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Governo. Non c’è solidarietà umana né lealtà di coalizione dietro la sguaiata difesa che Meloni fa di Salvini, accusato di un reato assai grave, compiuto e rivendicato sotto gli occhi dell’opinione […]

Uomo a mare

Non c’è solidarietà umana né lealtà di coalizione dietro la sguaiata difesa che Meloni fa di Salvini, accusato di un reato assai grave, compiuto e rivendicato sotto gli occhi dell’opinione pubblica quando il capo della Lega era in una stanza a palazzo Chigi e l’attuale presidente del Consiglio all’opposizione. Ogni giorno e in ogni occasione possibile, che si tratti di nomine o scelte politiche importanti, i due si danno infatti battaglia in una perenne campagna elettorale all’interno dello stesso bacino di consenso.

Sono altre le ragioni che spingono la presidente del Consiglio a stracciare ancora una volta quella veste istituzionale che proprio non le si adatta. Innanzitutto la condivisione che i migranti vanno intesi prima di tutto come carne da propaganda, una minaccia che non esiste sul piano della realtà ma che funziona benissimo, ha sempre funzionato, in campagna elettorale. Poi c’è il disprezzo per qualsiasi cosa possa anche solo alludere alla separazione dei poteri.

Nel momento in cui la premier disegna un’architettura istituzionale centrata sul potere assoluto di un’eletta dal popolo è del tutto coerente che ribadisca come nessun controllo di legalità potrà mai essere tollerato. E infine c’è la conferma dell’unica “politica” che questa destra è in grado di immaginare di fronte a un fenomeno come quello delle migrazioni che nessuna mitragliata di decreti sempre meno costituzionali è in grado di affrontare seriamente.

La “politica” della paura che se vale per gli elettori in patria deve valere anche per chi si mette in viaggio per sopravvivere: meglio che non ci tentiate.

La presidente del Consiglio che qualche anno fa suggeriva di sparare dall’alto sui barconi, il cui ministro dell’interno non si è fatto scrupolo di dare la colpa delle morti nelle traversate agli stessi morti, vede chiaramente nella ferocia di Salvini che ai tempi del primo governo Conte lasciava i migranti in una prolungata condizione di sofferenza la ragionevole anticipazione delle sue deportazioni in Albania. Meglio che non ci tentiate.

Crudele, ma anche inefficace. Così come non basta un video fuori da ogni grammatica istituzionale e dai toni allucinati ad allontanare il rischio di una condanna per il vice presidente del Consiglio. Che è tutt’altro da escludere e che sarebbe un’ulteriore problema per il governo. Qui il discorso deve però allargarsi. Perché se mettiamo in fila i nomi che raccontano tutti i guai della destra al potere, Salvini è solo l’ultimo.

Prima ci sono quelli di Sangiuliano, Lollobrigida, Delmastro, Toti, Santanchè e sicuramente dimentichiamo qualcuno. Nessuno di questi nomi parla di un’iniziativa dell’opposizione per mettere in difficoltà l’altra parte. La destra si fa male da sola, spesso semplicemente essendo se stessa. Anche perché il centrosinistra non tocca palla, ancora in attesa di definirsi dopo il suicidio elettorale, dal quale però sono passati ormai due anni. Tanto da non escludere in alcune sue componenti, dopo la riapparizione di Draghi, nemmeno la speranza di un nuovo colpo di palazzo con un non nuovo protagonista.

Nel frattempo l’opposizione si limita ad assistere allo spettacolo dei disastri altrui. Spettacolo orrendo, ma che può persino peggiorare e non è detto duri poco

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Campo largo. Non solo Renzi. A dividere il "nucleo ristretto" della coalizione futuribile futuribile ci sono già temi come l’Ucraina e le tasse. Ci sono punti di condivisione importanti, ma non possono essere solo evocati.

Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli e Riccardo Magi brindano alla festa di Avs foto Ansa Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli e Riccardo Magi brindano alla festa di Avs - foto Ansa

La serata dei leader del centrosinistra al parco Nomentano, con tanto di brindisi a pinte di birra, lascia aperti diversi interrogativi. Il dato positivo è che sembrano tutti consapevoli che non si può neppure ipotizzare un replay del 2022, quando le divisioni tra i progressisti aprirono le porte di palazzo Chigi a Giorgia Meloni; e che, in caso di crisi del governo di destra-centro, nessuno vorrà prestarsi a nuovi governi tecnici o grosse coalizioni con pezzi di destra (cosa che vale in particolare per il Pd che è il «solito sospetto» quando si tratta di prolungare l’agonia di legislature ormai finite). Ciò premesso, va detto che anche il nucleo più stretto della futuribile coalizione, quello composto da Pd, 5S, Avs e +Europa, e dunque tenendo fuori i polemici Renzi e Calenda, presenta ad oggi un tasso di coesione del tutto insufficiente per potersi immaginare come maggioranza di governo. Tradotto: rischierebbe di non riuscire a governare.

LA DISCUSSIONE tra Conte e Riccardo Magi sull’Ucraina, da cui la segretaria dem non casualmente si è tenuta a distanza, segnala uno dei principali nodi irrisolti: cosa farebbe un governo Schlein sull’Ucraina? Continuerebbe a fornire armi a Kiev, anche nel quadro di una escalation su territorio russo che appare sempre più vicina per volontà di Usa e Regno Unito? E con quali voti in Parlamento, visto il no di M5S e Avs? Oppure, deciderebbe di porre l’Italia in una posizione più critica all’interno della Nato? E con quali conseguenze dentro il Pd? Non è un tema marginale, ma richiede invece un tentativo di soluzione ben prima di una ipotetica campagna elettorale. Sarebbe assai rischioso cullarsi nel sogno che di qui al 2027 la guerra si concluda.

Certo, ci sono i punti in comune, dal salario minimo (che sarebbe verosimilmente uno dei primi provvedimenti del nuovo esecutivo) all’aumento della spesa sanitaria, dal ripristino del reddito di cittadinanza a nuove norme sul lavoro simili a quelle approvate in Spagna per limitare i contratti a termine e il precariato. E poi lo stop a premierato e autonomia differenziata, l’aumento del reddito per gli insegnanti della scuola pubblica, un più deciso investimento sulle energie rinnovabili, una riforma della Rai, nuove norme sulla cittadinanza (ius soli o ius scholae) e più diritti per le famiglie lgbtqia+.

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SONO PUNTI di condivisione importanti, che non vanno sottovalutati. Ma non possono essere semplicemente evocati. Se si vuole provare a raddrizzare la sanità pubblica servono ben più di 4 miliardi l’anno. E così per portare gli stipendi della scuola nella fascia alta della graduatoria europea. Dove si prendono questi soldi? Con quale riforma del fisco? Fratoianni propone da tempo una patrimoniale sulle grandi ricchezze, Bonelli insiste sugli extraprofitti di banche e società energetiche, ma non c’è mai stata una discussione seria dentro la coalizione su come implementare queste proposte. O magari su come trovarne altre, al netto della lotta all’evasione sempre evocata ma mai dirimente quando ci sono da scrivere le leggi di bilancio.

NEI GIORNI SCORSI le opposizioni hanno evocato una sorta di «contro manovra» da presentare in autunno, più realisticamente si parla di emendamenti comuni sulla sanità. Ma un’opposizione che si prepara a governare dovrebbe spiegare anche dove investirebbe gli scarsi denari che ci sono (e con la scure del nuovo patto di stabilità) e come ne troverebbe altri. Andrebbe a bussare alle porte di chi ne ha di più?

IL RISCHIO, ALTRIMENTI, è che un ipotetico governo Schlein (o Conte, qui il nome del leader poco importa) faticherebbe anche solo a gestire l’ordinaria amministrazione.
Il problema, in questa embrionale coalizione, non è dunque accapigliarsi sul possibile ingresso di Matteo Renzi (che un programma radicale su economia e lavoro potrebbe indurre a stare alla larga) ma come costruire fin da ora una serie di proposte realizzabili e credibili per dare il segnale che un’Italia diversa da quella di Giorgia Meloni è possibile.

Per ora, nonostante la birra sotto la pioggia di Roma, questo lavoro appare molto in ritardo. E il ritorno in campo di Draghi, con le sue agende mai dimenticate dal Pd, rischia di complicarlo ulteriormente. Difficile infatti immaginare di poter sostenere ancora l’Ucraina con nuovi invii di armi e contemporaneamente spingere l’Ue a massicci investimenti su welfare e transizione ecologica. Se c’è la guerra, dice Draghi, e dura da due anni e mezzo senza che si intraveda la fine, devono aumentare anche le spese militari. Un’altra contraddizione che non si può sciogliere con gli slogan

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Politica. Da un lato, è vero: per battere la destra occorrono tutti, ma proprio tutti, ivi compresi quel 4-5% di voti attribuiti all’area centrista, ma anche, perché no, quel 2-3% solitamente […]

Elly Schlein con Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni durante una manifestazione a Roma foto di Angelo Carconi/Ansa Elly Schlein con Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni durante una manifestazione a Roma - foto di Angelo Carconi/Ansa

Da un lato, è vero: per battere la destra occorrono tutti, ma proprio tutti, ivi compresi quel 4-5% di voti attribuiti all’area centrista, ma anche, perché no, quel 2-3% solitamente ottenuto dai partiti della sinistra radicale. Dall’altro lato, è altrettanto evidente: è impossibile che questo intero arco di forze possa concordare un programma politico comune. E allora, se il dibattito politico continua ad impantanarsi sul tema «chi sta con chi», non se ne esce: bisogna cambiare approccio, bisogna fare – se è lecito scomodare Vittorio Foa – una «mossa del cavallo».

Il modo corrente di impostare la questione rivela un vizio di fondo: molti, anche a sinistra, continuano a ragionare restando prigionieri della cosiddetta cultura del maggioritario. Secondo questa logica, accordi elettorali e accordi politici devono necessariamente avere lo stesso perimetro. Ma non è scritto da nessuna parte che debba essere così. Accordi elettorali e accordi politici sono due sfere ben distinte: un accordo politico, certo, si traduce in un accordo elettorale; ma non è vero l’inverso: si possono prevedere aree di accordo programmatico e aree di dissenso e differenza: ma questo non dovrebbe impedire una tattica e una strategia elettorale unitaria e cooperativa.

Questo, sul piano dei principi: ma, concretamente, come fare? In genere, si rimanda ad un futuro indefinito la soluzione dei dettagli tecnici: ma questi non sono mai solo tali. È bene cominciare a parlarne subito. Poiché è probabile che il sistema elettorale non cambi (il governo si è incartato nel rebus di una legge adatta all’elezione diretta del premier; il Pd non sembra aver sciolto le sue incertezze sul modello da proporre), allora bisognerà agire sfruttando strategicamente alcune caratteristiche del Rosatellum. Ricapitoliamo: questo sistema prevede il 37% dei seggi eletti attraverso sistemi uninominali maggioritari e il 61% su base proporzionale, mediante liste bloccate che convergono su una candidatura uninominale (con soglia al 3%). Il voto degli elettori è molto vincolato: nessuna possibilità di voto disgiunto, chi vota un simbolo vota il candidato collegato, e persino i voti di chi indica solo il candidato sono redistribuiti tra le liste. Ma va notato un aspetto: i dati delle precedenti elezioni mostrano come siano molto pochi gli elettori che scelgono solo il candidato uninominale, moltissimi invece quelli che votano solo per il simbolo del partito. Di fatto, la gran parte degli elettori segue una logica di comportamento tipica delle competizioni proporzionali. E i voti dei candidati uninominali sono, in larghissima misura, la somma dei voti alle liste collegate. E allora, l’obiettivo è semplice: si tratta di neutralizzare gli effetti distorsivi della quota maggioritaria e di «proporzionalizzare» quanto più possibile gli esiti del voto.

Questo è possibile se si costruisce una coalizione elettorale che impedisca un’asimmetria degli schieramenti e la conseguente sovra-rappresentazione della destra, frutto solo della divisione dei suoi avversari (scenario 2022).

In che modo? Non c’è bisogno di inventare nulla, ci si può ispirare ad alcuni aspetti della strategia elettorale dell’Ulivo, nel lontano 1994 (documentata anche da alcune ricerche). I passaggi tecnici (ma molto politici) sono i seguenti. Si tratta di: a) condividere una valutazione sul peso percentuale di ogni possibile alleato; b) classificare preventivamente i collegi uninominali sulla base della loro qualità competitiva (sicuri, probabili, incerti, difficili, impossibili); c) operare una distribuzione ponderata delle candidature, sulla base del peso di ciascuna forza e di un’equa ripartizione delle varie tipologie di collegi; d) riservare alla coalizione un certo numero di candidature indipendenti in cui possano riconoscersi più forze.

Si potrebbe configurare, quindi, uno scenario che è possibile descrivere con l’immagine di due cerchi concentrici: il primo è quello del nucleo centrale della coalizione, che condivide un programma comune; il secondo è quello costruito da altre forze che, con una propria autonomia, concordano tuttavia una strategia elettorale comune (contro la destra, ma anche nel loro stesso interesse: facendo parte di un cartello elettorale molto ampio si può disinnescare la tagliola del voto utile e può essere più facile superare la soglia del 3%; ci riflettano, in particolare, le forze della sinistra radicale, se non vogliono andare incontro all’ennesima tornata di delusione e frustrazione e magari vogliano provare a ottenere finalmente una presenza in parlamento).

Naturalmente, un’obiezione sarà subito sollevata: è un cartello elettorale, appunto, non una proposta di governo. Si può replicare con vari argomenti. Il primo nasce dal buon senso: certo, è un accordo elettorale: e allora? Bisogna forse impiccarsi alle divisioni e spianare la via ad un’altra iper-maggioranza della destra? Già nel 2022 l’autolesionismo è stato palese: bisogna ripetere lo stesso copione? Sarebbe folle. Ma si può dire molto di più: il nucleo centrale (e quanto più ampio possibile) dell’alleanza presenta un programma comune di governo, e dipende dagli elettori se potrà avere una maggioranza autosufficiente. In ogni caso, dopo il voto si potrà aprire una normale dialettica parlamentare, sulla base dei rapporti di forza emersi dalle urne. Forse potrebbe essere un modo per cominciare ad uscire da questo nostro, oramai insostenibile, sistema pseudo-maggioritario, sempre più asfissiante

 

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Il 21 Marcia ad Assisi. Fino a qualche tempo fa ci dicevano che presto avrebbero vinto. Ora ci dicono, insieme a Draghi, che dobbiamo sviluppare la produzione di armi e indebitarci per fronteggiare una guerra infinita

 

È una questione di sopravvivenza. Se vogliamo fermare la folle corsa verso la terza guerra mondiale dobbiamo rimettere la pace al primo posto. Non è solo una necessità morale. È una decisione essenziale per la sopravvivenza. Nostra e dei nostri figli, dell’Europa e dell’umanità intera.

Molti governanti, che hanno tra le mani le nostre vite e quella del pianeta, non sanno più cos’è la pace e parlano di guerra come se fosse una partita di calcetto. Intanto il pericolo cresce e si avvicina inesorabilmente. Bomba su bomba, strage dopo strage, massacro dopo massacro. Nel 2014 si combatteva nel Donbass. Oggi i missili esplodono a Kiev e a Mosca. Da un anno assistiamo alla carneficina di Gaza e ora temiamo il peggio in Cisgiordania e nel resto del Medio Oriente. È un’escalation continua. Di questo passo, quello che vediamo malvolentieri in tv domani saremo costretti a viverlo nelle nostre città.

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Prima di tutto la pace

Fino a qualche tempo fa ci dicevano che presto avrebbero vinto. Ora ci dicono, insieme a Draghi, che dobbiamo sviluppare la produzione di armi e indebitarci per fronteggiare una guerra infinita. Non ci sono soldi per rimettere in piedi il nostro sistema sanitario, per assicurare una pensione dignitosa a ciascuno, per sostenere le famiglie in difficoltà, per dare un’educazione e un lavoro adeguato alle nuove generazioni, per affrontare le catastrofi climatiche e accelerare la transizione ecologica. Non ci sono soldi. Tranne che per la guerra, per le armi, per i missili, per i contractors che stanno arricchendo tutte le lobby, le mafie e i mercanti di morte. È questo che vogliamo anche nella prossima legge di bilancio?

Prima di tutto la pace non è uno slogan per anime belle ma il solo principio guida di tutte le decisioni politiche e sociali che può aiutarci a trasformare il futuro che incombe.
Mettere al primo posto la pace vuol dire mettere da parte tutti gli altri interessi, a partire da quelli che ci hanno trascinato in una guerra permanente di tutti contro tutti.
Mettere la pace sopra ogni altra cosa è responsabilità di tutti: governanti, politici, istituzioni, società civile, cittadini. Perché ciascuno di noi ha la possibilità di fare pace, ovunque, in ogni attimo della giornata.

C’è stato un tempo, dopo la fine della seconda guerra mondiale e la liberazione dal nazifascismo, in cui lo sapevano tutti. Oggi non è più così. Per questo in tanti stanno soffrendo. Per questo siamo in grande pericolo. Per questo, sabato 21 settembre, nella Giornata mondiale della Pace, alla vigilia del Summit del Futuro dell’Onu, ti invitiamo a venire ad Assisi. Solo rimettendo la pace al primo posto riusciremo a salvarci. Il giorno dopo non servirà a niente manifestare. Se lo sai anche tu, non mancare. Diciamolo insieme forte e chiaro: prima di tutto… la pace!

* Presidente della Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace

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Unicredit/Commerzbank. L’istituto con sede a Milano vorrebbe comprare il restante pacchetto di azioni che il governo di Berlino sta mettendo sul mercato per completare la privatizzazione

I grandi capitali nel risiko draghiano

 

Capitalisti italiani che mangiano capitalisti tedeschi? Può accadere anche questo nelle odierne sommosse del potere economico internazionale. Andrea Orcel, capo di Unicredit, ha reso noto che la banca italiana ha acquisito il nove percento della tedesca Commerzbank.

E non intende fermarsi: l’istituto con sede a Milano vorrebbe comprare il restante pacchetto di azioni che il governo di Berlino sta mettendo sul mercato per completare la privatizzazione.
Se l’acquisizione andrà avanti, la Bce darà il suo placet. Il direttorio di Francoforte condivide infatti l’allarme del Rapporto Draghi sulla competitività. Gelosi di preservare le rispettive proprietà nazionali, gli stati membri dell’Unione europea hanno finora ostacolato le acquisizioni transfrontaliere tra capitali, col risultato che le aziende europee sono oggi “nane” nella lotta globale con i giganti americani e cinesi.

La ricerca scientifica in effetti conferma. La centralizzazione dei capitali in sempre meno mani procede in Europa a ritmi ancora blandi. L’ottanta percento del capitale azionario è controllato in Italia e in Germania da circa il 2 percento degli azionisti. Sembrano pochi, ma in realtà sono ancora dieci volte troppi rispetto allo 0,2 percento degli Stati uniti. Per Draghi e i suoi, un cambio di passo è dunque urgente. Bisogna subito apparecchiare un nuovo banchetto di mergers europei, a partire proprio dal settore bancario.

Commerzbank sembra l’antipasto ideale. Durante la crisi dell’eurozona si rivelò una delle banche più avventuriste nel prestare alla Grecia e agli altri paesi debitori, le svalutazioni dei suoi crediti fecero più volte tremare i mercati e alla fine fu salvata solo con una partecipazione statale. Oggi la banca viene rimessa sul mercato ma vale appena 14 miliardi, troppo minuta per sopravvivere in un sistema continentale egemonizzato da UBS con 97 miliardi, BNP Paribas con 70, Santander con 65, Intesa Sanpaolo con 67. E, per l’appunto, Unicredit con 59 miliardi e tanta voglia di allargarsi.

Per realizzare il sogno della banca italiana che fa shopping in Germania c’è però da superare qualche ostacolo. Il primo scoglio è posto da vari esponenti del governo e dei lander tedeschi. La Germania vive infatti un paradosso. Pur essendo il centro indiscusso dell’economia europea, a livello di settore bancario ha evitato di favorire capitalizzazioni eccessive, privilegiando il più delle volte dimensioni regionali o poco più. Conseguenza è che oggi l’istituto tedesco più capitalizzato è Deutsche Bank con appena 27 miliardi in dote, ben sotto i principali concorrenti svizzeri, francesi, spagnoli, italiani e olandesi. Il risultato, ironico, è che adesso persino tra le file dei rigorosi liberisti tedeschi c’è chi teme il risiko draghiano delle acquisizioni europee. L’idea prevalente a Berlino è che bisogna avviare una determinata politica di fusioni tra banche tedesche, in modo da raggiungere un minimo di massa critica nazionale prima di aprirsi alle lotte sul mercato europeo.

L’altro scoglio è l’opposizione dei sindacati tedeschi, ostili a un tentativo di acquisizione estera che per la prima volta potrebbe creare esuberi in Germania piuttosto che nelle consuete periferie europee. In passato, vari esponenti del mondo sindacale tedesco avevano accusato gli omologhi degli altri paesi di frenare la modernizzazione europea con richieste di protezioni statali ritenute ormai desuete. Stavolta tocca a loro subire gli effetti della modernizzazione.

Anziché esser serviti sul solito piatto, stavolta i capitalisti italiani potranno dunque sedere al banchetto delle fusioni bancarie europee? È presto per dirlo, siamo solo al primo libar nei calici.
La cosa certa è che Marx trova di nuovo conferma: la centralizzazione dei capitali in sempre meno mani è la forza che muove il mondo. I capitalisti di tutte le nazioni in certi casi assecondano il processo e in altri lo ostacolano, spingendo a seconda delle circostanze sul libero scambio, sul protezionismo e talvolta su guerre sanguinose, se serve. Dipende solo dal posto che ogni volta si trovano a occupare: dal lato degli invitati o del pasto in tavola

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L’Unione può attendere. Da tempo incapace di esprimersi, se non per reiterate formule generiche, sulla guerra che ne sfiora i confini e su quella che da mesi insanguina la Palestina e incombe sull’intero […]

Legittimando  la destra

 

Da tempo incapace di esprimersi, se non per reiterate formule generiche, sulla guerra che ne sfiora i confini e su quella che da mesi insanguina la Palestina e incombe sull’intero Medio oriente, l’Unione europea aspetta, guarda e si preoccupa.

Aspetta le elezioni americane, aspetta l’evolversi della situazione sul terreno, aspetta gli umori dei mercati, scruta le oscillazioni dell’opinione pubblica e barcolla tra le forze contrastanti che la attraversano. Ogni governo, prima di tutto, dietro ai suoi guai secondo i suoi tempi e il proprio istinto di autoconservazione. L’Unione può attendere.

La maggioranza di centrosinistra guidata da Ursula von der Leyen, che formalmente governa l’Unione, è poco più che una messa in scena, una finzione istituzionale, un estenuante esercizio di retorica cui contribuiscono sostanzialmente i mirabolanti suggerimenti di rilancio, del tutto slegati dalle realtà politiche, dell’ex governatore della Bce. La realtà è un’altra e ben più ruvida. Alla fine di questa tormentosa estate conservatori, nazionalisti, estreme destre e postfascisti governano di fatto il Vecchio continente con l’eccezione, sotto assedio e per ora, della penisola iberica.

Dell’Italia inutile dire. In Svezia e Finlandia le maggioranze di governo si appoggiano sull’estrema destra nazionalista. Nei Paesi bassi tutto ruota intorno al partito xenofobo di Wilders. Ad est solo il Pis polacco ha dovuto sloggiare dal governo, ma il suo sistema di potere, costruito negli anni, si conserva perfettamente e lega le mani alla coalizione liberale uscita vincitrice dalle elezioni. Per il resto regimi nazionalisti e autoritari.

Ma il vero mutamento decisivo si è prodotto nei due stati chiave d’Europa: Francia e Germania. A Parigi il presidente Macron, che per anni ha venduto la sua figura indigesta come ultimo baluardo contro l’estrema destra, impone ora un governo conservatore del tutto dipendente dal Rassemblement national che per suo tramite potrà veicolare le proprie istanze politiche. Per Le Pen le porte sono state aperte.

In Germania l’influenza dell’estrema destra non è certamente meno insidiosa solo perché indiretta. L’exploit di Afd in Sassonia e Turingia, nonché le imminenti temutissime elezioni in Brandeburgo, hanno spinto il governo di Berlino a una draconiana stretta sulla politica migratoria, alla moltiplicazione dei paesi considerati sicuri con relative restrizioni del diritto d’asilo, alla facilitazione dei respingimenti e delle espulsioni legate all’accordo di Dublino. Fino all’attuale sospensione, dopo l’attentato islamista di Solingen, degli accordi di Schengen con la reintroduzione delle frontiere intraeuropee della Germania (diverse delle quali da tempo già riattivate).

Il respingimento dei richiedenti asilo si scontra però inevitabilmente con il diritto comunitario. Per ricorrere a questa misura estrema bisognerebbe dimostrare concretamente una grave minaccia, altrimenti non fronteggiabile, alla sicurezza del paese, un vero e proprio stato di emergenza. Cosa tutt’altro che realistica, anche se la ministra degli interni Faeser ci sta provando. Del resto, essendo del tutto evidente che nessuna di queste misure possiede una qualche efficacia concreta nella profilassi del terrorismo, quel che conta è il loro valore propagandistico rivolto agli elettori in esodo verso l’Afd. Ma anche questa funzione si è spesso dimostrata in passato piuttosto inefficace quando non controproducente. Non potendosi del tutto sostituire al radicale appeal della destra estrema, le svolte securitarie “costituzionali” finiscono perlopiù col legittimarla.

Se il “cordone sanitario” francese nei confronti del Rassemblement national si è rivelato una miserabile truffa, il “muro tagliafuoco” tedesco ancora regge nei confronti dell’Afd e dei suoi esponenti politici, ma non è affatto impermeabile ai contenuti e agli umori che questo partito veicola. L’influenza delle posizioni di destra sull’attività di governo è così destinata a crescere e a spostarne progressivamente l’asse.

Tutto questo non potrà che riflettersi, presto o tardi, sui rapporti di forze nelle istituzioni dell’Unione europea. Visto il tasso di nazionalismo che ormai vi circola, fino a quando terranno quelle norme, quelle garanzie e quelle protezioni che oggi arginano le politiche xenofobe e gli egoismi nazionali? E, fino a quando le componenti socialdemocratiche ed ecologiste dell’attuale maggioranza Ursula non saranno sostituite da forze di tutt’altro segno decise a cambiare radicalmente i connotati dell’Unione? Uno scontro già va delineandosi: socialdemocratici, verdi e liberali diffidano von der Leyen dall’includere esponenti della destra Ecr in posizioni di peso nel suo governo, ma si tratta di forze indebolite e in grave difficoltà il cui potere condizionante è in evidente declino. Mentre non sono un mistero, d’altra parte, gli appetiti di destra che da tempo circolano nel Ppe. In un simile contesto la sfrontata giravolta di Macron può fare scuola

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