GOVERNO. Il Pd è un partito tardo novecentesco in crisi di identità, tra «socialisti», Terza Via e New Labour; il M5S è di questo nuovo, confuso, secolo: un coacervo di istanze di solidarietà. Una coalizione progressista compete con la destra solo se propone una società più equa, che offra opportunità reali di vita per tutti non solo per i vincenti della globalizzazione
Ragionare sulle prospettive dell’opposizione al governo Meloni non è facile. Non siamo in un sistema a due partiti, e neppure in uno in cui ci sia una formazione politica che, per consistenza numerica e per chiarezza delle idee, domina l’insieme dei partiti che non fanno parte della maggioranza. Le due forze principali che siedono nei banchi dell’opposizione, il Pd e il M5S, sono potenzialmente in competizione, anche quando (occasionalmente) collaborano.
Questa situazione non dipende soltanto dal sistema elettorale. Ci sono anche fattori che riguardano la cultura politica a rendere problematica la costruzione di una vera coalizione. Se il Pd è ormai da anni un partito tardo-novecentesco in crisi di identità – diviso tra chi vorrebbe collocarsi con convinzione a sinistra, seguendo l’esempio dei socialisti spagnoli, e chi invece coltiva la nostalgia della Terza Via e del New Labour – il Movimento Cinque Stelle è pienamente una creatura di questo nuovo, confuso, secolo: un coacervo di istanze di solidarietà e di riflessi di difesa di interessi sociali, che guarda soprattutto ai “perdenti” della globalizzazione.
Anche i leader di queste due forze politiche non sembrano fatti per intendersi. Elly Schlein ha una sensibilità forte per i temi che sono tipici dei giovani progressisti europei: apertura al mondo, pluralismo dei valori e delle scelte di vita, attenzione all’ambiente e ai deboli. Giuseppe Conte è invece, e non solo per ragioni anagrafiche, meno attento ai nuovi diritti di libertà, e più propenso a guardare a quelli sociali, minacciati dalle politiche neoliberali (che nel passato recente sono state portate avanti anche dal Pd). Nessuno dei due sembra per ora interessato a trovare una sintesi. Schlein probabilmente per timore dell’opposizione interna dei cosiddetti riformisti, che non vedono l’ora di sostituirla con un esponente dell’area moderata del partito, anche perché possono contare su un ampio sostegno da parte della stampa centrista. Conte perché non ne avverte il bisogno. La sua non è una forza politica di visione – non a caso non ha rapporti con le grandi famiglie politiche europee – ma di reazione.
Questa situazione spiega, a mio avviso, la debolezza che l’opposizione nel suo complesso mostra nei confronti dell’attuale governo (analizzata con lucidità ieri da Andrea Carugati). Giocare di rimessa, tuttavia, non è una strategia sostenibile. Non solo perché dannosa nel lungo periodo per le prospettive elettorali sia del Pd sia del M5S, ma anche perché l’Italia corre il rischio di essere messa ai margini in un panorama internazionale in cui la destra è in ascesa ovunque, e esercita un’attrattiva molto forte anche sui centristi e sui conservatori di tipo tradizionale (dove esistono ancora).
A essere in gioco non sono soltanto le prospettive economiche di un paese che appare sempre meno in grado di competere, se non al ribasso, ma anche la stessa democrazia come l’abbiamo conosciuta nel secondo dopoguerra. Le destre europee e statunitensi stanno assumendo un profilo spiccatamente autoritario, che corre il rischio di cambiare rapidamente i termini del contratto sociale nato dal compromesso socialdemocratico (cui si sono a lungo adattati anche i conservatori). Sta nascendo una nuova destra che si offre come garante “forte” agli interessi economici, e che non si fa alcuno scrupolo nello smantellare ciò che rimane dello Stato sociale e dei diritti di libertà.
Per quel che riguarda la sinistra, in tutte le sue componenti, la via d’uscita da questo vicolo cieco non può che essere una ripresa dell’iniziativa sul piano politico, che metta in campo proposte radicali non solo per quel che riguarda i diritti di libertà e l’ambiente, ma anche per l’equità.
Una prospettiva che a me pare rafforzata da alcuni studi che sono stati presentati ieri sulle pagine del Guardian da Macarena Ares e Silja Häusermann, due scienziate della politica che fanno parte del “Progressive Politics Research Network”. Secondo le studiose non è affatto vero quel che per anni è stato sostenuto dai difensori della Terza Via, ovvero che, per vincere, la sinistra deve assecondare gli umori dell’elettorato conservatore sul piano sociale e gli interessi del capitale su quello economico.
Le nuove ricerche mostrano che una coalizione progressista potrebbe competere in maniera efficace con la destra, se recuperasse la forza delle proprie convinzioni, proponendo una società più equa, che offra opportunità reali di vita decente per tutti, e non solo per i vincenti della globalizzazione.
Questa credo, sia la sfida che Elly Schlein dovrebbe raccogliere, incalzando il M5S. Non sarà facile, per via delle condizioni peculiari del sistema politico italiano cui ho accennato, ma la posta in gioco è così alta che vale la pena di provarci. Non siamo più nel tempo dell’ambiguità, ma delle scelte.
Commenta (0 Commenti)INTERVISTA AL SEGRETARIO FIOM. Il sindacalista Cgil alla vigilia dell'incontro con il governo sull'amministrazione straordinaria: Dal 2021 denunciamo che Mittal non vuole investire: Morselli antisindacale, Bernabè inutile. Ora non siano i dipendenti a pagare. Meloni deve esserci: in gioco il futuro del paese
Una manifestazione dei lavoratori ex Ilva - Foto LaPresse
Michele De Palma, segretario generale della Fiom, la vicenda dell’ex Ilva è arrivata al redde rationem con la rottura fra governo e Mittal. Voi nel 2018 firmaste l’accordo con i franco indiani: non era meglio scegliere Jindal e la sua decabornizzazione?
Con i sé e con i ma non si fa la storia. Di sicuro in un momento così delicato noi continuiamo a far sentire la voce dei lavoratori, messi in secondo piano nella vertenza ex Ilva.
Voi valorizzaste quell’accordo soprattutto sotto l’aspetto occupazionale: tutti gli 11 mila lavoratori furono garantiti sebbene il passaggio dei 3 mila rimasti all’amministrazione straordinaria non è mai arrivato…
E noi infatti abbiamo sempre denunciato l’inadempienza della nostra controparte nel mancato rispetto dell’accordo, che salvaguardia tutti i lavoratori compresi quelli in amministrazione straordinaria. Ricordo sempre che i commissari hanno la custodia degli impianti. Mittal in questi anni non solo ha disatteso il piano industriale ma non ha nemmeno effettuato le manutenzioni necessarie per tenere in sicurezza gli impianti come denunciato dai nostri Rls a Genova, Novi Ligure e Taranto, col rischio di gravi incidenti sul lavoro oltre che danni ambientali.
La vera cesura avviene infatti quando Mittal chiama a dirigere l’ex Ilva Lucia Morselli, manager che voi metalmeccanici conoscete bene alla Berco e poi all’acciaierie di Terni: una vera tagliatrice di teste che entra in gioco quando il proprietario non vuole più mettere un euro.
La cesura avviene quando Mittal decide il deconsolidamento, ritira i suoi uomini e l’ex Ilva esce dal gruppo con le evidenti conseguenze finanziarie. Anche nella lunga vicenda in Fiat, non ho mai personalizzato lo scontro perché penso che come sindacalisti noi dobbiamo rappresentare l’interesse dei lavoratori. Posso però dire che con l’arrivo di Morselli abbiamo constatato il totale azzeramento delle relazioni industriali e la presa unilaterale da parte sua di tutte le scelte: se non è questo un comportamento antisindacale.
La risposta del governo dell’epoca fu la nomina di Franco Bernabè, boiardo di stato, uomo per tutte le stagioni e totalmente digiuno di siderurgia.
La prima volta che lo incontrammo ci prospettò un favoloso piano industriale di 10 anni. Io rimasi colpito perché la realtà che ci descrivevano gli operai nelle assemblee era opposta. E difatti quel piano si tramutò nella richiesta di un miliardo al solo scopo di dare continuità produttiva. Il governo dell’epoca gliene riconobbe 680 milioni, gli stessi di cui si continua a discutere e che non sono stati tramutati in aumento di capitale per avere il pubblico in maggioranza.
Ex Ilva è sempre stata una vertenza difficile per voi per lo scontro lavoro-ambiente. Paradossalmente ora anche gli ambientalisti tarantini, sempre contrari all’acciaieria, capiscono che la chiusura mette a rischio anche la bonifica. Questo paradosso apre una speranza?
Io mi metto sempre nei panni dei lavoratori di Taranto che vivono la città e gli effetti drammatici dell’inquinamento. Una parte di opinione pubblica ha pensato che ci fosse una responsabilità dei sindacati nell’aver messo il lavoro davanti alla tutela dell’ambiente. Ma la Fiom ha sempre messo al centro la dignità, come prevede l’articolo 41 della nostra costituzione. Tanto è vero che ci siamo costituiti parte civile sull’inquinamento e sulla tutela dei lavoratori. È stata la rendita, il capitale a voler guadagnare senza rispettare ambiente, leggi, sicurezza sul lavoro. Esempi di riconversioni green di acciaierie ce ne sono in Europa, dobbiamo riuscirci anche qui, non esistono scorciatoie. Con le associazioni ambientaliste dobbiamo costruire un nesso tra lavoro e ambiente per la transizione ecologica della siderurgia.
Veniamo a lunedì. Molti vaticinavano un accordo in extremis fra Mittal e governo che invece non c’è stato. Cosa succederà? L’amministrazione straordinaria ha in sé molti rischi: azzeramento dei crediti e scontro legale con gli indiani che vogliono un indennizzo per lasciare.
I lavoratori non possiamo pagare il prezzo dell’attendismo dei vari governi. La volontà di Mittal di non investire era evidente già allora ma noi sindacati venivano canzonati quando la denunciavamo. Oggi perfino i commentatori più liberal-liberisti chiedono la nazionalizzazione ma il problema è che ci arriviamo con due anni di inerzia. Per noi ci sono tre condizioni imprescindibili: il mantenimento dei livelli occupazionali, della bonifica ambientale, della produzione sostenibile. Occorre mettere in sicurezza i lavoratori, gli impianti e l’ambiente. Il governo deve sapere che useremo tutti i mezzi a nostra disposizione perché qualsiasi soluzione ci sia prospettata le preveda tutte e tre. Per garantire il rilancio dell’ex Ilva occorre garantire a Taranto il ciclo integrato con Afo 5, i forni elettrici e il Dri, a Genova il ripristino del carroponte e l’implementazione della produzione di latta e manutenzione straordinaria a Novi e in tutti gli altri stabilimenti.
In tutto questo scontro dentro il governo, Giorgia Meloni non ha mai detto una parola.
In una vertenza così la presidente del consiglio ci deve essere perché senza acciaio non c’è futuro industriale per il paese. Noi, con Fim e Uilm, davanti all’interesse straordinario, abbiamo costruito, nelle differenze, una posizione unitaria. Vorrei che lo facesse anche tutta la politica, opposizione compresa
SINDROME DEL PRECETTORE. Su ogni evento Pd, M5S e le alte minoranze invocano una parola dalla premier. Col malcelato desiderio che lei si mostri moderata e di buon senso, quello che non è. E invece è giusto che la destra si manifesti nella sua essenza, e che le sinistre non cerchino di pettinarla, ma raccontino i loro progetti per l'Italia, evitando l'ossessione che ci fu per Berlusconi. Altrimenti, al centro del racconto c'è sempre e solo la leader di Fdi
Non cade foglia che le opposizioni non invochino il pensiero di Giorgia Meloni. «Dica qualcosa!», le intimano. Ma perché? Sta in questa continua richiesta alla premier di manifestarsi il compito di chi vorrebbe sostituirla?
Per Pd, M5S, sinistra, verdi, e talvolta persino i centristi, sembra proprio di sì. E su questa continua richiesta di favella a Meloni sono unite come una falange macedone. Che si tratti del deputato pistolero di Biella o del nuovo Patto di stabilità, dei camerati riuniti a via Acca Larentia o della guerra in Medio Oriente, i fieri oppositori hanno un pensiero fisso: «Ma Giorgia cosa pensa?»
In questo continuo invocare la premier non c’è una solo una pericolosa subalternità, l’idea cioè che fare opposizione consista in un continuo controcanto, in un lamento che vede sempre al centro di ogni discorso la figura della premier e che dovrebbe- così pensano- indignare e mobilitare le masse. C’è un racconto dell’Italia assai più Meloni-centrico di quanto non accada nel paese reale, tra le persone comuni che non hanno il chiodo fisso dell’inquilina di Palazzo Chigi.
Ma c’è di più: nelle continue invocazioni, c’è il desiderio che la premier dica cose di buonsenso, di centro, almeno un po’ moderate. Le si chiede di prendere le distanze da deputati e dirigenti che sognano Mussolini e vanno in giro armati dimenticando che quella dei Delmastro e soci è la classe dirigente che è cresciuta insieme e attorno a lei. Le si chiede di dire parole chiare sull’antifascismo quando è ormai chiaro che la leader di Fdi non ha alcuna intenzione di farlo.
Dimenticando che la sua natura estremista sarebbe persino un vantaggio per chi si pone l’obiettivo di sostituirla al più presto. E invece no. Nelle opposizioni, soprattutto nel Pd, prevale la “sindrome del precettore”, che sente l’incomprimibile dovere di correggere l’alunna un po’ somara sui fondamentali della Costituzione: «No, Giorgia, così non va bene, facciamo brutta figura, un premier che si appresta a guidare il G7 non può avere seguaci col saluto romano».
Una volta, forse, questo atteggiamento “bon ton” poteva essere contemplato, quando negli Usa bastava una scappatella per fare secco, politicamente, un candidato alla presidenza. Ora, con Trump che incombe un’altra volta insieme alle sue truppe con lo Sciamano, anche questo riflesso d’ordine del «facciamo brutta figura con i partner internazionale» avrebbe potuto essere archiviato dai dem italiani. La destra è quella che è, su entrambe le sponde dell’Atlantico, e non c’è alcun bisogno di una sinistra benpensante che provi a pettinarla, a renderla più istituzionale e europeista.
Semmai ci sarebbe bisogno di una sinistra che offra ricette completamente diverse ai segmenti più fragili della società, una possibile soluzione ai loro problemi diversa dal nazionalismo e dall’autoritarismo. Se persino Prodi, padre della Terza via con Blair e Clinton, a dicembre a un evento Pd ha detto che «ora serve non dico la rivoluzione, ma qualcosa di radicale, di forte, per ridurre le diseguaglianze inaccettabili», forse è su questo che i cosiddetti progressisti dovrebbero interrogarsi ed esternare. Schlein ha vinto le primarie del febbraio 2023 accennando questa nuova linea più di sinistra.
Nell’attesa che si manifesti in modo più chiaro, abbandonando almeno qualche giorno Meloni al suo destino, si possono ricordare i danni provocati a sinistra dall’ossessione per Berlusconi dal 1994 in poi. In quel caso la subalternità fu pressoché totale (con l’eccezione dei governi Prodi): mentre in Italia il precariato dilagava e la distanze tra gli stipendi degli operai e quelli dei manager crescevano esponenzialmente, le sinistre pensavano solo a lui, agli scandali e alle leggi ad personam. Qualche ragione, almeno all’inizio, c’era: il Cavaliere è stato un fenomeno nuovo nell’Occidente, col suo colossale conflitto d’interessi e l’impero mediatico al servizio di un partito personale. Meloni, con tutto il rispetto, è una furba politicante di tipo tradizionale. Non c’è alcuna ragione di restarne ipnotizzati
Commenta (0 Commenti)Il misterioso Piano Mattei resta tale anche nel giorno in cui arriva in aula come decreto d’urgenza. Molte promesse, pochi soldi, è l’idea antica di «sviluppo e prosperità» su cui punta il governo per soddisfare il nostro bisogno di energia e risolvere tutti i problemi dell’Africa
PIANO MATTEI. Italia a tutto gas e zero rinnovabili. L'unica urgenza di procedere con un decreto è il bisogno delle risorse energetiche africane
Il presidente mozambicano Filipe Nyusi inaugura l'impianto gasiero di Coral - Zuma Press
Gas Pride. L’orgoglio italiano che Giorgia Meloni sprizza da tutti i pori ha trovato da qualche tempo un fulgido riferimento anche nella figura di Enrico Mattei, a cui è intitolato – copyright Eni – l’assai fumoso piano di cui ieri si è intravisto a malapena il solo contenitore. Un orgoglio vagamente spaccone, che sconfina appunto nella superbia e nella debordante autostima. «Sentimento unilaterale ed eccessivo – per restare alla prima definizione del dizionario – della propria personalità o casta».
Stando invece alla terminologia ricca di «valori etici» e «doveri morali» con cui viene infiocchettata la scatola ancora vuota del Piano Mattei, e volendo credere alla solenne promessa di rinunciare allo spirito «predatorio» che fin qui ha istruito l’asimmetrico rapporto tra potenze occidentali e paesi africani, la destra di governo italiana sembra voler divaricare ancora un po’ il suo sogno contro-egemonico. E così, dopo aver macinato indistintamente le saghe di Tolkien (tipico predatore seriale che ha attinto a piene mani dal Kalevala, l’opera magna dell’epica finnica) e l’epopea di Mattei, Marinetti, D’Annunzio, e persino Gramsci, ora minaccia di allungarsi fino a Thomas Sankara e alla sua rivoluzione rosso-verde. Se mai lo scopo fosse quello di stabilire rapporti paritari, di scommettere sulla sicurezza alimentare e sulle risorse umane, invece che fossili, dell’Africa.
Ma non è il caso di esagerare. Basterebbe cominciare in realtà con l’abbassare i saluti romani e dare una letta ai lavori dello storico Angelo Del Boca, per rinfrescare la memoria sulle
Leggi tutto: Piano Mattei, la memoria fossilizzata della nostra Africa - di Marco Boccitto
Commenta (0 Commenti)Il giornalista Raffaele Oriani ha interrotto volontariamente la collaborazione professionale con il settimanale Venerdì de La Repubblica. Il collega Oriani ha motivato la sua interruzione della collaborazione professionale spiegando che si tratta di una protesta (e un netto rifiuto) della politica redazionale del famoso quotidiano italiano riguardo alla narrazione della pulizia etnica e genocidio in corso nella Striscia di Gaza. Infatti Repubblica (Il Venerdì compreso) sembra essersi allineata alle direttive discretamente e ufficiosamente diramate da Washington. In un primo tempo queste direttive “consigliavano” le redazioni dei media occidentali a giustificare il massacro di civili palestinesi compiuto dal regime teocratico di Tel Aviv con il “diritto di difesa”. Quando questi massacri hanno raggiunto dimensioni di pulizia etnica ormai prossime al genocidio, i media occidentali hanno ricevuto il “consiglio” di mitigare il tutto e oscurare le centinaia di migliaia di testimonianze, insieme a foto e video dei crimini contro l’umanità commessi a Gaza. A dimostrazione di come questi “consigli” siano stati diligentemente applicati dai media italiani, la notizia della coraggiosa richiesta alla Corte di Giustizia Internazionale fatta dal governo del Sudafrica e dalla Turchia di incriminare Israele per genocidio, è praticamente passata in sordina.
Le motivazioni del collega Oriani, che qui riportiamo per intero, sono state indirizzate alla redazione del quotidiano, cioè ai suoi colleghi, e pubblicate sui social.
Un atto di estremo coraggio in quanto Oriani, giornalista professionista i lunga esperienza e di certo non propenso ad atti impulsivi, comprende in pieno che le sue motivazioni scateneranno la vendetta degli “oracoli della verità” e dei “odiatori seriali”. Sarà probabilmente inserito nelle liste come sono stati inseriti tanti altri onesti giornalisti e intellettuali dal professore Orsini al giornalista e direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Persino Elena Basile, ambasciatrice molto stimata durante la sua carriera negli ambienti “che contano” a Washington e Bruxelles, è stata inserita nella lista degli “immondi innominabili”.
“Care colleghe e colleghi – ha scritto nella sua lettera alla redazione il collega Oriani- ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con il Venerdì. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni ed è sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile tareticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15). Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra.
Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.
Come è noto il quotidiano Repubblica (e i suoi supplementi, tra i quali il Venerdì è il più prestigioso e diffuso) sono diretti dal giornalista e saggista Maurizio Molinari, premiato nel novembre 2022 dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky con l’onorificenza dell’Ordine al Merito di III classe per il supporto mediatico al governo di Kiev. L’identico governo ora sotto la lente dell’opinione pubblica e di vari media ucraini per l’insensato sacrificio di vite umane senza ottenere la minima vittoria militare, i casi di corruzione che affiorano ogni giorno e le violenze dei movimenti neonazisti, minoritari nella società ucraina ma che tengono in ostaggio l’intero Paese (Zelensky compreso) grazie alla loro decennale infiltrazione nel governo, istituzioni, forze armate, incoraggiato, favorito e finanziato a partire dal 2014 dall’allora vice presidente e attuale presidente Joe Biden.
Nonostante il fatto che le violenze, l’incapacità militare e la corruzione che erode i fondi occidentali dirottati per arricchire la cricca di Kiev invece di essere usati per la difesa del Paese, fossero tutti crimini noti fin dal 2016, per tutto il 2023 i media “ufficiali” hanno garantito il supporto acritico, incondizionato al regime di Kiev, negando i suoi numerosi lati oscuri e rischiando spesso di oltrepassare i labili confini che demarcano l’informazione dalla propaganda.
La coraggiosa presa di posizione del giornalista Raffaele Oriani giunge 4 giorni dopo il messaggio del Santo Padre ai giornalisti tedeschi: “I media non debbono lasciarsi utilizzare da chi vuole fomentare i conflitti”.
“Quanti conflitti oggi, anziché essere estinti dal dialogo, sono alimentati da notizie false o da dichiarazioni incendiarie che passano attraverso i media! Perciò è ancora più importante che voi, forti delle vostre radici cristiane e della fede quotidianamente vissuta, SMILITARIZZATI nel cuore dal Vangelo, sosteniate il disarmo del linguaggio”. Papa Francesco invita dunque gli operatori della comunicazione a “favorire toni di pace e di comprensione, costruire ponti, essere disponibili all’ascolto, esercitare una comunicazione rispettosa verso l’altro e le sue ragioni”.
Difficile che l’esempio di Oriani sia seguito da altri nostri colleghi. Resta che Oriani ci ha fatto vedere che il Re è nudo e che non dovrebbe esservi posto in una Società Civile e Democratica per gli odiatori seriali, promotori di messaggi di morte.
Aurelio Tarquini
Commenta (0 Commenti)REPORT. La morte di Aldo Moro è una tragedia politica, forse la sola vera tragedia politica dell’Italia repubblicana, derubricata da decenni a romanzetto di spionaggio da due soldi. Una infinita teoria […]
La morte di Aldo Moro è una tragedia politica, forse la sola vera tragedia politica dell’Italia repubblicana, derubricata da decenni a romanzetto di spionaggio da due soldi. Una infinita teoria di volumi e articoli e relazioni di commissioni d’inchiesta concentrata sulla posizione di una scopa messa ad asciugare da Barbara Balzerani nella base di via Gradoli, «ecco come voleva indirizzare il getto d’acqua della doccia per far scoprire il covo», oppure a misurare col metro la distanza dal marciapiede delle macchine posteggiate in via Fani la mattina del 16 marzo, «dieci cm in meno e la scorta sarebbe riuscita a svicolare: sarà davvero un caso?». Note a pie’ di pagina per tutto il resto: per il dramma lacerante di chi accettò di sacrificare l’amico e di farlo passare per pazzo pur di evitare una crisi di governo pericolosissima nella situazione di tensione estrema che si era creata dopo le elezioni del 1976; per il dilemma di un’organizzazione armata, di certo del suo capo, che si sentì costretta a concludere il sequestro con un efferato omicidio pur sapendo che quell’esito era una sconfitta devastante; per la vittima, la cui tragedia avrebbe meritato la penna di uno Shakespeare e ha dovuto accontentarsi di Sergio Flamigni o peggio.
Il lungo servizio di Report dedicato al caso due giorni fa segna un ulteriore slittamento: la degenerazione involontaria in satira, una messa in ridicolo di se stessa della dietrologia che, se consapevole, avrebbe toccato punte di genialità e fatto ululare di gioia Guy Debord il Situazionista.
Neppure gli appassionati di complotti dallo stomaco di struzzo possono essere rimasti imperturbati sentendo raccontare che Moro, l’uomo più ricercato del mondo, veniva trasportato da una casa all’altra nella città in stato d’assedio, spostato in una villa al mare, lasciato sulla spiaggia ad abbronzarsi, riportato nel cuore del centro di Roma nonostante la marea di posti di blocco. Nessuno può aver sentito senza batter ciglio che nella palazzina indicata come prima nella serie di prigioni coabitavano, evidentemente tutti d’accordo, l’ambasciatore iraniano presso la Santa Sede, nella cui magione sarebbe stato rinchiuso il rapito, l’uomo di fiducia del cardinal Marcinkus, che passava di lì per farsi il barbecue, l’agente Nato rotto a ogni orrore, l’amica di Franco Piperno che naturalmente ospitava a sera il pericoloso autonomo per una rimpatriata: la Pantera Rosa sull’Orient Express di Agatha Christie. E poi l’M16 inglese, la Cia, il Mossad, la ’ndrangheta, la P2, Gladio, il commissario fellone di Monte Mario, la Nato, e a tirare i fili la stessa mano che aveva armato gli assassini dei fratelli Kennedy. Perché? Ma per difendere la logica di Yalta, ovvio. Senza dimenticare Kissinger, che aveva minacciato Moro cinque anni prima, e certo nel ’78 non era più segretario di Stato, era stato rimpiazzato dalla dottrina Carter, non diversa ma opposta, ma sono particolari ininfluenti.
L’ex leader socialista Signorile si è ripetuto certo di aver sentito con le sue proprie orecchie la polizia avvertire Cossiga del ritrovamento della macchina con salma qualche ora prima della nota telefonata di Morucci al professor Tritto. Sarebbe un elemento da approfondire. Non perché sia davvero credibile che la polizia fosse al corrente di cosa conteneva il bagagliaio della Renault rossa prima della telefonata, salvo assegnare a Cossiga stesso la parte ballerina di capo delle Br dopo Negri e Tognazzi. Però, complice un qualche sfalsamento nella memoria dell’autorevole testimone, magari è possibile che dopo la telefonata di Morucci una rapida ricognizione preventiva ci sia stata. I misteri, comunque, a roba del genere si riducono.
Non c’erano novità nel programma di Ranucci, neppure un mistero piccolo piccolo ma nuovo di zecca. In compenso è stata quasi una summa dei misteri presunti che si accumulano da decenni, sino a comporre un’enciclopedia sbrigliata. Averceli squadernati uno accanto all’altro è stato comunque utile. Quella massa contraddittoria e confusa, fondata su suggestioni invece che su prove, su accostamenti illeciti e deduzioni bislacche, ha rivelato la miseria della dietrologia che infesta la memoria come nient’altro poteva fare.
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