Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Vienna e Parigi In un sistema parlamentare conta poter fare le alleanze per governare. Un sollievo ora (ma per quanto?) e una contraddizione per noi che in Francia tifiamo Nfp

Parigi, in piazza il giorno della vittoria del Fronte Populaire Ap Parigi, in piazza il giorno della vittoria del Fronte Populaire – Ap

Con il 29,2 per cento dei voti, il Partito della libertà (Fpoe) ha vinto le elezioni parlamentari in Austria, acquisendo il diritto di formare il nuovo governo. Poco importa che oltre due austriaci su tre non si siano affatto espressi in tal senso.

I popolari hanno ottenuto il 26,5 per cento, i socialdemocratici il 21,1, i liberali il 9, i Verdi l’8 – dunque l’estrema destra è arrivata prima e la Cancelleria le spetta di diritto.

Saremmo disposti a sottoscrivere un discorso di tale tenore? Immagino che la risposta sia negativa. Eppure, a parti politiche invertite, è quanto è accaduto in occasione delle elezioni francesi.

La ricostruzione dei fatti allora più diffusa potrebbe essere così riassunta: (a) l’affermazione dell’estrema destra alle elezioni europee ha indotto il presidente Macron allo scioglimento dell’Assemblea nazionale, nella speranza che gli elettori democratici si sentissero costretti a convergere sui candidati macroniani; (b) sconfessando gli auspici presidenziali, e le concorrenti aspettative di Marine Le Pen, gli elettori hanno tuttavia assegnato la vittoria elettorale al Nuovo fronte popolare (Nfp), che ha così conquistato il diritto di dar vita al nuovo governo; (c) se non che, tradendo la volontà popolare, Macron ha rifiutato di assegnare l’incarico di Primo ministro alla candidata indicata dalle sinistre e ha dato vita a un esecutivo di minoranza assai orientato a destra, confidando – quantomeno – nella non ostilità delle forze lepeniste.

Dal punto di vista del diritto costituzionale, la cosa più rilevante è che, per la seconda volta consecutiva, le elezioni francesi non abbiano prodotto un’Assemblea nazionale dominata da una sola forza o coalizione politica. In passato, la formazione della maggioranza assoluta era stata assicurata da un sistema elettorale grazie al quale forze politiche votate da minoranze relativamente circoscritte erano comunque riuscite a conquistare il controllo dell’Assemblea. Ancora nel 2017, con il favore di un francese su tre, la coalizione macroniana aveva conquistato 350 deputati su 577 (vale a dire, aveva quasi raddoppiato in Parlamento il peso ottenuto nelle urne). Nelle due votazioni successive (2022 e 2024), l’esito è stato invece condizionato dall’articolazione tripolare del sistema politico, che ha condotto l’iper-presidenziale sistema francese ad assumere una veste più vicina alla forma di governo parlamentare.

Ed è proprio in forza di tale cambio di veste che sembra opportuno un supplemento di riflessione. Che significato ha, infatti, dire che le elezioni hanno sancito la «vittoria» di una coalizione che al primo turno ha ottenuto meno del 30 per cento dei suffragi? Certamente l’esito finale del voto ha consegnato a quella coalizione la maggioranza relativa dei parlamentari, ma come si può considerare «vincitore» qualcuno che la gran parte del corpo elettorale non avrebbe voluto alla guida del Paese?

Sia chiaro: non si tratta di negare l’importanza straordinaria del risultato ottenuto in Francia dal Nfp, né di sminuire la coraggiosa assunzione di responsabilità che ha consentito alle sinistre di fermare l’ascesa della destra estrema, anche a costo di votare candidati altrimenti inaccettabili. Chi scrive ha sperato nel più ampio successo del Nfp ed è inorridito, ancorché non sorpreso, dalla decisione di Macron di cercare sponda nelle forze politiche neofasciste, pur di potersi mantenere al servizio del capitale (e proprio l’aver costretto il presidente francese a mostrare il suo vero volto rappresenta un successo politico enorme).

Il punto, tuttavia, è decidere se si vogliono davvero abbandonare i vizi della logica maggioritaria, propria del presidenzialismo, e tornare a praticare le virtù del parlamentarismo e della proporzionale. La stessa France insoumise ha dichiarato di voler realizzare tale proposito tramite riforme costituzionali che consentano di superare la centralità dell’Eliseo, salvo poi avanzare la pretesa di esperire un tentativo di governo sulla base dell’argomento del primato relativo del numero dei parlamentari. Così dimenticando che in ambiente parlamentare le elezioni servono a misurare gli orientamenti politici del Paese, non a sancire vincitori e vinti, e che là dove è l’organo assembleare a determinare la vita dei Governi ciò che conta è la capacità di costruire alleanze post-elettorali suscettibili di coinvolgere la maggioranza degli eletti. Quel che ci si augura riescano a fare i popolari austriaci, rifiutandosi di seguire Macron sul terreno dell’alleanza con le forze neofasciste, trovando un’intesa con i socialdemocratici e impedendo così all’estrema destra del Fpoe di governareEle

Commenta (0 Commenti)

Cuore di tenebra Intervista a Walter Baier (Partito comunista austriaco), leader di European Left

Walter Baier foto Ap Walter Baier – foto Ap

Walter Baier è stato il candidato di punta (Spitzenkandidat) della sinistra europea per la presidenza della Commissione. Viennese, 70 anni, dal 2022 anni è il leader del partito European Left, e prima ancora ha guidato il partito comunista austriaco Kpoe.

Cosa significa per l’Austria questo risultato elettorale?
La vittoria elettorale della Fpoe è particolarmente negativa per i lavoratori, perché è il partito dell’ala ultrareazionaria e nazionalista tedesca del grande capitale austriaco, da cui riceve anche sostegno finanziario e mediatico. Il suo programma economico è diretto contro i sindacati e lo stato sociale. Il suo discorso di odio contro gli stranieri e contro le minoranze maschera il suo carattere antisociale.

L’Fpoe è stato già al potere in varie fasi della politica austriaca, in alleanza con partiti dell’arco costituzionale. C’è stato un tentativo di normalizzazione ma è fallito?
È vero sono stati coinvolti tre volte nei governi, in un’occasione anche con la i socialdemocratici. Ogni volta l’esperienza si è concluso nel caos, perché la retorica xenofoba non può sostituire la capacità di governare un paese. Quelli che alla fine ne sono usciti bene sono proprio loro.

Come austriaco e come comunista, quanto è preoccupato dai richiami di Herbert Kikl all’eredità nazista?
Le persone al vertice cambiano, ma il partito resta sempre lo stesso. I riferimenti al nazionalsocialismo, che servono a fare appello a questo ambiente, fanno parte dell’Fpoe tanto quanto la xenofobia e il populismo.

Il presidente Van der Bellen ha assicurato che non affiderà l’incarico agli estremisti. Sarà così?
Se Kickl riuscirà a riunire dietro di sé una maggioranza parlamentare valida, sarà praticamente impossibile per il presidente federale rifiutarsi di farlo giurare al governo e d’altronde tra gli industriali ci sono voci forti a favore di una coalizione con i popolari

È la prima volta nell’Ue che un partito di estrema destra arriva in testa, però l’onda nera attraversa anche Francia e Germania, oltre evidentemente l’Italia. Cosa significa tutto questo per l’Europa?
L’ascesa della destra radicale è espressione di una profonda crisi della politica. Il neoliberismo non è riuscito a mantenere la sua promessa centrale di garantire prosperità e sicurezza individuale a coloro che si impegnano. Il divario economico è cresciuto, la classe media si è precarizzata.
Non sorprende che le persone si stiano allontanando dai partiti che si sono identificati con le politiche neoliberiste. Ora che le società europee devono reinventarsi di fronte alla crisi ecologica e ai cambiamenti nella politica globale, i partiti tradizionali si stanno dimostrando incapaci di trovare vie d’uscita socialmente giuste e pacifiche da queste crisi. Gli estremisti di destra riempiono il vuoto con la promessa che l’Europa potrà proteggersi dalle crisi mondiali trasformandosi in una fortezza e costruendo muri contro tutto ciò che è estraneo: una promessa irrealistica ma seducente.

Crede che il von der Leyen II sarà ben equipaggiato per contrastare l’ascesa degli estremisti?
Questa è la Commissione più a destra nella storia dell’Ue. Quel che è peggio, introduce un ritorno alle politiche di austerità nei prossimi anni. In combinazione con i programmi di armamento adottati dalla Nato, ciò costringerà gli stati a fare tagli ai servizi pubblici, all’edilizia sociale e allo stato sociale: tutta acqua al mulino della destra radicale.

Quale risposta deve dare la sinistra europea?
Prima di tutto, non accettare compromessi con l’estrema destra e il suo linguaggio di odio. In Austria, insieme alla società civile, manifesteremo contro la formazione di un governo guidato dall’Fpoe, anche se la reale alternativa politica di una coalizione dei partiti tradizionali è tutt’altro che brillante. È necessario che la sinistra rafforzi quei movimenti e sindacati che si battono per politiche fondamentalmente diverse, come la difesa e l’espansione dei servizi pubblici, gli alloggi a prezzi accessibili, la parità di diritti per le donne, per una transizione ecologica socialmente giusta La battaglia contro la destra radicale sarà vinta o persa nel campo delle politiche sociali.

Commenta (0 Commenti)

(Domenico Quirico – lastampa.it) –

Il giornalista Domenico Quirico ospite alla rassegna ...

 

 

 

 

 

Ricapitoliamo. Dopo Nasrallah, dopo lo sceicco Yassin, dopo capi sottocapi vicecapi, responsabili dei missili, delle squadre d’assalto, delle
autobombe, dopo gli ingegneri del terrore e gli artigiani delle tecnofilie jihadiste, dopo i numeri due tre quattro delle gerarchie terroriste e i loro eredi potenziali, i parenti i cugini le
famiglie, i vicini di casa ignari della colpa della prossimità terrorista – gli “incidenti” insomma -, dopo la decapitazione minuziosa dei consigli di amministrazione di Hezbollah
di Hamas della Jihad islamica, dopo uccidi per primo, il faccia a faccia, taglia le teste del serpente, dopo il Male come astuzia risolutiva del Bene, dopo le bombe da mille chili e le
micro batterie assassine dei cercapersone, dopo i droni vendicatori: il delitto perfetto?

L’operazione omicidi mirati, trentadue anni dopo la eliminazione del primo capo di Hezbollah, Al Musawi, da silenziosa, segreta, negata si è fatta frenetica, trionfante,
insofferente al criminale dettaglio dell’effetto collaterale, ubiquitaria, sacrosanta, paradossalmente “legale” anche agli occhi di molti che, in altri luoghi, gridano al vilipendio
del diritto internazionale. Si vogliono saldare tutti i conti in una volta sola prima che cadano in prescrizione. Ebbene: insieme alla rappresaglia di Gaza, al tappeto di bombe
steso sul Libano, alle migliaia di eliminazioni di illustri per colpe e di ignoti per innocenza, alla geografia punitiva senza limiti, la caccia a vertici nemici ha restituito ad Israele la
sicurezza perduta dopo il raid omicida di Hamas, ha ripulito l’eterno incubo del fronte Nord presidiato dai pestiferi ascari libanesi dell’Iran? Il sole nel Vicino Oriente risplende in modo
diverso da prima? Ci sono mutazioni palpabili al terribile tran tran dei settantacinque ultimi anni? Niente affatto.

Ora non è rimasto più nessuno di importante da eliminare. No, è vero, manca Sinwar, il capo di Hamas, ma verrà il suo turno, forse è un’ombra perché è già
morto. Chi resta da uccidere dunque? Si può passare a Khamenei, ai vertici iraniani, ayatollah di bigotto stile khomeinista, Guardiani della rivoluzione che forse tra un business
e l’altro ancora immaginano la distruzione dello scandalo sionista, gli scienziati del sogno atomico già peraltro largamente ridotti di numero in passato. Le liste si farebbero di nuovo

lunghe al Mossad. O si spera che siano loro a gettarsi, resi folli dalla rabbia per i colpi subiti, nel rogo purificatore della guerra totale nel Vicino Oriente. Resa dei conti. Fine.

Ma quello che va in pezzi intanto è Israele. Israele, non Netanyahu, si sta suicidando. Proprio mentre celebra il trionfo esibito della sua forza e raccoglie sciagurati
(e interessati) ditirambi sulla rinnovata efficienza dei suoi Servizi, smarrisce il Senso di sé.
Netanyahu va al Palazzo di Vetro e maledice le Nazioni Unite come un covo di antisemitismo. Contemporaneamente scatena ciò che l’antisemitismo è destinato a
moltiplicare, a fornire nuovi argomenti alla volontaria confusione tra Israele e l’ebreo. Ho udito ragazzi in Occidente, studenti informati, dire con orgoglio che dà i brividi di essere
con Hamas, che il sette ottobre è stato atto legittimo. A Gerusalemme dovrebbero riflettere. È un prezzo troppo alto da pagare soprattutto senza aver raggiunto alcuna
certezza di vittoria.

Il servizio omicidi del governo israeliano ormai va per le spicce, niente veleno, pistole con il silenziatore, agguati in motocicletta all’uscita di casa, perfino cioccolatini al cianuro per i
terroristi golosi, si è usato in passato anche questo. Fase superata, erano i tempi dei modesti killer del terrorismo sanguinoso ma spiccio, gente che si illudeva ancora di
sfuggire nell’anonimato di una vita qualunque alla caccia senza quartiere dei vendicatori. Ora si usano per un singolo bersaglio eccellente bombe che scuotono la
terra come se fosse in preda alle doglie del parto, si azzerano condomini diventati loro malgrado complici, vanno in polvere quartieri.

Israele commette un antico errore: credere che la vittoria sia sempre un passo più avanti, che consista nel rendere la guerra ancora più grande. Hamas non basta
Hezbollah non basta, bisogna costringere l’Iran a scendere in campo non lasciandogli altra possibilità se non vuole ammettere la inconsistenza della sua propaganda. Mettiamo il dito
sull’atlante. È Teheran che si vuole bombardare. La soluzione è sempre un passo più in là della ultima eliminazione clamorosa, del bombardamento senza limiti.

Da un anno Israele lascia dietro di sé rovine mineralizzate, spazi morti. È questo tempo dell’inferno l’avvenire? O invece il raddoppio della dannazione, il moltiplicatore di

vendicatori, di irriducibili, di aspiranti martiri, di nuovi Nasrallah? Di guerriglie sparse proteiformi inafferrabili.

Coloro che vivono sotto le tirannidi non hanno spesso possibilità di dire no agli errori di chi ne è padrone, di chiedere che si cambi direzione e si rimedi allo sbaglio finché si è in
tempo. Ma chi vive nelle democrazie, e Israele dice con orgoglio di esser l’unica in quello spicchio di mondo, ha il diritto e i mezzi di resistere e di rifiutarsi. Ma da
quando il governo ha scatenato la rappresaglia totale, la caccia all’uomo, sembra che la protesta si fermi alla sorte degli ostaggi che in questo furore sono diventati anche loro
effetti collaterali.

Israele è nato sulla sofferenza, quella di milioni di vittime e di sopravvissuti al Grande Delitto del Novecento. Per gli ebrei il dolore è un insulto all’uomo. Se diventa
indifferente alla sofferenza perde la sua ragion d’essere, si smarrisce nel vuoto. È destinato a morire lentamente, per sé e di sé, più che per la minaccia dei suoi sempre più
numerosi nemici.

Accade nella Storia che Stati si autodistruggono per arroganza. I popoli possono morire, disperdersi sotto i nostri occhi, sprofondare nel silenzio del suo stesso abisso. Ogni guerra
deve esser valutata non solo sulla base dei fini perseguiti, metodo difettoso, ma anche sul carattere dei mezzi impiegati. È quello che distingue dal fatale ingranaggio in cui il peggio
si nutre del peggio, e il terrore del terrore.

Commenta (0 Commenti)

Medio Oriente A Baalbek nei primi anni ’80 arrivarono i pasdaran. Il futuro capo di Hezbollah cresce in questo mondo dove nella moschea sotto il tempio di Giove lo sceicco Al Tufeili catturava folle di giovani con le parole d’ordine di Khomeini. Per molti ha rappresentato la parabola ascendente, demografica, politica e sociale, degli sciiti libanesi

Membri di Hezbollah in parata ai funerali delle vittime degli walkie-talkie esplosivi Ap/Bilal Hussein Membri di Hezbollah in parata ai funerali delle vittime degli walkie-talkie esplosivi – Ap/Bilal Hussein

L’uccisione di Hassan Nasrallah, fortemente legato alla Guida Suprema iraniana Alì Khamenei, è un colpo durissimo a Hezbollah e a Teheran, suo principale sponsor e nemico di Israele: lo spettro di una guerra allargata, evocata da Netanyahu in ogni occasione, si fa più concreto.

E anche chi non la vorrebbe (almeno a parole) si deve preparare, a cominciare dagli Stati uniti e dai loro alleati. In Medio Oriente e in Libano, dove si attende un’ondata popolare di rabbia, non ci sono spettatori neutrali, forse non lo sono neppure i caschi blu dell’Onu sul confine libanese (tra cui un migliaio di italiani).

ANCHE Hassan Nasrallah non è sfuggito al tragico destino della regione: nel 1997 suo figlio Hadi fu ucciso mentre combatteva contro Israele nel sud del Libano, il corpo venne restituito anni dopo in uno scambio di prigionieri.

Ora è stato eliminato dagli israeliani, come era avvenuto per il precedente leader di Hezbollah, Abbas Alì Mussawi, fulminato nel 1992 con un missile da un attacco aereo nel suo rifugio, così come mi raccontò all’epoca suo fratello.

In Medio Oriente la successione a un leader non è mai assicurata, neppure nelle monarchie. Per questo Hezbollah, che è un movimento di guerriglia e politico, con un profondo radicamento sociale tra gli sciiti libanesi e rapporti intensi con la Siria, l’Iraq e lo Yemen degli Houthi, ha sempre agito, pur avendo un capo indiscusso, con una leadership «parallela», meno nota ai media (ma forse non alle intelligence regionali) e pronta a subentrare in ogni frangente.

Certo il movimento – presentato spesso come «stato nello stato» – si è fortemente indebolito e Israele ha dimostrato più volte di poterne individuare una riunione e ucciderne i partecipanti, senza contare che l’attacco ai cercapersone ha compromesso le stesse comunicazioni interne all’organizzazione.

Adesso più che mai i quadri di Hezbollah si sentono nel mirino e cercano di individuare falle della sicurezza e infiltrati. Quasi sempre in Medio Oriente quando viene colpito un leader c’è intorno a lui qualcuno che lo tradisce: Nasrallah lo sapeva e ruotava spesso le gerarchie non militari del movimento.

Intervistarlo era impresa quasi impossibile. Pochi occidentali lo hanno incontrato ma si parla di più di un ventennio fa. Nel 2002 diede un’intervista al New York Times: giornalisti e fotografi furono bendati e portati in giro per Beirut per confondere il loro senso dell’orientamento.

COMANDANTE militare di Hezbollah, dopo la morte di Mussawi Nasrallah ha preso il comando del movimento sciita e filo-iraniano in cui era entrato poco più che ventenne negli anni Ottanta. Di umili origini, figlio di piccoli commercianti, Nasrallah rappresentava la parabola ascendente, demografica, politica e sociale, degli sciiti del Libano.

Da dove viene questo mondo? Sale alla ribalta della storia nel XVIII secolo quando nella regione montuosa del Jabal Amil, angolo remoto della Siria ottomana, fu inviata una spedizione guidata da Ahmad Pasha, detto al-Jazzar, il macellaio, che fece terra bruciata: i turchi sunniti giudicavano gli sciiti degli eretici e la repressione fu così brutale che per oltre un secolo il sud ripiombò nell’oscurità.

Fu l’emigrazione a cambiare il volto del Jabal Amil. Negli anni Cinquanta gli sciiti cominciarono ad affollare la periferia di Beirut, chiamata quasi subito la «cintura della povertà» ma dove guadagnavano salari cinque volte superiori a quelli percepiti nelle campagne dei latifondisti. Con le rimesse importarono nel sud le prime idee di riscatto propagandate dal partito comunista, dal Baath, dai socialisti, dal movimento nazionalista.

Il Baath, fondato dagli intellettuali di Damasco, si era impiantato a Bint Jebeil diventando tra l’altro una delle forze in campo nel conflitto con Israele del 1948, quando dal confine arrivò la prima ondata di 400mila profughi palestinesi. Ora in Libano i profughi, in gran parte siriani, sono oltre un milione mezzo su cinque milioni di abitanti

Fu in questo universo in rapido cambiamento sociale e demografico che arrivò Musa Sadr, l’Imam destinato a mutare il corso della storia. Tra il 1956 e il ’75 il numero degli sciiti triplicò da 250mila a 750mila, erano il 30% della popolazione e occupavano solo il 3% dei posti pubblici.

Ma il loro numero era già salito a un milione al tempo della seconda invasione israeliana del 1982. Le perdite furono ben più pesanti rispetto alla prima nel ‘78: migliaia di morti e le deboli infrastrutture del sud disintegrate dall’intervento militare, come poi avvenne ancora con la guerra del 2006.

MUSA SADR – il cui ritratto a Beirut compare quasi sempre abbinato a quello di Nasrallah – era già scomparso nella Libia di Gheddafi quando la sua eredità politica, più riformista che radicale, fu monopolizzata dagli Hezbollah, ispirati e sostenuti dalla rivoluzione khomeinista.

Fu a Baalbek, l’antica Heliopolis, che nei primi anni ’80 arrivarono, con l’appoggio dei siriani, i Pasdaran, le guardie della rivoluzione iraniana. Nasrallah cresce e fa la sua militanza in questo mondo dove nella moschea sotto il tempio di Giove lo sceicco Al Tufeili catturava folle di giovani sciiti con le parole d’ordine di Khomeini.

L’esercito degli Hezbollah è nato su questo altopiano, circondato da bastioni aspri, che a est si proietta verso la Siria e la pianura di Homs: Nasrallah ne era il capo da oltre trent’anni e lo ha guidato contro Israele ma anche in Siria per sostenere Bashar al Assad, in Iraq contro l’Isis a fianco delle milizie sciite e anche in Yemen.

Per Hezbollah la scomparsa di Nasrallah è un colpo fatale, l’Iran degli ayatollah accusa un altro fallimento ma la catena di comando non si è frantumata e si prepara a una nuova fase della guerra

Commenta (0 Commenti)

Netanyahu dice all’Onu di volere la pace. Poi va in albergo e ordina di bombardare Beirut. Mira al leader di Hezbollah, abbatte sei palazzi con le bombe anti-bunker. È una strage che infiamma il Medio oriente. La guerra totale è a un passo, oggi sarà un giorno da incubo

Intanto all'Onu Se alla squadra della luce è tutto possibile, chiunque muova dissenso (l’Onu, la Corte penale, i manifestanti nelle piazze) è oscurità. Intanto, però, in piena Beirut l’esercito israeliano sbriciolava intere palazzine

Netanyahu, la civiltà del bombardiere Carri armati e soldati israeliani al confine con il Libano Baz Ratner/Ap

Il discorso sulla pace che Benyamin Netanyahu ha letto ieri alle Nazioni unite non è terminato quando è sceso dallo scranno più alto del pianeta. Ma un’ora dopo, quando una serie di esplosioni senza precedenti ha ridotto in macerie sei palazzi a Beirut città, seppellendo un numero imprecisato di persone e terrorizzando un popolo intero. Poco prima che Netanyahu salisse su quello scranno all’Onu, a Berlino il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella diceva che «la pace non significa sottomissione e abbandono dei principi di dignità di ogni Stato e del diritto internazionale».

Il riferimento era alla guerra all’Ucraina, ma quella definizione è – o dovrebbe essere – universale. Eppure c’è pace e pace. C’è una pace che può sorgere solo dalla giustizia e dall’eguaglianza e c’è una pace intesa come mera assenza di conflitto.

In questa seconda «pace» il Medio Oriente vive da tempo, dentro i vari regimi che lo costellano, silenziatori seriali di dissenso, dove il conflitto sociale e politico necessario in un sistema democratico è soffocato. I palestinesi in una simile pace vivono impantanati da 74 anni: è la condizione per cui un’occupazione militare e un sistema di apartheid possono prosperare senza troppi scossoni se li si continua a gestire, facendoli assimilare ai tuoi, trasformati in secondini, e agli altri, ridotti a prigionieri. Fino all’esplosione.

È la pace di cui ieri, di fronte a un’Assemblea generale fantasma, ha parlato il primo ministro israeliano mentre la sua aviazione si preparava a cancellare un quartiere. Un ribaltamento concettuale, quello pratico lo vediamo ormai da un anno eppure non ha trovato spazio nel discorso fiume di Netanyahu. La pace? Si fa con la guerra, perché la pace che si va cercando è

Commenta (0 Commenti)

La lettera A Terra Madre consegna il suo pensiero in difesa della biodiversità. E agli Stati: «Necessari onorevoli compromessi»

Un’ecologia integrale verso la pace, il monito del Papa Lussemburgo, l'arrivo del Papa – Ciro Fusco/Ansa

Esiste un’agricoltura «malata», «strumentalizzata dalla logica del profitto» che la trasforma in un mezzo per «inquinare la terra, sfruttare i lavoratori e impoverire la biodiversità». È il cuore di una lettera privata che Francesco ha mandato lo scorso 20 settembre ai partecipanti dell’edizione 2024 di Terra Madre Salone del Gusto e che ieri, all’apertura dell’evento, l’attrice Lella Costa ha letto in pubblico. Dall’enciclica Laudato Si’ – lettera «verde» del pontificato uscita nel 2015 – a oggi la visione del Papa è chiara: crisi climatica e crisi sociale viaggiano di pari passo. Nel mezzo troppi approfittatori, chi usa l’ambiente e le sue ricchezze per fare soldi. Per questo occorre agire, attraverso una Weltanschauung che porti a «difendere la biodiversità, interrompere la deforestazione, eliminare gli sprechi, e passare velocemente a risorse rinnovabili». Il che significa anche «perseguire la strada della pace, vera urgenza di questo periodo storico».

IL TESTO del Papa, di fatto un documento programmatico con un risvolto politico ben definito, ha avuto una eco ieri anche in Lussemburgo, prima tappa di un viaggio di tre giorni del vescovo di Roma nel cuore dell’Europa. Davanti alle autorità riunite al Cercle Cité, Francesco ha insistito – è un leitmotiv che a conti fatti tiene assieme ogni conflitto in corso, Gaza e Ucraina compresi – sulla necessità di fermare le guerre cercando «onorevoli compromessi» altrimenti non potranno esserci che «inutili stragi». È sempre una strada terza rispetto alle polarizzazioni, quella che chiede di percorrere Bergoglio, «una visione sistemica che pochi politici oggi hanno», l’ha definita il fondatore di Slow Food, Carlo Petrini.

COSÌ IL PAPA a Terra Madre: appurati gli effetti disastrosi della crisi climatica, ossia «della siccità, della desertificazione, di fenomeni atmosferici sempre più violenti, della scarsità di risorse, ma anche dei conflitti e quindi delle migrazioni», è necessario tornare ai «limiti imposti dalla naturale lentezza dell’evoluzione biologica». E ancora: esiste una «biodiversità culturale che oggi va portata in salvo».

FU NEL 2007 che l’allora cardinale Bergoglio, da arcivescovo di Buenos Aires, comprese fino in fondo l’urgenza della salvaguardia del clima e dell’ambiente. Partecipava come relatore del documento finale a una conferenza dell’Episcopato Latinoamericano in Brasile, ad Aparecida. Arrivarono proposte sull’Amazzonia, dedicate a combattere la deforestazione e a salvaguardarne l’ambiente. Lui, tuttavia, le mal sopportava perché non comprendeva cosa c’entrasse l’Amazzonia con l’evangelizzazione. Poi è avvenuta quella che lui stesso ha definito una «conversione», ovvero la consapevolezza, come ha detto nel testo scritto per Terra Madre, che è proprio attraverso la difesa dell’ambiente che «passa molto della sorte di questo pianeta». E più in particolare, passa molto anche della sorte dell’attuale sistema alimentare, «incardinato sul profitto», ha detto non a caso ieri Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia. È tempo di «abbandonare questo approccio, per abbracciarne uno finalmente incardinato sulla vita», ha continuato.

BERGOGLIO ha ricordato ancora il Brasile e la sua foresta, «cuore biologico del pianeta, in cui vivono 33 milioni di persone, di cui circa 2,5 milioni di indigeni». Questi ultimi, ha scritto in uno dei passaggi più forti del testo, sono spesso «costretti a subire le decisioni di chi basa il suo unico credo sulla tecnocrazia e sul denaro». A fronte di ciò è necessario «intraprendere tutti, nessuno escluso, un percorso comune che mira verso un’ecologia integrale e una conversione ecologica secondo cui tutto è intimamente connesso». Perché il pianeta, «tutto quello che ci circonda, è un dono e noi tutti abbiamo il dovere di rispettarlo e preservarlo». Tutti, è la sostanza del messaggio del Papa, possono assumere il ruolo di «custodi della casa comune», «stimoli determinanti nel costruire un mondo migliore».

LA STRADA TRACCIATA da Francesco non piace a tutti. Per le sue parole in difesa dell’ambiente e contro le lobby che sfruttano il territorio in nome del profitto si è guadagnato l’appellativo, nato negli ambienti conservatori statunitensi, di «Papa comunista». Lui, tuttavia, non si sente tale. La sua battaglia è semplicemente in difesa degli ultimi e contro coloro che nel nome del «dio denaro» sono disposti a tutto

 

Commenta (0 Commenti)