sforzo per eliminare totalmente la minaccia di queste armi di distruzione di massa».

Per questi voti i Paesi occidentali, che tanto richiamano criteri ed ideali di pace e giustizia, non si sono fatti alcun problema ad allinearsi alla Russia di Putin, confermando che al momento nessuno vuole abbandonare l’architettura degli arsenali nucleari, che garantisce potere e predominio, nonostante un pericolo di guerra atomica distruttiva mai così vicino. E sono stati probabilmente gli alleati degli Usa ad impedire un cambio positivo della dottrina nucleare statunitense opponendosi ad una posizione di “no first strike” (rinuncia al primo colpo nucleare) ipotizzata da Biden in campagna elettorale. Sarebbe stato un passo avanti positivo ed innovativo (diversamente da quanto scritto da alcuni giornalisti disattenti non era mai stata adottata). Alleati che hanno appoggiato anche il dispiegamento anticipato di qualche mese delle nuove bombe «tattiche» B61-12, che arriveranno anche in Italia per un utilizzo sui nuovi cacciabombardieri F-35.

Prospettive non rosee: per questo che la Piattaforma della grande Manifestazione per la pace di domani, sabato 5 novembre chiede esplicitamente il disarmo nucleare globale. Bisogna mettere le armi nucleari fuori dalla storia prima che distruggano l’umanità, e la strada più concreta e realistiche per arrivarci, soprattutto dopo il varo del “Piano di Azione” di Vienna dello scorso giugno, è quella dell’adesione al Trattato Tpwn, che deve diventare obiettivo politico prioritario.

*Coordinatore Campagne – Rete Italiana Pace e Disarmo

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MEDITERRANEO. Vittorio Alessandro ha dedicato 31 anni della sua vita alla guardia costiera. Ora è in congedo. «Una "nave pirata" contravviene alle norme internazionali ed esercita violenza su imbarcazioni e persone che solcano il mare. Quelle delle Ong salvano vite», dice al manifesto rispondendo alle affermazioni di Giorgia Meloni

L’ammiraglio Alessandro: «Ai naufraghi va assegnato un porto vicino e sicuro. Lo dice la legge» Vittorio Alessandro

Il contrammiraglio Vittorio Alessandro ha dedicato 31 anni alla guardia costiera. Ha percorso tutto il cursus honorum di un ufficiale, corredato dal comando di diversi porti. Si è anche occupato di gestire le relazioni esterne del corpo, è stato in missione in Libano e ha concluso la carriera da presidente del parco nazionale delle Cinque Terre.

Mentre mille persone sono bloccate su tre navi Ong, la guardia costiera ne salva centinaia che sbarcano subito. Ci sono norme che differenziano l’indicazione del porto in base alla bandiera della nave?

No. La differenza è che le motovedette sono collegate a una regia istituzionale, mentre la nave straniera deve rientrare nel coordinamento dell’area Sar [search and rescue, ndr] in cui opera. E quindi invocare di volta in volta un porto.

Le Ong dicono di chiedere sempre il coordinamento alle autorità, ma queste non lo danno. Di fronte a un’imbarcazione in pericolo dovrebbero attendere la risposta?

Non è una scelta. Il soccorso è un atto dovuto da parte di chiunque si trovi lì, per volontà o caso. Va fatto nel più breve tempo possibile per limitare i rischi. Nessuno ha mai messo in dubbio questa certezza. Il tema del coordinamento arriva dopo: ho salvato delle persone e mi rivolgo a qualcuno che coordini la mia attività, in particolare indicandomi dove andare. Purtroppo è invalsa la prassi di non rispondere alle Ong. Contravvenendo alle norme internazionali. Perché lo Stato deve rispondermi anche se non è responsabile dell’area Sar in cui ho agito. Quella risposta implica una responsabilità. Si crede di evitarla facendo finta di niente. Ma non è così: non è un’opinione, è disposto dalle leggi.

Durante l’operazione Mare Nostrum le navi della marina italiana salvavano persone in Sar maltese. Erano coordinate da La Valletta?

No, svolgevano un’azione di assoluta marca italiana che rispondeva a criteri diversi da quelli delle precedenti campagne di soccorso. La marina si è spinta molto più a sud, verso la Libia. Non solo per attuare uno straordinario programma di salvataggi ma anche per intercettare la malavita che organizza i trasferimenti di migranti.

Quindi il centro di coordinamento della guardia costiera (Imrcc) non le coordinava?

Le navi della marina rispondevano al ministero della Difesa e allo stato maggiore. Quell’esperienza è durata un anno. Quando è stata frettolosamente conclusa si è aperta la strada del soccorso tramite i mercantili, coordinati da Imrcc anche fuori dalla Sar italiana. Le Ong sono arrivate dopo. Oggi salvano meno persone di quanto facevano allora le navi commerciali, che però si facevano pagare.

Quindi l’Imrcc può coordinare fuori dalla sua area di competenza?

Certo, quando altri Stati non rispondono deve farlo. Nelle aree marine non possono esserci buchi.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi afferma che le Ong salvano il 16% dei migranti che sbarcano in Italia. Siccome accogliamo l’altro 84%, quelli devono andare altrove. C’è un nesso tra accoglienza e soccorso?

Assolutamente no. La Sar è una vicenda che si svolge in mare in un quadro di emergenza operativa. È come un interruttore: sì, salvo; no, non salvo. Non esiste via di mezzo. L’accoglienza, invece, è un percorso politico progettuale. Tutt’altra cosa. Se la Ocean Viking dovesse andare in Norvegia, come sostiene Salvini, dovrebbe navigare 23 giorni. Senza contare maltempo, rifornimenti di cibo, acqua e carburante. Impossibile con persone provate da un viaggio pericolosissimo e da precedenti periodi di prigionia.

Non dare il porto è un’omissione di soccorso?

È una sottovalutazione dei gravi rischi che queste persone corrono. L’omissione di soccorso è una fattispecie penale. Qui parliamo di responsabilità politiche ed etiche, dei valori che reggono la cultura marinara.

Giorgia Meloni ha definito quelle delle Ong «navi pirata». Tecnicamente è corretto?

Una nave pirata contravviene alle norme internazionali ed esercita violenza su imbarcazioni e persone che solcano il mare. Non è questo il caso. Qui parliamo di persone che soccorrono altre persone. Come in terremoti, pandemie, guerre.

La Ocean Viking ha chiesto a Spagna, Grecia e Francia di «facilitare l’assegnazione» del porto. Il diritto internazionale non prevede lo sbarco in quello più vicino?

Il soccorso è un’emergenza complessa che comincia quando prendo a bordo persone in pericolo e si conclude quando toccano terra. In un porto vicino e sicuro. Deve essere vicino perché solo così si può evitare ai naufraghi l’enorme fatica di una vicenda iniziata con il rischio di perdere la vita. Parliamo di donne, bambini, persone vulnerabili.

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