(Domenico Quirico – lastampa.it) –
Ricapitoliamo. Dopo Nasrallah, dopo lo sceicco Yassin, dopo capi sottocapi vicecapi, responsabili dei missili, delle squadre d’assalto, delle
autobombe, dopo gli ingegneri del terrore e gli artigiani delle tecnofilie jihadiste, dopo i numeri due tre quattro delle gerarchie terroriste e i loro eredi potenziali, i parenti i cugini le
famiglie, i vicini di casa ignari della colpa della prossimità terrorista – gli “incidenti” insomma -, dopo la decapitazione minuziosa dei consigli di amministrazione di Hezbollah
di Hamas della Jihad islamica, dopo uccidi per primo, il faccia a faccia, taglia le teste del serpente, dopo il Male come astuzia risolutiva del Bene, dopo le bombe da mille chili e le
micro batterie assassine dei cercapersone, dopo i droni vendicatori: il delitto perfetto?
L’operazione omicidi mirati, trentadue anni dopo la eliminazione del primo capo di Hezbollah, Al Musawi, da silenziosa, segreta, negata si è fatta frenetica, trionfante,
insofferente al criminale dettaglio dell’effetto collaterale, ubiquitaria, sacrosanta, paradossalmente “legale” anche agli occhi di molti che, in altri luoghi, gridano al vilipendio
del diritto internazionale. Si vogliono saldare tutti i conti in una volta sola prima che cadano in prescrizione. Ebbene: insieme alla rappresaglia di Gaza, al tappeto di bombe
steso sul Libano, alle migliaia di eliminazioni di illustri per colpe e di ignoti per innocenza, alla geografia punitiva senza limiti, la caccia a vertici nemici ha restituito ad Israele la
sicurezza perduta dopo il raid omicida di Hamas, ha ripulito l’eterno incubo del fronte Nord presidiato dai pestiferi ascari libanesi dell’Iran? Il sole nel Vicino Oriente risplende in modo
diverso da prima? Ci sono mutazioni palpabili al terribile tran tran dei settantacinque ultimi anni? Niente affatto.
Ora non è rimasto più nessuno di importante da eliminare. No, è vero, manca Sinwar, il capo di Hamas, ma verrà il suo turno, forse è un’ombra perché è già
morto. Chi resta da uccidere dunque? Si può passare a Khamenei, ai vertici iraniani, ayatollah di bigotto stile khomeinista, Guardiani della rivoluzione che forse tra un business
e l’altro ancora immaginano la distruzione dello scandalo sionista, gli scienziati del sogno atomico già peraltro largamente ridotti di numero in passato. Le liste si farebbero di nuovo
lunghe al Mossad. O si spera che siano loro a gettarsi, resi folli dalla rabbia per i colpi subiti, nel rogo purificatore della guerra totale nel Vicino Oriente. Resa dei conti. Fine.
Ma quello che va in pezzi intanto è Israele. Israele, non Netanyahu, si sta suicidando. Proprio mentre celebra il trionfo esibito della sua forza e raccoglie sciagurati
(e interessati) ditirambi sulla rinnovata efficienza dei suoi Servizi, smarrisce il Senso di sé.
Netanyahu va al Palazzo di Vetro e maledice le Nazioni Unite come un covo di antisemitismo. Contemporaneamente scatena ciò che l’antisemitismo è destinato a
moltiplicare, a fornire nuovi argomenti alla volontaria confusione tra Israele e l’ebreo. Ho udito ragazzi in Occidente, studenti informati, dire con orgoglio che dà i brividi di essere
con Hamas, che il sette ottobre è stato atto legittimo. A Gerusalemme dovrebbero riflettere. È un prezzo troppo alto da pagare soprattutto senza aver raggiunto alcuna
certezza di vittoria.
Il servizio omicidi del governo israeliano ormai va per le spicce, niente veleno, pistole con il silenziatore, agguati in motocicletta all’uscita di casa, perfino cioccolatini al cianuro per i
terroristi golosi, si è usato in passato anche questo. Fase superata, erano i tempi dei modesti killer del terrorismo sanguinoso ma spiccio, gente che si illudeva ancora di
sfuggire nell’anonimato di una vita qualunque alla caccia senza quartiere dei vendicatori. Ora si usano per un singolo bersaglio eccellente bombe che scuotono la
terra come se fosse in preda alle doglie del parto, si azzerano condomini diventati loro malgrado complici, vanno in polvere quartieri.
Israele commette un antico errore: credere che la vittoria sia sempre un passo più avanti, che consista nel rendere la guerra ancora più grande. Hamas non basta
Hezbollah non basta, bisogna costringere l’Iran a scendere in campo non lasciandogli altra possibilità se non vuole ammettere la inconsistenza della sua propaganda. Mettiamo il dito
sull’atlante. È Teheran che si vuole bombardare. La soluzione è sempre un passo più in là della ultima eliminazione clamorosa, del bombardamento senza limiti.
Da un anno Israele lascia dietro di sé rovine mineralizzate, spazi morti. È questo tempo dell’inferno l’avvenire? O invece il raddoppio della dannazione, il moltiplicatore di
vendicatori, di irriducibili, di aspiranti martiri, di nuovi Nasrallah? Di guerriglie sparse proteiformi inafferrabili.
Coloro che vivono sotto le tirannidi non hanno spesso possibilità di dire no agli errori di chi ne è padrone, di chiedere che si cambi direzione e si rimedi allo sbaglio finché si è in
tempo. Ma chi vive nelle democrazie, e Israele dice con orgoglio di esser l’unica in quello spicchio di mondo, ha il diritto e i mezzi di resistere e di rifiutarsi. Ma da
quando il governo ha scatenato la rappresaglia totale, la caccia all’uomo, sembra che la protesta si fermi alla sorte degli ostaggi che in questo furore sono diventati anche loro
effetti collaterali.
Israele è nato sulla sofferenza, quella di milioni di vittime e di sopravvissuti al Grande Delitto del Novecento. Per gli ebrei il dolore è un insulto all’uomo. Se diventa
indifferente alla sofferenza perde la sua ragion d’essere, si smarrisce nel vuoto. È destinato a morire lentamente, per sé e di sé, più che per la minaccia dei suoi sempre più
numerosi nemici.
Accade nella Storia che Stati si autodistruggono per arroganza. I popoli possono morire, disperdersi sotto i nostri occhi, sprofondare nel silenzio del suo stesso abisso. Ogni guerra
deve esser valutata non solo sulla base dei fini perseguiti, metodo difettoso, ma anche sul carattere dei mezzi impiegati. È quello che distingue dal fatale ingranaggio in cui il peggio
si nutre del peggio, e il terrore del terrore.