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Di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah da parte di Tel Aviv non se ne parla neppure. «Andremo avanti fino il vittoria», dice Netanyahu che non teme di certo […]

Le trappole e gli inganni di Netanyahu Le trappole e gli inganni di Netanyahu

Di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah da parte di Tel Aviv non se ne parla neppure. «Andremo avanti fino il vittoria», dice Netanyahu che non teme di certo l’ira di Biden ma casomai del suo ministro della sicurezza Itamar Ben Gvir.

Che è il capo del partito di estrema destra Otzma Yehudit, che ieri ha minacciato di lasciare il governo – e quindi di farlo cadere – se il premier israeliano accettasse la proposta di cessate il fuoco americana e francese.

Primo dilemma risolto: la pace può attendere. L’obiettivo primario di Netanyahu, che oggi parla alle Nazioni Unite, è restare al potere a qualunque costo proseguendo il conflitto a Gaza e quello contro Hezbollah e il Libano. Lo farà con questa coalizione di sionisti radicali fino a quando potrà: nei suoi piani c’è quello di aspettare l’insediamento del prossimo presidente americano, nel gennaio 2025. Il massacro di Hamas del 7 ottobre 2023 gli ha consentito di proseguire la sua carriera politica e di sfuggire alla giustizia, oltre ogni previsione.

In tutto questo non solo sta trascinando Israele e il Medio Oriente verso un conflitto più ampio ma ha gettato il discredito sull’amministrazione americana rimandando indietro più volte, con ogni scusa possibile, il piano Biden per una tregua. Il segretario di stato Blinken è stato trattato da lui come un postino, tanto è vero che qualche giorno fa ha lasciato la regione alla svelta. In questo frangente si è avuta un’altra conferma di chi decide davvero tra Tel Aviv e Washington.
Bisogna essere chiari: gli Usa, come avviene da anni, sono i suoi complici più importanti. Il 23 agosto scorso hanno deciso di dare a Tel Aviv altri 20 miliardi di dollari di aiuti militari tra cui 50 caccia bombardieri F-15. E si deve essere ancora più espliciti: tra il suo preferito Trump – colui che ha riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan e spostato l’ambasciata Usa a Gerusalemme – e la democratica Kamala Harris, attuale vicepresidente, per Netanyahu non c’è troppa differenza.

L’amministrazione democratica ha soddisfatto tutte le richieste di aiuti militari, ha accettato l’espansione delle colonie in Cisgiordania (con flebili proteste) e ha lasciato che decine di migliaia di coloni venissero armati dall’ esercito israeliano come ammesso dallo stesso capo dello Shin Bet. Quanto al Libano la mediazione Usa tra Israele e Hezbollah si è materializzata nel nominare come “inviato di pace” Amos Hochstein, cittadino Usa ma ex ufficiale dell’esercito israeliano, che questa stessa amministrazione aveva in precedenza incaricato nel 2021 di far saltare (diplomaticamente) il gasdotto North Stream tra Russia e Germania (sabotato come poi è stato nei fatti). Ogni commento è superfluo: con Hochstein è come avere messo la volpe nel pollaio.

Secondo dilemma di Netanyahu: far ritornare 60mila israeliani nei villaggi dell’Alta Galilea e l’invasione di terra del Libano. Israele ha invaso il Libano nel 1978 e nel 1982, poi ha lasciato nel 2000 la “fascia di sicurezza” in Libano e il confine è tracciato dalla Linea Blu dove ci sono i soldati Onu della missione Unifil (tra questi 1000 italiani). Con la guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah Israele ha riprovato a penetrare in Libano ma nonostante 28 giorni di bombardamenti devastanti sul Paese dei cedri le truppe ebraiche sono state fermate sulla linea di Bint Jabayl.

Per far rientrare i profughi israeliani al Nord i comandi israeliani puntano sull’arretramento di Hezbollah e della sua artiglieria oltre il fiume Litani. L’invasione di terra avrebbe questo obiettivo. Ma non è detto che funzioni. In primo luogo Hezbollah è un’organizzazione di guerriglia addestrata e sperimentata (Siria, Iraq, Yemen) e le truppe israeliane potrebbero restare impantanate. In secondo luogo i bombardamenti israeliani di questi giorni hanno prodotto centinaia di migliaia di profughi fuggiti verso Beirut, la valle della Bekaa e anche verso la Siria. Lo scenario sta diventando sempre più drammatico e complicato.

Il Libano conta poco più di cinque milioni di abitanti, i profughi, in gran parte dalla Siria, sono 1,5 milioni, in pratica una persona su quattro è un rifugiato (i palestinesi sono 400mila): un’invasione massiccia significa combattere in un enorme campo profughi. Si può delineare un catastrofe militare e politica. Per questo anche gli esperti israeliani parlano di operazioni di terra “mirate” ma ripetute.

E veniamo al terzo dilemma di Netanyahu che è anche il nostro. Il premier oggi davanti all’Onu, come ha fatto in tutti questi vent’anni al potere, ribadirà che il vero nemico è l’Iran. Il premier sta provando in ogni modo a far entrare Teheran in un conflitto diretto con Israele in modo da provocare l’intervento degli Stati uniti a fianco dello stato ebraico. E un intervento americano significa anche la mobilitazione degli alleati degli Usa fuori e dentro la regione.

È la “grande guerra” che sognano i più estremisti dei sionisti per regolare i conti in Medio Oriente. Ma come dimostra anche il recente passato non solo nessun conflitto ha risolto i problemi della regione ma al contrario ha aperto il vaso di Pandora del caos e della distruzione (Afghanistan, Iraq, Siria, Libia). La “grande guerra” si deciderà, forse, con l’uscita di scena di Biden, un addio che in Medio Oriente non lascia rimpianti ma neppure molte speranze

 

 

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Controcampo Il voto sulla presidenza del cda sarà il prossimo banco di prova non solo per la maggioranza, ma anche per la tenuta, almeno di facciata, dell’ormai evaporato campo largo

Il vecchio tic dello scontro sulla leadership

 

L’impegno a fare la riforma Rai in tempi utili a rispondere alle indicazioni europee (indipendenza dei media dalla politica)? Non pervenuto. L’intesa su un nome «di garanzia» – cioè non targato – per la presidenza del cda Rai?

Non risulta e Forza Italia anzi insiste sulla sua candidata Simona Agnes. Ma ora nell’opposizione siamo alla fiera della rivendicazione, dei puntini sulle i e pure del «ma quando mai…». Fratoianni e Bonelli si appuntano una medaglia sul petto per aver sventato, grazie all’elezione in cda del loro candidato Roberto Natale, la totale occupazione della tv pubblica da parte della destra meloniana. E rivendicano come successo l’aver ottenuto da quella stessa destra un generico impegno su una riforma Rai: martedì saranno incardinati in commissione al Senato «tutti i ddl» in materia (poi si vedrà).

Conte conferma il consigliere pentastellato Di Majo, non esattamente una sentinella contro gli abusi di TeleMeloni, e gioca alle tre carte con Elly Schlein lasciata sola sull’Aventino della non partecipazione al voto sulle nomine: «Il Movimento non ha mai cambiato posizione. Abbiamo chiesto un impegno sulla riforma prima dei nomi» e l’impegno è stato ottenuto. Uno dei comunicati firmati da Pd, Avs, Azione, Iv e 5 Stelle recitava: «Le opposizioni sono indisponibili a rinnovare il Cda Rai in assenza della riforma». Non è esattamente la stessa cosa dell’«impegno a», ma sono quisquilie, pinzelacchere, figurarsi, si alza sempre l’asticella mettendo in conto un margine di trattativa. Peccato, per restare sul pragmatico, che sul piatto della bilancia di Conte e Fratoianni-Bonelli non ci sia granché, oltre alla nomina dei due consiglieri “in quota”.

Il voto sulla presidenza del cda sarà il prossimo banco di prova non solo per la maggioranza, ma anche per la tenuta, almeno di facciata, dell’ormai evaporato campo largo e per i soliti sospetti: i 5 Stelle, che ripetono «no Agnes», ma sono da tempo abili battitori liberi sul fronte della tv pubblica. Un fronte sul quale la segretaria del Pd ha invece deciso di non scendere a patti. Lo ha fatto per non rimangiarsi l’aut aut, per mantenere un minimo di credibilità in occasione della prossima invettiva contro TeleMeloni, per non infilarsi in una trattativa tra correnti dem che rischiava di triturarla o perché pensa che la lottizzazione di mamma Rai sia roba da arsenico e vecchi merletti? Di motivi validi ce ne sono a iosa e hanno poco senso le bizze su chi sta con chi ( i 5S accusano la leader del Pd di aver scelto l’Aventino con Renzi per una precisa scelta di campo).

Mettendo da parte le terragne e decisamente stantie vicende da tubo catodico, è evidente che c’è un problema di sintonizzazione tra i leader dell’alleanza mai nata. Il problema non sono i nomi degli alleati (Renzi sì, Renzi no) ma i temi, ripete sempre Schlein. Ecco: sono sempre di più i temi – dalla guerra allo ius soli e ora anche al lavoro – sui quali manca la sintonia. O forse la sintonia non si trova perché il vero conflitto più che sui temi è sull’egemonia del “campo” e sulla sua leadership. Un vecchio tic (maschile) del centrosinistra, fronte progressista o come si voglia chiamare. Arsenico e vecchi merletti. L’alternativa può attendere e Meloni può brindare all’ultima e inaspettata incursione vittoriosa nel campo delle opposizioni

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Punire e reprimere, a scuola e nelle strade: chi non è conforme è un nemico. C’è un filo nero che unisce il disegno di legge «sicurezza» del ministro Piantedosi e il voto in condotta del ministro Valditara. Il primo provvedimento è a metà strada, il secondo da ieri è legge. Ma la protesta si organizza

Ddl sicurezza L’insieme delle norme volute dal governo è il manifesto di un diritto penale autoritario e illiberale che trasforma in criminali e nemici alcune precise figure sociali

L’ultima occasione per protestare L’ultima occasione per protestare

Il disegno di legge «sicurezza» approvato dalla Camera dei deputati è il più grande e pericoloso attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana. Spetta adesso al Senato decidere se c’è ancora spazio politico e sociale per le minoranze dissenzienti, per chi usa il proprio corpo per manifestare la propria opposizione al potere, per chi disobbedisce in forma nonviolenta.

L’insieme delle norme volute dal governo è il manifesto di un diritto penale autoritario e illiberale che trasforma in criminali e nemici alcune precise figure sociali.

Eccole: l’occupante di case, l’attivista ambientale, la giovane donna rom, il detenuto comune, l’immigrato che vive per strada, il mendicante. Nuovi reati, nuove pene, nuove proibizioni e nuove punizioni. Un insieme tragico di divieti e sanzioni che renderanno penalmente perseguibili tutti coloro che protestano in forma non convenzionale, ma senza far del male a nessun essere umano, e tutti coloro che vivono ai margini della società.

Una società che ha progressivamente perso ogni carattere solidale, come dimostra l’uso abnorme delle polizie locali per smantellare gli accampamenti di chi vive per strada, come è accaduto a Roma nei giorni scorsi.

Il disegno di legge sulla sicurezza è l’ultimo dei passi compiuti verso il definitivo smantellamento dello Stato sociale costituzionale di diritto ereditato dalla Resistenza. Punire i poveri o le minoranze dissenzienti non è solo espressione di una politica simbolica diretta a cumulare consenso in forma demagogica, ma è qualcosa di più. È la concretizzazione materiale di un modello di diritto penale di matrice autoritaria e non

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Spacca-Italia Sui Lep i saggi ammettono «indicatori differenziali» tra nord e sud. Le opposizioni: «Meloni e Calderoli chiariscano in aula». Schlein cita Dossetti: «Servono ancora i circoli a difesa della Costituzione»

Sabino Cassese Sabino Cassese – LaPresse

Ormai è certificato: quella voluta dal governo delle destre non sarà un’autonomia alla pari, ma penalizzerà il sud. Mentre le opposizioni hanno passato l’estate a raccogliere le firme per il referendum contro la legge Calderoli, sotto traccia il lavoro per spaccare l’Italia è andato avanti.

OGGI IL COMITATO per definire i Lep (livelli essenziali delle prestazioni), presieduto da Sabino Cassese, esaminerà la proposta per quantificare le risorse necessarie a finanziare le funzioni che saranno devolute alle regioni. Proposta elaborata dalla commissione tecnica sui fabbisogni standard (Ctfs), guidata da Elena d’Orlando, giurista vicina al governatore veneto Zaia e nominata da palazzo Chigi .

IN QUESTE SLIDE, anticipate ieri dal manifesto, viene certificato, anche tramite indicatori come il «costo della vita», che le regioni del sud saranno penalizzate rispetto a quelle del nord.

Non solo: la riunione di oggi, che avrebbe dovuto essere aperta anche a sherpa e collaboratori dei 60 componenti del comitato Cassese, è stata blindata: via mail è stato intimato agli esterni di restare a casa, per evitare altre fughe di notizie. E una nota del comitato, che ha preso il nome di Clep, conferma che ci saranno degli «indicatori differenziali». Una formula mai usata prima nella lunga discussione sull’autonomia, che autorizza i peggiori pensieri. «Questi indicatori sono inevitabili. Basti pensare ad esempio ad una metropoli ed un paese in cima alle Dolomiti», spiegano fonti del Clep.

LA NOTIZIA DELL’AVANZATO stato di avanzamento dei lavori, e soprattutto i contenuti della proposta, sono arrivati come un fulmine sui palazzi della politica. I senatori Pd della commissione Affari costituzionali hanno chiesto una immediata convocazione di Cassese. «Siamo davanti a una cosa clamorosa. Il Comitato sembrerebbe aver prodotto un documento che individua la definizione dei Lep in maniera perlomeno discutibile», attacca il capogruppo di Avs in Senato Peppe De Cristofaro. «A mio parere si tratta di criteri in totale contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, perchè si accetta il principio di differenziare i diritti a seconda della residenza geografica».

«Una cosa gravissima, cosi si sancisce in maniera definitiva che in questo Paese ci sono delle disuguaglianze territoriali, che l’autonomia accentuerà in maniera clamorosa e drammatica», attacca De Cristofaro che chiede, oltre a Cassese, di audire in Senato anche il ministro Calderoli, padre della riforma.

SI MUOVE ANCHE IL M5S, e chiede una informativa urgente della premier Meloni alle camere. «I livelli essenziali delle prestazioni verrebbero differenziati sulla base del territorio di appartenenza. Sarebbe gravissimo perché parliamo di diritti primari come quello alla salute, all’istruzione e ai trasporti», dice il deputato Alfonso Colucci. Il senatore dem Andrea Giorgis racconta che neppure i senatori del centrodestra erano a conoscenza del passo avanti della commissione Lep. E non è un mistero che anche in Forza e Fdi ci siano parecchi dubbi sui rischi che la riforma penalizzi il sud.

Tra le opposizioni circola anche l’idea di una richiesta di dimissioni della commissione tecnica sui fabbisogni standard, a partire dalla presidente d’Orlando. «Sui Lep siamo molto preoccupati», mette a verbale il capogruppo Pd in senato Francesco Boccia. «Le diseguaglianze aumenteranno se andranno avanti, è evidente che nella prossima manovra non c’è nulla sull’autonomia e nulla per i Lep».

ANCHE LA SEGRETARIA PD Schlein, ieri alla presentazione di un libro su don Dossetti, ha ribadito la volontà di «reagire con forza al baratto cinico fra premierato e autonomia». Fino a ipotizzare un bis dei comitati per la difesa della Costituzione che Dossetti lanciò nel 1994 dopo che Berlusconi e la Lega avanzarono le loro prime ipotesi di riforma in senso presidenziale e federale. «Vogliamo promuovere una stagione di mobilitazione in tutto il Paese, con comitati e circoli: la politica si metta a disposizione per aiutare e coordinare queste spinte», dice Schlein.

Che non nasconde come alcune riforme, come quella del titolo V nel 2001 che poi Calderoli ha implementato con la legge sull’autonomia, «furono errori del centrosinistra». Di qui la necessità di tornare al pensiero dossettiano, alla sua «ostinata vitalità», in particolare nella difesa della Costituzione, a partire dall’unità dello Stato fino alla necessità di una «diffusione del potere, che non è solo la classica separazione di Montesquieu, ma una sua efficace redistribuzione»

 

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Israele/Libano Davanti all’allargarsi della guerra d’Israele in Libano è necessario domandarsi quanto un mondo retto da un doppio standard possa essere diverso da un mondo senza regola

Soldati israeliani a Gaza foto Ap Soldati israeliani a Gaza – foto Ap

La guerra si allarga di fronte in fronte: decine di migliaia i palestinesi uccisi, decine i morti di Israele, e ora centinaia in Libano. Nessuno sa dove si fermerà: diversamente da Gaza, i confini libanesi sono aperti, e per Israele non c’è linea rossa.

Un paese cronicamente e profondamente diviso come il Libano si è trovato unito nella stessa paura: il timore che esploda il telefono o il televisore, il ronzio onnipresente dei droni, i boati dei jet israeliani.

Diventa destinatario della medesima retorica e dello stesso trattamento che Netanyahu ha riservato ai civili di Gaza in spregio al diritto umanitario bellico: evacuazione immediata verso condizioni di impossibilità, pena diventare bersagli.

Alcuni analisti, quelli che sottolineano quanto siano mirati gli attacchi, hanno insistito su come finora Hezbollah fosse stato sì colpito nell’immagine, ma non accecato.

Gli attacchi avrebbero azzoppato solo le forze speciali, lasciando impregiudicata la capacità di fuoco del Partito di Dio, che comunica via cavo. Ci sarebbero stati movimenti di truppe sotterranei, da cui la necessità di bombardamenti massicci preventivi. Il solito copione in cui Israele è condannato ad attaccare preventivamente. In realtà gli attacchi hanno rotto vincoli non scritti, e la massiccia campagna di bombardamenti che è seguita ha chiarito come l’obiettivo sia riscrivere radicalmente i rapporti di forza. Per quanto Tel Aviv parli di deterrenza, la posta va oltre, prefigurando non l’eccezione, ma l’imposizione di una norma.

La prova sono i nervi tesi e le contestazioni che accompagnano la convocazione dell’Assemblea Generale Onu a New York: in gioco c’è la natura dell’ordine internazionale fondato 70 anni fa, incardinato sul principio di uguaglianza. Ne portano traccia l’opera continua di colonizzazione, espropriazione, ingegneria di territorio e risorse. E, oggi, la distruzione violenta, aiutata dalla potenza di calcolo dell’intelligenza artificiale, delle condizioni che rendono possibile la vita, così come gli innumerevoli episodi di disprezzo dei vivi e anche dei morti.

Si sta affermando che ci sono ragioni, non ultime la forza, per le quali le vite di alcuni meritano, mentre altre, colpevoli o meno, sono una minaccia che va demograficamente contenuta. È il codice inscritto nelle umiliazioni ai checkpoint militari israeliani, che ha meno a che fare con la sicurezza della società che dichiara di proteggere, che non con un messaggio circa chi comanda, e circa il valore delle vite dei comandati.

Arrivato alla fine del suo incarico, il capo della diplomazia dell’UE, Josep Borrell, ha constatato come ovunque vada si trovi a dover rispondere all’accusa di agire con due pesi e due misure. Emmanuel Macron si è dichiarato colpito da «quanto stiamo perdendo nel Sud Globale». Il ministro degli esteri cinese Qin Gang ha redarguito la sua omologa tedesca, Annalena Baerbock, ricordandole come «la cosa di cui la Cina ha meno bisogno è una maestra occidentale».

I Paesi del Sud da sempre accusano l’Occidente di difendere l’ordine internazionale – che significativamente non chiamano più liberale, ma «fondato sulle regole» – solo quando risulta conveniente. Per dirla con il titolare degli Esteri indiano, gli europei credono che i problemi dell’Europa siano quelli del mondo, ma che i problemi del mondo non siano dell’Europa. Lo stesso Volodymir Zelensky, per sua parte, ha annunciato la preferenza per una conferenza di pace sull’Ucraina in una capitale del Sud del mondo.

A cosa ha portato, dunque, l’ottimismo a lungo ostentato dalla Casa Bianca, circa un accordo negoziato sul cessate il fuoco a Gaza? Washington potrebbe dare segnali in diverse direzioni, iniziando dalle proprie forniture d’armi o dal proprio seggio all’Onu. Eppure, in affanno ormai su tutte le crisi regionali, finisce per mostrare una poco convinta comprensione davanti alla logica israeliana dell’«escalation che serve a de-escalare il conflitto». La stessa logica che guida la propagazione della guerra in Libano, ma che non viene riconosciuta agli ucraini quando insistono sui missili contro le basi di lancio in Russia.

Quanto può reggere ancora la legittimità di un’impalcatura giustificatoria incoerente? Il ministro della difesa dell’Indonesia (la quarta potenza mondiale nella proiezione al 2050) è esplicito: «Gli occidentali hanno uno standard per i palestinesi e uno diverso per gli ucraini». In un affondo mirabile sul New York Times, Michel Walzer, il teorico delle origini paradigmatiche della democrazia nell’esodo del popolo di Israele, conclude che le campagne belliche di Israele non trovano giustificazione nella dottrina della guerra giusta.

All’origine delle fratture all’Onu, del multipolarismo russo, della ‘diversità di civiltà’ cinese e dell’incrinarsi delle regole, prima ancora dell’invasione dell’Ucraina, c’è l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 – alla quale noi italiani ci accodammo dichiarandoci ‘non belligeranti’; ci sono gli abusi perpetrati e condonati nel nome della ‘guerra al terrore’; gli accordi con le dittature per imprigionare migranti. E c’è il rifiuto a condannare a qualunque azione di Israele, anche quando, davanti al proprio fallimento, un Netanyahu nel mirino della giustizia penale internazionale trasforma la guerra in fine, trascinando l’Occidente e le democrazie verso l’illusione di dominare contraddizioni sempre meno sanabili. Donald Trump ed Elon Musk non sono che alfieri di questa illusione gerarchica. Mai come davanti all’allargarsi senza argine della disumanizzazione e della guerra è necessario domandarsi quanto un mondo retto da due standard possa essere diverso da un mondo senza regola

 

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