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STATE SERENISSIMI La sanità è già differenziata. Dopo l’approvazione della legge sull’autonomia voluta dalla

Lega, la maggioranza si spacca e i medici denunciano. Tra Sud e Nord e tra ricchi e poveri le disuguaglianze nelle

cure non sono mai state così alte. E adesso andrà peggio

La frattura

Molti segnalano i rischi per l’unità del paese, per le sue possibilità di sviluppo e per l’uguaglianza tra i cittadini che derivano dall’autonomia differenziata, legge appena approvata definitivamente dal parlamento. Ma nella sanità il regionalismo differenziato già esiste e si manifesta in differenze rilevanti. Differenze nella quota del fondo sanitario statale riconosciuta alle 19 Regioni e alle 2 Provincie autonome cui la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 ha affidato la gestione del Servizio sanitario nazionale. Ma ancora più rilevanti sono le differenze regionali che caratterizzano la spesa privata per la salute. E ci sono notevoli differenze anche nel trasferimento netto di risorse economiche tra le regioni per la mobilità sanitaria dei loro cittadini.

L’insieme di queste differenze si traduce in uno squilibrio che penalizza fortemente le regioni in maggiore difficoltà economica e sociale.
Se si considera infatti la distribuzione del fondo sanitario tra le regioni, le tre regioni con il valore per residente più elevato sono la Liguria, l’Umbria e la Toscana e quelle con il valore più basso la Calabria la Campania e la Basilicata con una differenza tra l’ultima e la prima in classifica (Calabria e Liguria) che si avvicina al 10%.

Quando si aggiunge al conto la quota di spesa privata la classifica si modifica in testa ma rimane sostanzialmente invariata in coda. Le tre regioni con la spesa pro-capite più alta sono la Lombardia, l’Emilia-Romagna e la Liguria, quelle con la spesa più bassa Calabria, Basilicata e Campania. Cambia però la forbice poiché la spesa dell’ultima, di nuovo la Calabria, diventa di oltre il 20% inferiore a quella della prima classificata, in questo caso la Lombardia.

Quando si tiene infine conto anche della spesa legata alla mobilità si rileva un ultimo travaso di risorse dalle regioni più povere a quelle più ricche. Il saldo netto della mobilità sanitaria corrisponde

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BORGO SANTA MARIA. Da sempre in questo territorio il lavoro agricolo è anche sinonimo di sfruttamento e caporalato, lo denunciamo, raccogliamo le testimonianze dei lavoratori, li aiutiamo a rivendicare i loro diritti, incalziamo le istituzioni, informiamo

Padroni, non datori di lavoro

 

Quello che è accaduto in provincia di Latina al lavoratore indiano che lunedì scorso, invece di essere soccorso dal suo padrone, è stato caricato su un furgone e buttato in strada senza un braccio, dopo che un macchinario gli aveva tagliato l’arto, è qualcosa di una crudeltà inaudita. Satnam Singh è morto ieri, dopo due giorni di agonia, ma probabilmente avrebbe potuto salvarsi se il suo padrone avesse provveduto al soccorso. Questa crudeltà deriva da un tessuto lavorativo fatto di troppe aziende che sfruttano i lavoratori, soprattutto i più deboli e ricattabili quali sono i lavoratori stranieri.

Il 17 pomeriggio sono stata chiamata da un compagno di lavoro di Satnam, mi ha inviato la foto del braccio staccato e buttato in una cassetta, e siamo subito accorsi sul posto per capire l’accaduto: un orrore. Non è un film, ma qualcosa che si fa fatica a raccontare, va oltre l’incidente sul lavoro, e pone davanti la triste realtà di persone per le quali la vita umana non vale nulla.
Padroni, questo il loro vero nome, non datori di lavoro, ma padroni: posseggono i campi, i trattori e pensano di disporre della vita e della morte delle persone; e questo è accaduto nell’azienda di Borgo Santa Maria.

Da sempre in questo territorio il lavoro agricolo è anche sinonimo di sfruttamento e caporalato, lo denunciamo, raccogliamo le testimonianze dei lavoratori, li aiutiamo a rivendicare i loro diritti, incalziamo le istituzioni, informiamo.

Nella nostra attività di Sindacato di Strada incontriamo lavoratrici e lavoratori vicino ai luoghi in cui lavorano e vivono, è la nostra attività quotidiana, che nelle prossime settimane, dal 24 giugno al 5 luglio, proprio nell’agro pontino si intensifica, con la presenza di attivisti sindacalisti e del mondo delle associazioni, che verranno da tutta Italia. Così, riuniti nelle Brigate del Lavoro gireremo ogni campo, percorreremo ogni Migliara, ogni borgo per diffondere i nostri contatti, parlare con quanti più lavoratori possibili, presidiare il territorio.

La nostra regione e la provincia di Latina, in particolare, vede l’agricoltura tra i settori più importanti e con prodotti di eccellenza destinati a tutto il territorio nazionale e anche all’export, tuttavia, è anche un’area in cui il settore primario è aggredito dai fenomeni di sfruttamento e caporalato, che, nel caso dei lavoratori stranieri extra Ue, significa anche percorsi fatti di ricatto e vera e propria compravendita di visti e nulla osta fin dal paese di origine.

In queste due settimane, programmate da tempo e che abbiamo presentato in una conferenza stampa, proseguiremo la nostra lotta per i diritti, per la sicurezza sul lavoro, contro il caporalato e lo sfruttamento. Proseguiremo la nostra lotta anche per Satnam.

*segretaria generale Flai Cgil Frosinone Latina

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Potremmo essere di fronte a una chiusura, o almeno una sospensione, del ciclo che ha caratterizzato il campo politico europeo, e non solo, negli ultimi vent’anni

Destra, sinistra e populismo. Segnali dal voto europeo

Gli allarmi eccessivi sull’ondata di destra hanno in genere la funzione di affermare l’idea che fuori dall’ordine esistente c’è solo la barbarie fascista o parafascista. Alle elezioni europee un’ondata di destra non c’è stata. Chiaramente, l’affermazione della destra radicale in Francia e Austria è molto grave e rilevante. Un po’ meno l’affermazione di Afd in Germania, resa più visibile dal crollo storico dell’Spd ma vicina a percentuali che Afd ha già avuto in passato, per poi arretrare. Complessivamente invece i due gruppi europarlamentari delle destre, quelli in cui siedono Lega e Fratelli d’Italia, sostanzialmente confermano il numero di deputati che avevano e sono ben lontani dal risultato con cui speravano di modificare gli equilibri politici continentali.

Lo scenario complessivo è caratterizzato da due tendenze di fondo, in parte contrastanti. La prima è una sorta di ritorno alla normalità. A trionfare, a livello europeo, è stato il Partito popolare. I socialisti sono piuttosto stabili. A perdere in termini di eletti sono soprattutto i Verdi, i centristi di Renew Europe e la sinistra del Gue, rappresentanti di partiti che a livello nazionale hanno a volte occupato il ruolo di terze forze. Potremmo essere di fronte a una chiusura, o almeno una sospensione, del ciclo populista che ha caratterizzato il campo politico europeo (e non solo) negli ultimi vent’anni. Non perché non ci siano più in campo forze politiche, anche consistenti, definibili populiste. Nel senso, invece, che negli anni Duemila a essere populista è stato il campo politico nella sua interezza: senza avere almeno alcuni tratti populisti, difficilmente si intercettava il consenso. Il declino del «populismo di sinistra» mediterraneo (Spagna, Portogallo, Grecia, Francia, per certi aspetti l’Italia con il M5S) è evidente, anche se nel caso di Melenchon sarà da verificare.

D’altra parte quelle populiste sono sempre, ciclicamente, delle fasi, che caratterizzano i sistemi politici quando declinano forme ideologiche e organizzative consolidate e non sono ancora emerse forme nuove. Questo è quanto successo alle sinistre dopo l’89. La destra è invece sempre identitariamente e politicamente riconoscibile, anche quando utilizza il populismo come schermo retorico.

Gli immensi temi e problemi strutturali che caratterizzano lo scenario nazionale, contentale e internazionale (distribuzione della ricchezza e delle risorse, antinomia Occidente/resto del mondo, crisi climatica, guerra, ristrutturazione del capitalismo globale e del sistema delle relazioni internazionali), possono favorire un ritorno a una più classica dialettica sinistra/destra, anche se non è detto, come si vede anche dai risultati elettorali di diverse nazioni europee, che questa debba coincidere con il bipolarismo. Nel contesto europeo diverse sinistre hanno raggiunto buoni risultati anche stando all’esterno delle coalizioni e dei partiti principali.

Dall’altra parte, gli effetti di queste stesse crisi sistemiche, l’astensionismo strutturale e crescente, così come la peculiarità della competizione elettorale europea non permettono di considerare stabile alcuno scenario.

Venendo all’Italia, stiamo vivendo una trama vista altre volte. Quando è all’opposizione il Pd assume una connotazione maggiormente di sinistra. Si riaprono coalizioni larghe, si cerca di mobilitare l’elettorato, si suscitano speranze di cambiamento per sostituire un governo di destra che rende il Paese una terra culturalmente, materialmente e perfino antropologicamente desolata. Questo succede ora con Schlein, è successo prima con Zingaretti, Bersani, Prodi. Ogni volta le speranze suscitate da queste leadership sono state tradite. Anche per questo, pur avendo spesso governato per altra via, il centrosinistra non vince un’elezione nazionale dal ’96.

Vedremo se questa volta andrà diversamente o se, quando arriveranno (perché arriveranno), questa volta il Pd respingerà al mittente i richiami della foresta delle élite. Respingerli implica che Schlein, grazie alla forza ottenuta con l’affermazione elettorale, cambi la stessa funzione politica e sociale avuta fin qui dal suo partito, stravolgendolo.

Non è un tema solo per il futuro. Il centrosinistra italiano continuerà a votare per l’invio di armi in Ucraina? Sosterrà l’economia di guerra proposta da von der Leyen? Resterà fedelmente atlantista? Perché non è escluso il rischio che il Pd, dopo una campagna elettorale basata sulla polarizzazione Meloni-Schlein, in Europa con Giorgia Meloni ci governi.

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L’autonomia differenziata, vecchio sogno leghista, è legge dello stato. Uno stato da dividere in piccole patrie, come le bandiere con cui la destra ha festeggiato la vittoria alla camera. Diritti e qualità dei servizi sulla base della residenza: a decidere saranno i redditi

LA NUOVA SECESSIONE. La legge Calderoli sull’autonomia è una legge contro la Costituzione. Perché la Carta affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che scavano differenze tra i suoi cittadini, mentre l’autonomia opera in senso opposto

Bandiere in aula tra i banchi della maggioranza per festeggiare l'ok al ddl Autonomia alla Camera foto Ufficio stampa Pd

Nella notte prima degli esami, la destra che è al governo approva con procedura d’urgenza e sul filo del numero legale, quindi con le maniere forti, una legge che è il vecchio sogno separatista della Lega quando era Lega Nord, imbellettato in formule meno impresentabili. Poco dopo, quando si fa mattina, studenti e studentesse nei loro banchi per l’esame di maturità ricevono un testo da commentare scritto da una giurista che si oppone alle “riforme” della destra. È lei che raccoglie le firme dei colleghi costituzionalisti contro il premierato che dell’autonomia è complemento e scambio. Si potrebbe pensare che il ministero di Valditara abbia pensato proprio a lei per generosità e apertura mentale, ma è stata solo sbadataggine e trascuratezza. Tant’è vero che, tra i tanti, è stato scelto un saggio di quattro anni fa, riferito a un articolo della Costituzione che nel frattempo è cambiato.

La Lega avvera il suo sogno, anzi quello di Miglio e di Bossi, che in quarant’anni ha chiamato prima separatismo poi federalismo poi devolution, proprio adesso che è all’apice della crisi, che ha tolto il Nord dal nome e non è più il primo partito sopra il Po. Ma non c’è contraddizione in questo. Al cuore di quel sogno non c’è mai stata infatti un’idea differente di funzionamento dello stato né un’idea di efficienza amministrativa, c’erano solo egoismi e calcoli di bottega. Che adesso, in questa maggioranza, trionfano. L’esibizione dei vessilli delle piccole patrie con la quale i leghisti hanno celebrato in parlamento la vittoria è una rivendicazione coerente. False sono le rassicurazioni.

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I voti a favore sono stati 109, quelli dei senatori della maggioranza; 77 i contrari, di tutte le opposizioni.

 

Il Senato ha dunque approvato in prima lettura la riforma costituzionale che introduce nel nostro ordinamento il principio dell’elezione diretta del premier: ieri pomeriggio i voti a favore sono stati 109, quelli dei senatori della maggioranza; 77 i contrari, i voti di tutte le opposizioni, comprese quelle che non sono scese in piazza. Un elemento questo significativo anche nella lettura istituzionale della riforma. Il ddl Casellati passa ora all’esame della Camera.

NONOSTANTE IL DIBATTITO parlamentare sul premierato duri da oltre sei mesi, e nonostante il testo del ddl Casellati sia cambiato per quattro volte, non cessa lo stupore per questa riforma. Nata – come ha detto enfaticamente ancora ieri Giorgia Meloni – per assicurare stabilità all’esecutivo attraverso l’elezione diretta, essa in realtà tace su questo punto essenziale, enunciandone solo il principio (all’articolo 5), mentre costituzionalizza tutti i possibili meccanismi politici che destabilizzano gli esecutivi (all’articolo 7).

CERTAMENTE può essere attribuita all’imperizia della ministra Casellati parte della responsabilità, ma rimane la benedizione della premier Meloni all’operazione nel suo complesso che, oltretutto, viene messa in capo a Fdi nell’ambito del patto tra i tre partiti di governo. Entrare nel merito della riforma aiuta a capire la mobilitazione che sta suscitando fuori dai Palazzi, non solo da parte dei partiti d’opposizione, ma anche di associazioni, parti sociali e anche costituzionalisti: oltre 100 di loro, di tutti gli indirizzi culturali e tra i più autorevoli in Italia, hanno aderito ieri all’appello di Articolo 21 contro il ddl Casellati.

IL TESTO APPROVATO dal Senato prevede che il Presidente del Consiglio verrà eletto a suffragio universale e diretto dai cittadini italiani e che la sua elezione avverrà «contestualmente» a quella di Camera e Senato, in modo da «assicurare» al vincitore la maggioranza in entrambe i rami del Parlamento. Come verranno eletti, sia il premier, sia il Parlamento, non è dato di sapere: la riforma tace. Con il 50% dei voti, come tutti i capi del governo a elezione diretta, da Macron a Milei? No, a mezza bocca si parla di una soglia attorno al 40%. Alla luce dell’astensionismo al 50% un premier di minoranza (in pratica basterà il 20% degli elettori) avrà in mano non solo le redini del governo, ma anche quelle del Parlamento, che sarà eletto «a traino» e quindi sarà l’estensione di quei comitati elettorali del premier che sono diventati gli attuali partiti personali. E avendo a quel punto in mano anche l’elezione del presidente della Repubblica, dei membri laici del Csm e di cinque giudici costituzionali. «In 20 mesi di governo – ha detto in Aula il capogruppo del Pd, Francesco Boccia – avete fatto 65 decreti legge con 50 voti di fiducia. Non vi basta questo strapotere?». Evidentemente no, evidentemente il modello di Repubblica a cui si mira è quello in cui il governo controllo anche i contrappesi e gli istituti di garanzia. La riforma, ha tuonato Meloni «restituirà ai cittadini il diritto di scegliere da chi essere governati». Meglio sarebbe stato dire «da chi essere comandati».

IN COMPENSO il ddl Casellati costituzionalizza tutti i possibili meccanismi di instabilità. Ad inizio legislatura il premier eletto deve ottenere la fiducia dal Parlamento, ma può essere bocciato una prima volta avendo in tasca una seconda chance. Un modo per incentivare sin dall’inizio della legislatura un braccio di farro tra partiti sulla squadra di governo e perfino a spingere il premier eletto a fare «scouting» per cercare in Parlamento altre maggioranze. E ancora: il premier eletto, in caso di crisi parlamentare o extraparlamentare, può dimettersi e ottenere un nuovo incarico dal Presidente della Repubblica anche cambiando la maggioranza.

COME SI PIEGA questa follia? È figlia del compromesso tra Fdi e Lega, con quest’ultima che è la grande vincitrice, alla luce dell’imminente approvazione definitiva dell’Autonomia differenziata: «A chi ha parlato di scambio tra le riforme, dico che non si chiama scambio ma accordo politico tra forze di maggioranza, che hanno diritto di farlo e che anzi la tengono unita» ha detto il leghista Massimiliano Romeo. Insomma tutto ciò che è estraneo a quel patto è stato e sarà rifiutato, dal soccorso di Italia viva e Matteo Renzi respinto al mittente, al tentativo di chi spera ancora di migliorare il testo alla Camera.

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Opposizioni di sinistra per una volta insieme a Roma. La piazza non è grande ma è piena e chiede un «fronte popolare» contro la destra. Ci sono volute le botte in parlamento e l’attacco alla Costituzione. Ieri il primo sì al premierato, avanza l’autonomia differenziata

OPPOSIZIONI IN PIAZZA. Dobbiamo tenerci strette, noi opposizioni, grida Elly Schlein dal palco di piazza Santi Apostoli. «Basta divisioni», il suo appello alle tante forze che si sono ritrovate insieme per un pomeriggio, […]

Il fronte del No una promessa di alternativa La manifestazione in piazza Santi Apostoli - LaPresse

Dobbiamo tenerci strette, noi opposizioni, grida Elly Schlein dal palco di piazza Santi Apostoli. «Basta divisioni», il suo appello alle tante forze che si sono ritrovate insieme per un pomeriggio, con un campo larghissimo da Rifondazione e Santoro fino ai liberali di +Europa, per dire no al premierato e all’autonomia. Ma soprattutto un secco no ai rigurgiti (post?) fascisti della destra di governo.

Uno strano allineamento di pianeti ha riunito questo arcipelago che alle europee ha preso più voti delle destre, ma che è ben lontano dal darsi il profilo di una coalizione alternativa.
Per il momento si presenta come un fronte «in mobilitazione permanente», dice Schlein, che si prepara a diventare fronte referendario se il premierato completerà i prossimi tre passaggi parlamentari. Un fronte potenzialmente vincente di cui la leader Pd è una potenziale «federatrice», come predisse mesi fa Romano Prodi.

Un primato tra i progressisti che le viene riconosciuto nella scaletta del comizio, a lei tocca l’ultima parola e che, dopo il 24 % alle europee, nessuno osa più mettere in discussione. È lei che oggi ha la maggiore responsabilità di costruzione una coalizione da questa macedonia che si è vista in piazza Santi Apostoli, quella dell’Ulivo del 1996 e poi dell’Unione del 2006, da Mastella a Turigliatto, più o meno la stessa ampiezza di ieri pomeriggio e non andò a finire bene.

Ci voleva Giorgia Meloni, ci volevano le botte al deputato 5S Donno, reo di aver portato un tricolore al ministro Calderoli, con la premier che dal G7 accusa gli esponenti delle minoranze di essere dei «provocatori» per vedere dietro allo stesso palco Vincenzo De Luca e Paola Taverna, Maurizio Acerbo di Rifondazione e l’ex finiano Benedetto Della Vedova, Chiara Appendino e Bobo Craxi. Mentre sul palco parlava Alfonso Gianni dei comitati che nel 2016 dissero no alla riforma Renzi-Boschi, nel backstage c’erano molti pasdaran renziani, da

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