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Governo assoluto L’arroganza istituzionale che tracima in violenza verbale, e si concretizza in forzature come il decreto legge sui paesi sicuri adottato ieri sera dal governo, rischia di travolgere i principi fondamentali della democrazia e del costituzionalismo

Senza limiti: la pulsione a prendere tutto

 

L’arroganza istituzionale che tracima in violenza verbale, e si concretizza in forzature come il decreto legge sui paesi sicuri adottato ieri sera dal governo, rischia di travolgere i principi fondamentali della democrazia e del costituzionalismo. Affiora la protervia di un potere che pretende di essere senza limiti, nell’imporre la propria volontà.

Senza limiti nel non rispettare le istituzioni: la magistratura, ma anche le stesse istituzioni che si rappresentano e dalle quali provengono gli attacchi, governo e presidenza del senato; senza limiti nel violare vite, dignità e diritti.

È un potere feroce contro le persone, disumanizzate e ridotte a pedine nel gioco politico, come propaganda spicciola ma anche come tassello nella costruzione di una (non)cultura intrisa di un razzismo coloniale e suprematista.
Le persone divengono meri strumenti di una guerra ibrida condotta sui migranti e contro i migranti; quei migranti – ricordiamolo – che sono laboratorio dove sperimentare restrizioni dei diritti.

Non è la magistratura che esonda, ma è il governo che non rispetta gli argini costituzionali, dalla separazione dei poteri alle norme in materia di asilo e libertà personale al rispetto del diritto internazionale e sovranazionale ai quali il nostro ordinamento si conforma in attuazione del principio internazionalista.

Un inciso. Lasciamo per un momento il compito di puntellare gli argini della democrazia continuamente erosi dal fiume di parole e provvedimenti del governo. Il diritto di asilo costituzionale sancisce il diritto di ingresso nel territorio della Repubblica e l’effettività che lo percorre rende evidente il contrasto in sé con l’adozione delle finzioni giuridiche (truffe giuridiche?) che sottostanno alle procedure in frontiera, delocalizzate e non.

Torniamo agli argini. La separazione dei poteri e la garanzia dei diritti, assi portanti del costituzionalismo sin dalla Dichiarazione francese del 1789, radicati in una storia secolare e sanciti nella Costituzione, sono trattati come un fastidioso orpello, un limite da rimuovere.

L’attacco alla magistratura è parte della deriva autoritaria: si vuole un giudice che applichi – citare Montesquieu è scontato ma necessario – fedelmente le «leggi tiranniche», magari quelle come il disegno di legge sicurezza in discussione, che si faccia «oppressore» al servizio del capo.

Le parole denigratorie si accompagnano a falsità populiste che distorcono il senso dell’indipendenza della magistratura, che non deve rispondere al popolo, ma amministrare la giustizia «in nome del popolo», con una funzione di salvaguardia rispetto al principio di maggioranza, a tutela dei diritti e delle minoranze.

Che il giudice sia soggetto soltanto alla legge è garanzia di indipendenza, usare la legge ad hoc per torcere pronunce giurisdizionali è una eterogenesi dei fini: una discrezionalità del legislatore (alias, ormai, il governo) che sconfina nel mancato rispetto della separazione dei poteri.

Con l’adozione del decreto legge sui paesi sicuri, per cercare di derogare al sistema di garanzie in tema di diritti come alla separazione dei poteri, stiamo regredendo di secoli, dai vincoli del lex facit regem alla pretesa che rex facit legem. Non solo, assodata, e non concessa, la continua violazione dei presupposti del decreto legge, in questo caso pare di scorgere dietro l’urgenza quasi uno spirito vendicativo, un primitivismo politico che adotta una prospettiva di scontro istituzionale che tracima in delegittimazione e disconoscimento. La distanza rispetto allo spirito di collaborazione tra istituzioni – richiamato dal presidente Mattarella -, nel comune intento di esercitare e garantire il principio democratico, è siderale. Le istituzioni non si reggono in se stesse e per se stesse ma sono al servizio dei cittadini (tutti e nella loro plurale espressione). Sono le persone e i diritti ad essere al centro; la soggezione del giudice solo alla legge, la sua indipendenza (articoli 101 e 104 della Costituzione) assicurano che ciò avvenga, tutelando dagli arbitri dell’esecutivo, come Costituzione rigida e giustizia costituzionale limitano il legislatore. Sono i fondamenti di una democrazia costituzionale.

E sia chiaro, un decreto legge non può sovvertire diritti e principi costituzionali, tra i quali il rispetto del diritto internazionale e la sovraordinazione del diritto dell’Unione europea (per cui, in presenza di un contrasto, le norme del decreto dovranno essere disapplicate); forse il governo dimentica che la nostra non è una costituzione flessibile come lo Statuto albertino, che non siamo nel ventennio

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Il presidente dell’Ordine dei Geologi dell’Emilia-Romagna: "Siamo un territorio fragile". Sulla manutenzione dei fiumi: "La vegetazione va gestita bene. Il dragaggio? E' una scemenza"

 La piena del Lamone a Traversara

uello romagnolo è un territorio fragile, che questo fine settimana, ancora una volta, ha subito pesanti danni in seguito a uno di quegli eventi meteorologici estremi che, ormai, si stanno verificando sempre più spesso. Dalla collina alla costa, le acque fanno sempre più paura, sia che scendano da una montagna, sia che tracimino da fiumi o canali. Le popolazioni colpite invocano risposte e, soprattutto, interventi risolutivi. Ma quali devono essere questi interventi? A fornire un quadro della situazione è Paride Antolini, cesenate, presidente dell’Ordine dei Geologi dell’Emilia-Romagna.

Ancora una volta ci troviamo davanti a un evento meteo estremo (il quarto di questo tipo da maggio 2023) e, anche se la situazione più critica si è registrata in Emilia, il territorio romagnolo ne ha subito ancora le conseguenze. Siamo un territorio fragile?
Assolutamente sì, siamo un territorio fragile. E poi, dopo il terzo-quarto evento in un anno e mezzo dobbiamo cambiare approccio. Questo cambiamento climatico ci pone davanti a eventi che stanno avvenendo con una certa frequenza e con cui dobbiamo fare i conti. Non si può più intervenire sul territorio con ordinarietà, quindi con manutenzione ordinarie o straordinarie, qui occorre un piano neanche regionale ma nazionale per ripensare un po' il territorio. Qui siamo di fronte a investimenti colossali che dovranno riguardare anche le delocalizzazioni. Quanto successo nel Bolognese, non tanto nella città metropolitana, ma nelle vicine valli del Savena o del Zena, ci sono situazioni difficilmente recuperabili e occorre pensare anche a una delocalizzazione. Stiamo parlando di interventi veramente importanti.

L'ultima ondata di maltempo nel Ravennate

Tra le zone da delocalizzare include anche aree del territorio romagnolo?
Per dire se una zona è delocalizzabile o meno andranno fatti gli opportuni ragionamenti. A un primo esame, ci sono problematiche in determinate situazioni che sono difficilmente risolvibili. E ci sono anche nel territorio romagnolo. Quando si pensa alle situazioni sulle aste intravallive dei nostri fiumi, dove a monte hai poca possibilità di trattenere dell'acqua oppure ne trattieni una quantità minima, se si prevedono arrivi di determinate piene non possiamo pensare di difenderle, come si faceva una volta, innalzando argini o muri. Perché l'innalzamento di un muro o un argine, quindi la salvezza di un paese, potrebbe costituire il problema in un altro paese. Salviamo un'area per allagarne un'altra.

In questo fine settimana ci sono stati allagamenti sulla costa, da Bellaria alla costa ravennate, con i disagi maggiori a Cesenatico. Quali sono state le criticità che hanno portato a queste situazioni di emergenza?
Sicuramente la quantità di pioggia che è caduta in pochissimo tempo. Quando oltre 100 millimetri di pioggia (a Bologna addirittura 175 millimetri) cadono in poche ore la nostra rete di deflusso principale o secondaria urbana va in crisi. Ed è quello che è successo. A Cesenatico siamo stati anche fortunati, il mare benché l'onda fosse alta ha sempre ricevuto le acque del porto canale. Le idrovore del Consorzio di Bonifica buttavano nel canale l'acqua e questa passava attraverso le porte vinciane aperte. Se l'onda del mare fosse stata più alta ci sarebbero potute essere conseguenze più gravi. Cesenatico è circondata dall'acqua. C'è il mare da una parte che tende a innalzarsi di qualche millimetro all'anno e a monte c'è tutto un reticolo scolante secondario che deve scolare a mare e lo fa solo grazie alle idrovore. Siamo un una situazione di criticità estrema. A Cesenatico certe cose vanno ripensate. Si deve ripensare a un territorio, riprogettare un quartiere. Nelle località di mare la prima fascia vicino al mare dovrebbe essere sempre rinaturalizzata, senza guardare in faccia a nessuno. Bisognerebbe pensare alla demolizione nel caso di aree dismesse o abbandonate e non rioccuparle con edifici, ma ricostruire le dune naturali che c'erano una volta. Diventerebbero delle dune semiartificiali. Questa rinaturalizzazione della prima linea è ciò che servirebbe se vogliamo mantenere un paesaggio romagnolo come quello che vediamo nelle cartoline, con un'ampia spiaggia. In alternativa, se vogliamo mantenere alberghi e condomini a 50 metri dal mare, cosa succederà in futuro? Accadrà che tutti i lavori di ripascimento delle spiagge non basteranno più. Le mareggiate mangeranno le spiagge, perché il mare si sarà alzato. Si penserà di fare un muro per difendere le strutture. Ma la costruzione di un muro è la disfatta totale, perché difendiamo i nostri edifici e abbandoniamo sicuramente la spiaggia. Sto parlando di un evoluzione che non avverrà in un anno o due, ma che interesserà la futura generazione. Il discorso vale per Cesenatico, come per tutta la costa romagnola. Quando si parla di fare le piscine sulla spiaggia, questo progetto cozza con il problema dell'ingressione marina. Questa situazione avrà dei problemi di mantenimento.

Da questo punto di vista la costa ravennate è più fortunata?
No, il Ravennate ha un livello medio su livello del mare molto basso, quindi tutte le volte che ci verificano certi eventi si ha un problema con il deflusso di fiumi e canali verso il mare. E la tendenza è che il territorio continui ad abbassarsi, ciò vuol dire che le aree sotto il livello del mare in futuro saranno in aumento. Finché si tratta di aree naturali, lagune o paludi è un conto, ma quando ci sono delle zone abitate queste saranno sempre più difficili da difendere dalle alluvioni.

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L'entroterra ravennate, invece, rimane ancora una volta ostaggio dei fiumi, preoccupato per ogni passaggio di piena. Come risolvere questa situazione?
La situazione si risolverà mettendo mano a tutti quegli indirizzi contenuti nei piani speciali che attualmente sono fermi a Roma, quindi tutto il ripensamento del territorio di cui parlavo prima. Si tratta di investimenti immani che dovranno cercare di trattenere più acqua possibile a monte. Se non riusciremo a trattenere acqua a monte, si parla di tracimazioni controllate dove ampie zone di territorio agricolo, a bassa densità costruttiva, che verranno destinate ad allagamenti artificiali. Poi si dovrà trovare l'area e prevedere l'allontanamento di queste acque, attraverso canali, per farle defluire velocemente. Anche questo comporta interventi di notevole mole economica, soprattutto per gli indennizzi agli agricoltori.

In molti criticano la mancanza di manutenzione dei fiumi. Si parla spesso della eccessiva vegetazione presente lungo gli argini e anche dei letti dei fiumi che andrebbero scavati maggiormente. Lei cosa ne pensa?
Il dragaggio dei fiumi è una scemenza, si può parlare di pulizie locali, nel senso che si possono riprofilare le golene, possono essere localmente rimossi gli accumuli di detrito limoso o terroso. Ma il dragaggio in sé assolutamente no. Anche perché abbassando il letto del fiume di 20-30 centimetri non porterebbe vantaggi incredibili come portata, ma porterebbe problemi erosivi che si riverserebbero sulle strutture che incontrano, quindi ponti e argini. Per quanto riguarda invece la vegetazione, questa non va eliminata a prescindere ma va gestita. I nostri fiumi sono corsi d'acqua modificati nel corso dei secoli. Ci sono dei tratti dove la vegetazione serve per mantenere consolidata la scarpata dell'alveo, quindi se non ci fosse andrebbe in erosione. Ci sono altre situazioni in cui magari (la vegetazione, ndr) andrebbe tolta. Ci sono dei tecnici che su questo devono lavorare. Tanto è che ci sono dei tratti in cui la vegetazione è stata tolta e adesso abbiamo dei problemi di erosione. Ovvio che non dobbiamo tenere un bosco dentro i nostri fiumi, ma una vegetazione adeguata alle caratteristiche dei nostri corsi d'acqua.

 

 
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Diritti e arbitrio È necessario che si verifichi la situazione di fatto nei Paesi ritenuti «sicuri», altrimenti prevarrebbe sempre la ragion di Stato. Negarlo è analfabetismo costituzionale

Il centro italiano di permanenza per il rimpatrio di migranti di Gjader in Albania foto Ansa Il centro italiano di permanenza per il rimpatrio di migranti di Gjader in Albania – Ansa

La pretesa del governo di non farsi ostacolare dai giudici nelle politiche migratorie (ma analogo discorso potrebbe farsi anche in materia di sicurezza e ordine pubblico) è la dimostrazione dell’analfabetismo costituzionale dell’attuale maggioranza.

Dovrebbe essere ben noto, infatti, che le Costituzioni rigide del Novecento hanno reso «indisponibile» a qualsiasi maggioranza la definizione dei principi in materia di diritti fondamentali e anzi è la Costituzione a chiedere al governo (in verità alla Repubblica intera) di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale per garantite i diritti inviolabili dell’uomo. Diritti che appartengono ad ogni persona senza possibilità di distinzione per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, tantomeno per provenienza geografica.

Dunque, i governi – ma certamente anche i giudici – non possono adottare atti in contrasto con quanto la Costituzione impone. Con riferimento alle politiche migratorie basterebbe allora leggere l’articolo 10 della nostra Costituzione.

Per comprendere l’infondatezza della pretesa del governo di impedire ai giudici di decidere in materia di migrazione autonomamente.

«Autonomamente» vuol dire non subordinato all’indirizzo politico maggioritario o impedito da norme che, seppure legittimamente poste, si pongano però in contrasto con il diritto costituzionale e internazionale. In tal modo diventerebbe, inoltre, immediatamente evidente come non si possa più continuare a seguire la strada intrapresa dall’attuale governo.

Si è contestato al Tribunale di Roma di avere applicato i principi definiti dalla Corte di Lussemburgo, che ha individuato, in base alla normativa europea, i criteri per la definizione di «Paese sicuro».

È stata ritenuta sbagliata la decisione assunta dai nostri giudici rivendicando che, non ad essi ma ai governi spetti stabilire quali siano i Paesi da considerare «sicuri». Scordando così che, non solo i magistrati, ma anche il governo è obbligato a conformarsi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (articolo 10 della Costituzione, primo comma).

Quelli posti dal giudice europeo sono principi che neppure un eventuale e preannunciato atto avente forza di legge nazionale potrebbe contrastare. Il governo dovrebbe pensarci prima di adottare – al prossimo consiglio dei ministri convocato d’urgenza per domani sera – atti che creeranno altri conflitti e alla fine verranno ritenuti illegittimi.

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D’altronde, che spetti al potere giudiziario e non al potere politico la decisione ultima su quali Paesi possono essere considerati «in via di fatto» rispettosi dei diritti umani è ben comprensibile e dal punto di vista costituzionale indispensabile. Lo dimostra la modalità con cui viene predisposta dal governo la lista di Paesi sicuri: definita sulla base di una trattativa con lo Stato interessato che accetta il rimpatrio dei migranti.

Dunque, in base ad accordi di natura esclusivamente politico-diplomatica che nulla o poco hanno a che fare con le effettive garanzie prestate ai diritti delle persone. In fondo avere incluso l’Egitto nonostante il caso di Giulio Regeni, ma anche quello di Patrick Zaki, dimostra la scarsa attenzione all’effettività delle tutele e alla realtà dei sistemi giudiziari in tali Paesi.

È NECESSARIO che sia un giudice a verificare la situazione di fatto perché deve essere assicurato quel che la Costituzione impone, che non è il prevalere della ragione di stato o politiche di chiusura delle frontiere. Quel che la nostra legge fondamentale pretende è che si rispetti il diritto dei migranti di espatriare in ogni caso in cui allo straniero «sia impedito nel suo territorio l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» (articolo 10, terzo comma).

Tutte queste persone sono titolari di un diritto perfetto ed esigibile, il diritto d’asilo, che nessuna maggioranza politica può negare. Lo prescrive non solo la nostra Costituzione, ma anche le norme internazionali generalmente riconosciute.

La legge può stabilire le condizioni per esercitare tale diritto, non lo può però negare. Che l’accertamento sia di volta in volta definito a seconda dei casi concreti da un giudice e non in via generale ed astratta dal legislatore è il presupposto per il rispetto del diritto costituzionalmente protetto.

Una considerazione conclusiva. Le politiche migratorie e il governo dei flussi sono un problema epocale, non v’è dubbio. Non è facile dare giudizi assoluti ed è palese l’incapacità sino ad ora dimostrata dai Paesi occidentali ed europei in particolare di adottare soluzioni equilibrate.

Quel che può però dirsi con certezza è che i migranti non sono merci (o «carichi residuali», come pure sono stati definiti) bensì persone, alle quali devono essere garantiti dignità e rispetto dei diritti fondamentali. Da qui dovremmo ripartire sia in Italia sia in Europa. Mi sembra che il nostro governo, ma anche l’Europa, guardino altrove

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Pileri: “Drenaggio inferiore, nei grandi centri i danni si moltiplicano. I corsi d’acqua sono canalizzati o tombati, bisogna restituire loro spazio. Regioni e governo fanno poco, mettono piccoli cerotti su grandi ferite”

Milano. 21 ottobre 2024 – “Alluvioni e allagamenti non hanno mai distinto tra piccoli e grandi centri. Semplicemente nelle grandi città tutto è più visibile e i danni si moltiplicano per l’addensamento di persone e cose, e perché l’acqua trova meno vie di fuga”. Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, indica una via obbligata per far fronte a un’emergenza che si presenta con sempre maggiore frequenza: “Togliere cemento”.

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L'urbanista Paolo Pileri: "Quando piove le città diventano bombe di cemento"

Professore, negli ultimi tempi abbiamo visto Milano allagarsi quasi a ogni pioggia e nelle ultime ore è toccato a Bologna.

“Togliere spazio a fiumi, torrenti, canali, rogge e spesso tombarli ha reso sempre più fragile la rete scolante e aumentato l’esposizione ai potenziali danni. Ma è il carico antropico e urbanistico ad essere aumentato a dismisura senza aumentare proporzionalmente la capacità di drenaggio delle aree urbane. Non ci sono solo bombe d’acqua, ma continue bombe di cemento e asfalto che hanno ridotto la capacità del territorio di reagire”.

Bologna è urbanisticamente in grado di reggere a piogge così intense e violente?

“Più in generale le giunte regionali e il governo centrale dovrebbero fermare ogni azione urbanistica e fare una seria verifica della capacità di ogni città di reggere a piogge e venti in questo clima cambiato. Ma nessuno lo sta facendo nonostante noi studiosi lo diciamo da anni. Zero”.

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Una città moderna come Milano non si distingue in questo panorama?

“Per Milano non c’è una ricetta diversa rispetto a Bologna o Roma o Pescara. Tutte le città devono fermare il consumo di suolo e depavimentare. Milano non lo ha fatto e non ha intenzione di farlo in modo serio. Nel 2021 ha cementificato altri 18 ettari e nel 2022 altri 26 in barba a qualsiasi idea di sostenibilità. Certo, ha piantato alcuni alberi (pochi rispetto a quel che deve fare) ma serve a poco o nulla se mantiene elevati tassi di consumo di suolo e non depavimenta nulla. E sta completamente rinunciando a una pianificazione di sistema che incida sulle scelte urbanistiche dei comuni dell’area metropolitana. Se ogni città non capisce che non è sola nell’oceano non andremo lontani”.

 
 

Cosa bisogna ripensare a livello urbanistico per rispondere al cambio climatico?

“Iniziamo dal fatto che dobbiamo fermare immediatamente il consumo di suolo. Ogni nuova impermeabilizzazione aumenta di 5-6 volte almeno la quantità di acqua che rimane in superficie dopo una pioggia di media intensità. Se continuiamo a urbanizzare, la quantità d’acqua circolante sul territorio aumenta e con essa la forza d’urto con la quale si abbatte su tutto. Altra cosa da fare è tenere puliti da detriti i corpi idrici superficiali e la rete fognaria. Poi tornare a dare libertà ai fiumi laddove è subito possibile. Li abbiamo spesso imbrigliati, canalizzati, ridotti in sezione perché si voleva ‘guadagnare’ terreno per altri usi. E invece vanno rispettati”.

 
 

Ci sono delle soluzioni da suggerire per il breve periodo?

“Nell’immediato serve fermare il consumo di suolo. Ovunque. Recuperiamo gli edifici esistenti ma non utilizzati anziché continuare a cementificare. Nel breve (brevissimo) occorre depavimentare, ovvero togliere asfalto ovunque si può e pure dove non si può. Siamo condizionati da una sottocultura per la quale ci occupiamo più di mettere piccoli cerotti su grandi ferite quando invece c’è da prevenire. I dati Istat ci dicono che per ogni euro speso in difesa del suolo i comuni ne spendono 44 in strade, 6,2 in turismo, 13 nell’anagrafe e uffici elettorali. È evidente che con queste proporzioni non vai da nessuna parte oggi, nel mezzo del disastro climatico”.

 

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Riforme Ampia "lista dei desideri" dei due presidenti delle Regioni Lombardia e Veneto, per una riedizione ampliata delle antiche polis greche. Tre domande per la presidente Meloni che ha il compito di vagliare le istanze

Calderoli, Fontana e Zaia alla manifestazione della Lega “Senza Paura" a Milano Il ministro Calderoli con i presidenti delle Regioni Lombardia e Veneto, Fontana e Zaia – Ansa

Cominciano a circolare, in via ufficiosa, i dettagli delle richieste che Veneto e Lombardia hanno messo sul tavolo dell’autonomia differenziata. Le due regioni partono in pole-position, avendo già stipulato accordi preliminari con i governi Gentiloni e Conte, ed i negoziati potranno quindi procedere più speditamente che negli altri casi (in base all’art. 11 della legge 86/2024).

Lombardia e Veneto chiedono l’attribuzione di competenze nelle materie classificate come “non-Lep” dal Comitato Cassese, ma solo come primo passo verso l’autonomia. Le richieste saranno poi progressivamente estese anche alle “materie Lep” a partire da quelle già oggetto di trattative nelle precedenti legislature (politiche del lavoro, istruzione, sanità e tutela dell’ambiente).

Proviamo ad immaginare lo scenario che si prospetterebbe qualora questa prima “lista dei desideri” venisse integralmente accolta dall’esecutivo in carica.

SUL PIANO DEI RAPPORTI internazionali, i presidenti Fontana e Zaia diverrebbero coprotagonisti, insieme al ministro Tajani, della stipula di eventuali accordi con Stati confinanti (nel caso del Veneto i confini comprenderebbero anche le “frontiere marittime”). Disporrebbero del potere di siglare intese con organismi internazionali o con enti territoriali di altri Stati per la promozione delle imprese locali.

Parteciperebbero, alla pari con il governo centrale, alla definizione delle direttive europee e al loro recepimento nella normativa nazionale. Siederebbero, insieme ai rappresentanti degli altri Stati membri, ai tavoli europei in cui si definiscono le politiche di coesione, le procedure di infrazione e la disciplina sugli aiuti di Stato.

In materia di governo del territorio, Fontana e Zaia assumerebbero un ruolo di vertice nelle funzioni di protezione civile. Disporrebbero del potere di emettere ordinanze in deroga alle leggi statali nel caso si verifichino calamità di portata regionale e potrebbero di conseguenza aprire contabilità speciali per velocizzare l’accredito dei contributi statali. Determinerebbero gli organici del personale regionale addetto alla protezione civile, in deroga ai vincoli e ai tetti di spesa posti dalla normativa statale. Stabilirebbero gli standard per le attività formative da fare valere per il riconoscimento di corsi somministrati da enti sul territorio. Il presidente Zaia potrebbe addirittura derogare alle direttive del Presidente del Consiglio dei ministri e, in caso di calamità di rilievo nazionale (come lo è stato il Covid), assumerebbe il ruolo di Commissario delegato all’emergenza; in materia antincendio, avrebbe le responsabilità di coordinamento e reclutamento del corpo dei vigili del fuoco.

CON RIFERIMENTO alla finanza pubblica, Lombardia e Veneto si approprierebbero del gettito di alcuni tributi erariali (l’imposta sostitutiva sui rendimenti dei fondi pensione e l’imposta di bollo sui conti correnti accesi presso banche regionali) insieme a una quota parte dei proventi dell’azione di contrasto all’evasione svolta a livello centrale (!). Acquisirebbero pieni poteri di manovra sull’Irap, sull’addizionale all’Irpef, sulle tasse automobilistiche, sull’ecotassa sui rifiuti solidi. Potrebbero trattenere l’eventuale differenza fra il fabbisogno finanziario (calcolato dalla discussa Ctfs, cfr. Autonomia, il trucco dei Lep va avanti) e la spesa effettivamente sostenuta per le funzioni trasferite. Sarebbero liberi di scegliere il proprio modello di funzionamento, senza vincoli di personale e organizzativi. Un aspetto importante è che le due regioni terrebbero sotto scacco Comuni e Province del proprio territorio, poiché accentrerebbero tutti i trasferimenti perequativi statali ad essi destinati e ne deciderebbero i criteri di riparto.

FRA LE ALTRE MINUTAGLIE richieste dai presidenti regionali rientrano infine il potere di disciplinare l’ordinamento delle banche regionali, di introdurre nuovi albi professionali e – nel caso del Veneto – di istituire fondi pensione complementari, decidere la dislocazione degli uffici dei giudici di pace e gestire i rapporti di lavoro del personale ad essi addetto.

Nel complesso ci troveremmo di fronte a due regioni-Stato, una sorta di riedizione su una scala territoriale più vasta delle antiche polis greche. E siamo solo al primo boccone del pasto gratis dell’autonomia differenziata.

Alla Presidente Meloni spetta il compito di vagliare le richieste regionali usando le lenti dell’«unità giuridica o economica, nonché di indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie» (art. 2, comma secondo, della legge 86/2024).

Nell’esercizio di tale scrutinio la invitiamo a porsi tre semplici domande: quali sono le peculiarità locali che motiverebbero il trasferimento di un insieme così ampio ed eterogeneo di funzioni proprio a Lombardia e Veneto? Si possono considerare efficienti le modalità di finanziamento di tali funzioni, sostanzialmente basate sull’attribuzione automatica di quote di gettito erariale (cfr. Autonomia. La falsa retorica dell’efficienza)? Come si concilia il potere di spesa collegato alle richieste regionali con il rispetto del Piano strutturale di bilancio, che esige un serrato controllo dei conti pubblici nei prossimi sette anni?

DI FRONTE alla dimensione globale delle sfide con cui le società moderne devono confrontarsi, le richieste dei due governatori del Lombardo-Veneto rischiano di proiettare l’Italia pericolosamente indietro nel tempo restituendole il ruolo di una mera “espressione geografica”.

 

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Fallimento e reazione È la storia del potere politico che si pretende immune dal rispetto delle leggi, la vittoria elettorale come unico crisma riconosciuto della legalità. Ho i voti quindi posso

L'arrivo in Libano di Giorgia Meloni foto di Marwan Naamani/Ap L'arrivo in Libano di Giorgia Meloni – Marwan Naamani/Ap

Nella sua marcia sullo stato di diritto, la destra italiana registra continue sconfitte, ma arretrando trascina con sé il paese. Ogni volta un passo indietro lungo la scala della democrazia e della civiltà. L’ultima, prevedibilissima, sconfitta con la mancata convalida dei trattenimenti dei pochi migranti rimasti nei campi di concentramento in Albania porta con sé immediato un nuovo annuncio. Arriverà un nuovo decreto, arriverà subito, entro due giorni, per cambiare la lista degli «Stati sicuri». Dirà, più o meno, che uno Stato è sicuro e quindi deve riprendersi i migranti anche se fuggono da violenze e torture, è sicuro perché lo dicono la presidente del Consiglio e il suo ministro poliziotto dell’interno.

Non basterà, neanche stavolta, perché la sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia europea alla quale ieri ha fatto riferimento il Tribunale di Roma per ordinare il rimpatrio dei migranti vale anche per il governo italiano. Così come valgono la Costituzione e i Trattati internazionali e ci sarà sempre una giudice o un giudice che non abdicando alla sua funzione li farà applicare. Ma intanto l’attacco del governo Meloni di decreto in decreto e di proclama in proclama va concentrandosi e chiarendosi. Punta direttamente al cuore dello stato di diritto e ai principi fondamentali della nostra malandata democrazia.

«Lasciateci lavorare» non è certo formula nuova per demagoghi e reazionari. Così reagendo all’ennesimo smacco nella sua guerra ai migranti, il governo ricorre a questo antico slogan, in una versione appena più articolata: «Rispettiamo la magistratura, ma la magistratura ci lasci lavorare». La seconda parte della frase nega evidentemente la prima ed ha anch’essa una sua lunga storia nella destra nazionale. È la storia del potere politico che si pretende immune dal rispetto delle leggi, la vittoria elettorale come unico crisma riconosciuto della legalità.
Ho i voti quindi posso.

Eppure rispetto alla versione originale del sillogismo di impunità, quello introdotto nella politica italiana da Silvio Berlusconi – il leader che a suo tempo ha allevato tutti e tre i protagonisti di oggi, Meloni, Salvini e Tajani – la nuova versione è assai più pericolosa. Non bisogna farsi confondere dai colpi di teatro, dalle quasi identiche sfilate di ministri solidali con il capo, quella radunata ieri a Palermo da Salvini come quella ordinata dal Cavaliere a Milano nel 2013. Oggi la minaccia è molto più alta.

Se infatti Berlusconi pretendeva impunità per difendere se stesso e i suoi affari, la destra oggi reclama di divincolarsi dalle leggi per portare a segno la sua quotidiana missione di egoismo e segregazione. Chiede al paese una tanto più facile complicità contro i migranti, colpevoli di nulla se non di essere tali. Se Berlusconi nella sua crociata contro le toghe aveva l’appoggio altalenante delle simpatie e delle invidie del popolo, Meloni e compagnia possono contare sull’eterna paura dell’altro da sé, che loro stessi alimentano.

I giudici, dunque, almeno quando si ostinano a seguire la gerarchia delle leggi e i principi superiori (il che peraltro non avviene sempre, malgrado il governo voglia farlo credere), sono dei nemici perché non collaborano a questo missione superiore.

Ecco dunque che nell’umiliante sfilata palermitana di ministri come nell’arringa difensiva al processo «Open Arms» (che ha portato nell’aula di giustizia gli argomenti della piazza, in buon avvocatese) come negli annunci di guerra della presidente del Consiglio, non si tenta nemmeno una difesa di Meloni e Salvini e dei loro fallimenti. Ma si giura di combattere per «la patria» e per «i confini». Una retorica da ultimo stadio che se non altro chiarisce il punto di arrivo della marcia sullo stato di diritto. Perché l’elenco dei nemici da abbattere a mani libere comincia con i migranti ma è assai più lungo

 

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