INTERVISTA AL SEGRETARIO UIL. Il leader sindacale: la patrimonializzazione ha portato a zero gettito. Aiutano i ricchi e tagliano 60 miliardi sulle pensioni. Recuperare la Cisl? Spero, ma senza annacquare le nostre critiche al governo
Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti - Foto LaPresse
Pierpaolo Bombardieri, segretario generale della Uil, lei è stato il primo a chiedere di tassare gli extraprofitti. Ora scopriamo che in Italia quelli sulle banche daranno gettito pari a zero mentre nel resto di Europa il tema è sempre più all’ordine del giorno e viene legato al Mes e al nuovo Patto di stabilità: l’Italia del governo Meloni e di Giorgetti sembra andare in direzione contraria.
Io penso che il governo Meloni abbia fatto un uso politico del tema degli extraprofitti. In estate la presidente del Consiglio si è intestata la decisione di tassare le banche ma lei e Giorgetti erano già d’accordo a modificare la norma, come poi è stato fatto. La trasformazione in patrimonializzazione delle banche è stata fatta in previsione di un voto negativo sul Mes.
Quindi secondo lei visto che le polemiche sul Mes riguardavano proprio il rischio di «salvare le banche tedesche coi soldi degli italiani», come sostengono molti nella Lega, il governo ha voluto rendere più solide le banche italiane, ripatrimonializzandole, per far digerire alla commissione Ue e ai partner europei il No al Mes del parlamento?
Sì, mi sembra evidente. Noi critichiamo il Mes come istituzione privatizzata, ma pensiamo che della partita faccia parte anche il nuovo Patto di stabilità sul quale il governo Meloni e Giorgetti non hanno toccato palla e che produrrà effetti molto negativi. Giorgetti in parlamento è stato sincero quando ha parlato di “mediazione” ma il nuovo Patto ci riporta all’austerità e non punta assolutamente sulla crescita come noi chiedevamo. Anche perché la “flessibilità” sul rientro dei rapporto debito-defici/Pil sono legati a condizionalità precise: le solite riforme richieste da Bruxelles, dal taglio delle pensioni alla riforma dell’Imu sulla prima casa, alla messa a bando delle concessioni balneari.
Sulle pensioni già questa legge di Bilancio ha messo le mani avanti: fra taglio delle rivalutazioni e taglio delle future pensioni di 732 mila dipendenti pubblici (compresi 55 mila medici), voi stimate in 60 miliardi i “risparmi” da qui al 2043. Il tutto mentre Elsa Fornero inizia a parlare di patrimoniale necessaria…
Ho chiesto al governo di confutare i 60 miliardi di tagli sulle pensioni ma nessuno lo ha fatto e soprattutto nessuno ne parla. Mi si risponde: “I tagli riguardano le pensioni sopra i 2mila euro al mese”. Ma si tratta di valori lordi, nette sono 1.500 euro e il taglio futuro sui dipendenti pubblici è del 25-30%. Sono entrambi inaccettabili. Se Fornero finalmente ci dà ragione sulla patrimoniale sono contento ma una battuta nel pollaio dei talk show non la considero una svolta.
La vostra valutazione della legge di Bilancio è molto negativa. I tanti scioperi fatti con la Cgil hanno sortito effetti?
Il mese di scioperi e mobilitazioni hanno convinto il governo a confermare il taglio del cuneo e a fare una piccola marcia indietro sulle pensioni dei medici. Di certo non basta ma le registriamo. Quello che va detto è che il governo Meloni colpisce le pensioni e la sanità mentre non tocca le banche: colpisce i poveri e aiuta i ricchi. La maggioranza festeggia il rating di Moody’s ma è normale che un’agenzia premi un governo che taglia le pensioni e difende le banche.
Intanto la prossima legge di Bilancio è già compromessa dal nuovo Patto di stabilità: il think tank Bruegel prevede 13 miliardi l’anno di correzioni da qui al 2027, con i 10 miliardi per rendere strutturale il taglio del cuneo, Giorgetti e Meloni partono con 23 miliardi da trovare.
Anche se la correzione fosse di 7-8 miliardi i conti sono quelli e di certo il taglio del cuneo non si potrà fare in deficit come quest’anno. Quindi il governo Meloni è atteso da un altro anno di difficoltà, acuite dal suo sovranismo che non porta niente di buono. Servirebbe più Europa, non meno, soprattutto per gestire socialmente la necessaria transizione ecologica. Ma con questo governo mi aspetto solo tagli al welfare e condoni ai ricchi.
A proposito di Europa, venite dalla manifestazione a Bruxelles della confederazione dei sindacati Ces del 12 contro l’austerità: arrivarete finalmente allo sciopero europeo?
Dobbiamo dirci la verità: il problema riguarda i tedeschi. Alla mobilitazione di Bruxelles dal Dgb, la confederazione tedesca, non ha partecipato ed è schiacciata sulle posizioni del suo governo. La mobilitazione però è stata un successo di partecipazione e di visibilità, lo sciopero europeo è il prossimo passo.
Passando in Italia, voi e la Cgil avete già annunciato che la mobilitazione contro il governo va avanti. Nel frattempo il 22 lo sciopero unitario del terziario è stato un successo: può essere un viatico per recuperare l’unità confederale con la Cisl?
Lo speriamo tutti. Noi e la Cgil gli scioperi e la mobilitazione li abbiamo fatti rispetto alla Piattaforma unitaria sottoscritta anche dalla Cisl. Noi andremo avanti a denunciare lo sfascio della sanità pubblica, il taglio delle pensioni, i contratti non rinnovati. Senza dimenticare la strage sul lavoro: ieri a Urbino sono morti quattro lavoratori su un’ambulanza guidata da una nostra Rsu. Dunque per il 2024 io spero tanto di recuperare la Cisl ma non sono disposto ad annacquare le critiche al governo Meloni
la guerra indiscriminata ai palestinesi ha visto lanciare in una settimana un tonnellaggio di bombe pari a un anno di bombardamenti americani in Afghanistan, mentre la macchina di intelligenza artificiale Habsora (“Il Vangelo”) produce giorno per giorno un numero di bersagli tanto elevato da non poter essere esaurito dall’aviazione israeliana. Dedichiamo dunque le immagini di oggi ai bombardamenti indiscriminati che allora come adesso sono una tecnica di distruzione di massa frutto di un’etica putrida.
Quanto sta avvenendo in questi giorni nelle zone più disperate della Striscia di Gaza, in campi profughi realizzati nel 1948 e in cui, né i Paesi arabi vicini, né l’occupante israeliano, ma nemmeno le Nazioni Unite hanno mai voluto provvedere a trovare soluzioni dignitose, è semplicemente mostruoso. Il bilancio dei bombardamento in 24 ore parla di almeno 200 vittime, tutti civili, al 50% minorenni, come in tutta Gaza. Si sommano alle altre e agli altri risultati della “reazione” agli attacchi del 7 ottobre, per almeno 21 mila morti, ma mentre scriviamo la cifra sale.
Per Israele la guerra (il genocidio), continua come se nulla fosse: si bombardano ospedali, sedi della Mezzaluna Rossa, dove si concentrano non miliziani di Hamas ma gli aiuti umanitari, si bombarda a tappeto anche con ordigni pesanti perché nulla debba rimanere in piedi. Inutile cercare paragoni col passato, le strategie di guerra si adeguano ai mezzi sofisticati di cui si dispone, al terreno in cui si combatte, agli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere, con l’unico risultato di aumentare l’elenco di morti, di persone ferite, di famiglie al freddo e alla fame, senza accesso ad alcun sostegno sanitario, alla semplice risorsa idrica.
Difficile comprendere se l’obiettivo di questo crimine internazionale per cui dovrebbero finire alla sbarra non solo i ministri dell’intero governo di Tel Aviv ma, con le stesse responsabilità, i complici USA e UE, non solo silenti ma sostenitori di fatto degli eccidi, sia la pulizia etnica totale, una nuova “Nakba” o il “semplice” annientamento di qualsiasi forma di resistenza. Fatto sta che le feste di Natale continuano a colare sangue di innocenti, fatto sta che per ogni persona che cade in questo mattatoio, il bisogno di vendetta e di giustizia – i confini saranno sempre più labili – continuerà a crescere, riguarderà generazioni e non avrà confini.
Chiudiamo l’anno di un pianeta in cui la guerra sembra essere la regola e non l’eccezione, con la tremenda certezza che lo strazio non finirà domani, che anche chi sommessamente prova a pronunciare parole di pace finisce nel tritacarne mediatico di coloro che disumanizzano l’altro e che non ammettono cedimenti, non si fermano e non si fermeranno, in ogni angolo del mondo dove qualcuno spara, bombarda, incarcera, uccide, per difendere il proprio potere. Volendo centrare lo sguardo su quanto accade nel Vicino Oriente, noi di Transform, soprattutto in questi ultimi mesi ma anche in passato, abbiamo provato a scrivere, riflettere, raccogliere voci, cercare di comprendere le tante questioni che rendono insolubile il conflitto in quelle terre.
Abbiamo cercato di farlo – non sempre magari ci siamo riuscite/i – mettendo da parte il nostro punto di vista sì marxista ma anche occidentale e viziato da colonialismo difficile da sradicare. Partiamo dall’assunto che, soprattutto per chi intende cambiare il mondo qui ed ora, sia necessario sviluppare una conoscenza delle interconnessioni nel pianeta, più adeguato ai tempi. Il nostro è un punto di vista mai equidistante: c’è un occupante e un occupato, una Resistenza e chi vuole annientarla, con ogni mezzo. Ma non siamo campisti, cerchiamo anche di comprendere le contraddizioni, la complessità politica di un’area geografica e culturale che è stata culla di civiltà.
Non siamo stati alla ricerca delle sfumature ma dei concetti adeguati per parlare dell’ennesimo conflitto parte integrante della guerra mondiale a pezzi che si sta combattendo e che, in questo caso, si va estendendo a macchia d’olio coinvolgendo, direttamente o indirettamente potenze regionali e mondiali, consapevoli di essere di fronte ad un precipizio di fronte al quale il silenzio è complicità. A guidarci, sarà un nostro limite, non sono soltanto i tentativi di analisi più o meno adatti, il bisogno di intuire e di prendere posizione concreta nella consapevolezza che la logica del genocidio attraversa la storia dell’umanità da centinaia d’anni ed ogni volta riesce a sorprenderci per le sue nuove, oscene, modalità con cui si realizza.
A guidarci è soprattutto – ed è un elemento politico – lo sguardo di chi paga le conseguenze di scelte disumane, i volti soprattutto delle persone più vulnerabili, le abitazioni rase al suolo dalla potenza bellica per cui l’UE ad esempio non considera praticabili alcuni vincoli restrittivi. Quei volti, quelle case, quelle urla, sono divenute la storia di questo anno terribile, sono il punto di non ritorno di cui dobbiamo essere consapevoli. È per tale ragione che, a fine anno, vi lasciamo un numero forse privo prospettive, che rende più difficile farsi gli auguri di buon anno. Solo un saluto carico di dolore e di pensieri cupi da cui forse, se si è in tante/i e se non si vuole restare in silenzio, si potrà ripartire.
Dalla parte della pace, dalla parte di chi un tempo, occupando ruoli fondamentali nelle istituzioni, era in grado di dire “Svuotare gli arsenali, riempire i granai”.
Stefano Galieni
MEDIO ORIENTE. Intervista al deputato del Partito democratico Arturo Scotto, di ritorno dai territori occupati e da Israele
Arturo Scotto e Roberto Speranza, deputati eletti nelle liste del Pd, hanno passato tre giorni tra Gerusalemme, Ramallah e Nablus. Sono stati tra i primi europei a entrare a Betlemme dall’inizio della guerra. Sono stati al kibbutz di Kfar Aza dove dalla prima casa attaccata di Hamas si vede Gaza city. Hanno incontrato, tra i tanti, la deputata arabo-israeliana Adua Touda, sospesa per due mesi dalla Knesset perché ha parlato di crimini di guerra a proposito di Gaza e le famiglie delle vittime e degli ostaggi che esprimono critiche durissime a Netanyahu. «La guerra sarà ancora lunga – dice Scotto – Magari avrà qualche altro scenario di tregua sugli ostaggi, ma dal punto di vista militare hanno deciso di spianare Gaza. E di chiudere la partita anche con l’Autorità nazionale palestinese».
In che modo?
Hanno portato allo stremo anche la West Bank. Stimano la caduta del Pil dell’80%, dopo che gli stipendi si sono dimezzati. Il messaggio che rischia di passare ai palestinesi è che Hamas li difende mentre l’Anp non paga neanche stipendi. Mohammad Shtayyeh, primo ministro palestinese, sostiene che Israele agli occhi della comunità internazionale ha perso credibilità e che al tempo stesso sul piano interno ha perso il mito della sicurezza.
Che prospettive hanno?
Considerano che nel medio periodo solo Anp possa governare Gaza, anche se nessuno ambisce a farlo mettendosi al traino dei carri armati di Israele. Mustafa Barghuthi, che abbiamo incontrato al Medical relief, dice che ambiscono a governo di unità nazionale anche se resta il problema delle elezioni. Ma per governare davvero hanno bisogno di un riconoscimento chiaro, per il quale potrebbe servire una forza multinazionale. Loro la immaginano come risorsa a controllo dei confini, sul modello dell’intervento in Libano di Unifil.
L’Italia cosa sta facendo?
Sul tema della cooperazione il governo italiano sta facendo cose inaccettabili: hanno bloccato dieci progetti per 4 milioni e mezzo di euro. Soltanto nel 2021 noi avevamo stanziato quindici milioni sulla cooperazione e 5 sull’emergenza umanitaria. Adesso non c’è più niente sulla cooperazione, restano 11 milioni sull’emergenza. E poi abbiamo congelato i 7 milioni di contributo all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite che ha attrezzato rifugi e presidi sanitari che fornisce cibo alla popolazione di Gaza. Quando il suo direttore è venuto a Roma, è riuscito a incontrare il Papa ma non a parlare con qualcuno del governo.
La Chiesa che ruolo svolge?
Abbiamo avuto un colloquio con il cardinale Pierbattista Pizzaballa proprio dopo il bombardamento che ha colpito la chiesa a Gaza. L’impressione è che il processo di dialogo interreligioso sia saltato. Ci hanno caldamente invitati ad andare a Betlemme. Prima siamo passati da Nablus, dove ci siamo impegnati a sbloccare i gemellaggi con Firenze e Napoli. Da lì siamo arrivati a Betlemme, dove abbiamo trovato uno scenario desolato: la piazza centrale vuota, tutto sbarrato. Alla chiesa della Natività c’era una messa con cinque ortodossi armeni, la parte cattolica era vuota.
Avete avuto contatti con la sinistra israeliana?
Aluf Benn, direttore di Haaretz, ci ha detto che Israele ha avuto una fiducia «messianica», ha usato questa parola, nella tecnologia trascurando invece i processi politici. Laburisti e Meretz, ormai ridotte a forze minoritarie, stanno lavorando almeno a una lista unitaria. La chiusura di Israele rispetto al resto del mondo rafforza la destra, che cresce sempre quando si riducono gli spazi delle società aperte.
E adesso?
Chiediamo il cessate il fuoco. Uno stato c’è già, è quello israeliano, e ha diritto di vivere in sicurezza. Ma anche il dato del riconoscimento dello stato di Palestina è fondamentale. Per la prima volta invece l’Italia ha abbandonato una tradizione di dialogo, mediazione, confronto con quel popolo
MEDIO ORIENTE. Siamo in guerra ma facciamo finta di niente e siccome non si è passati neppure da un dibattito parlamentare le nostre forze politiche, con qualche rara eccezione, fanno gli gnorri. Si va avanti così nella «guerra mondiale a pezzi» di cui parlava papa Francesco
Palestinesi in fuga dal nord alla periferia di Gaza City - Getty Images
Il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan, alla vigilia del massacro di Hamas del 7 ottobre aveva dichiarato che «negli ultimi vent’anni il Medio Oriente non era mai stato così tranquillo come oggi». Pochi giorni dopo gli Usa sono stati coinvolti nel conflitto fornendo bombe da 900 chili a Israele, quattro volte quelle usate a Mosul contro l’Isis, e stanziando 14 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele.
Visto che il congresso americano blocca i fondi all’Ucraina, è abbastanza chiaro per Washington qual è la guerra da vincere assolutamente. Mentre all’Onu per ora viene votata una singolare risoluzione minore sugli aiuti umanitari a Gaza, con Stati Uniti e Russia astenuti, che non chiede una tregua immediata; proprio mentre Israele assicura che «la guerra continua per il rilascio degli ostaggi», mentre Guterres ammonisce che è proprio «l’offensiva di Israele il vero ostacolo per gli aiuti a Gaza».
Ora il coinvolgimento Usa ed europeo è diventato diretto nel momento in cui gli Houthi, alleati di Teheran, hanno deciso di bersagliare con i droni le navi mercantili nel Mar Rosso dirette in Israele. Washington guida adesso una coalizione navale di «volonterosi» costituita da un ventina di Paesi tra cui l’Italia.
SIAMO in guerra ma facciamo finta di niente e siccome non si è passati neppure da un dibattito parlamentare le nostre forze politiche, con qualche rara eccezione, fanno gli gnorri. Si va avanti così nella «guerra mondiale a pezzi» di cui parlava papa Francesco e sulla quale ci facciamo quasi sempre un’opinione quando tornare alla diplomazia diventa impossibile.
Il conflitto in Medio Oriente si è già allargato con i missili tra gli sciiti Hezbollah e Israele su un confine dove lo Stato ebraico ha mobilitato 200mila soldati ed evacuato 80mila civili. Manovre per tenere sotto controllo la frontiera? In realtà sia Hezbollah che Teheran non sembrano intenzionati ad avviare un conflitto in grande stile: «La Siria ci è costata tantissimo», mi dice un diplomatico iraniano, mentre Israele con il suo ministro della difesa Gallant minaccia di tanto in tanto «di far tornare il Libano al Medio Evo». L’equilibrio qui appare sempre appeso a in filo.
Tutti i giorni, o quasi, Israele, partendo dal Golan che occupa dal 1967 (nonostante una recente risoluzione Onu gli imponga il ritiro), bombarda in Siria le postazioni di pasdaran iraniani ed Hezbollah libanesi, così come le milizie sciite bersagliano le basi americane nella regione petrolifere di Deir Ez-Zor che Washington non ha nessuna intenzione di mollare.
I raid israeliani in Siria sono il segnale che quell’accordo tra Putin e Netanyahu regge ancora: mai Mosca ha protestato contro il governo di Tel Aviv che prende di mira i maggiori alleati dei russi in Medio Oriente.
La Siria, dopo l’inizio della rivolta contro Bashar Assad nel 2011, è diventata una sorta di condominio militare che racchiude guerre e rivalità degli ultimi decenni. A cominciare dall’Isis, che partendo dall’Iraq nella sua guerra rivolta soprattutto contro gli sciiti e i loro alleati, prima che contro l’Occidente, è ancora presente, Idlib e provincia sono il santuario di vari gruppi jihadisti, la Russia, storica protettrice di Damasco, ha le sue basi militari siriane, mentre la Turchia occupa fasce consistenti di territorio nel nord della Siria dove ha massacrato i curdi con l’assenso americano, dopo che questi erano stati stoici alleati dell’Occidente contro il Califfato.
GLI AMERICANI per altro hanno anche seri problemi con le milizie sciite in Iraq, circa 250mila uomini più forti dello stesso esercito iracheno. Dal 2003 con la guerra lanciata dagli Usa contro Saddam Hussein la Mesopotamia ha visto centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. In vent’anni da allora queste ferite non si sono rimarginate.
Se poi si volge lo sguardo al Medio Oriente «allargato» i motivi di preoccupazione sono molteplici. A partire dalla guerra civile in Sudan tra i due generali Burhan ed Hemetti clamorosamente uscita dai nostri riflettori, ma che continua con durissimi combattimenti e una tragedia umanitaria: secondo le Nazioni unite, il conflitto in Sudan ha causato da aprile almeno dodicimila vittime e più di sei milioni di sfollati.
Per non parlare di quanto accade in Afghanistan, travolto da una crisi umanitaria senza precedenti, dove gli Usa congelano i fondi del governo talebano e impediscono persino l’attività umanitaria di base. Eppure sono stati loro a riconsegnare il paese dopo 20 anni ai talebani prima con gli accordi di Doha e poi con la fuga da Kabul nel 2021.
Soltanto uno sprovveduto poteva dichiarare che il Medio Oriente è «tranquillo» come ha fatto Sullivan. A meno che non si fosse così ottimisti (o sconsiderati) pensando di stendere un velo sulla regione con il “Patto di Abramo”, che puntava a ottenere il riconoscimento dello Stato ebraico da parte di Paesi come gli Emirati, il Bahrein, il Marocco, il Sudan e, soprattutto, l’Arabia Saudita. Ma ora tutto quanto è finito un binario morto a causa del conflitto in corso nella Striscia.
Ora su Gaza, dopo le rappresaglie indiscriminate e decine di migliaia di morti, si aggira lo spettro dell’espulsione dei palestinesi. Con la conferma alla presidenziali egiziane del generale Al Sisi, si sono moltiplicate le pressioni sul Cairo perché si prenda i gazawi, o almeno una parte di loro. Una questione esplosiva e un’opzione per ora respinta da al-Sisi. Eppure in un paio di mesi l’Egitto ha ricevuto, o ottenuto la promessa, di prestiti e aiuti per 26 miliardi di dollari, 9 miliardi di euro dall’Unione europea. Dietro le quinte si sta già scrivendo un storia amara sulla pelle dei palestinesi
Commenta (0 Commenti)ISRAELE/PALESTINA. Bombe israeliane sul valico di Kerem Shalom mentre al Palazzo di Vetro il voto sulla risoluzione traballa sulle procedure «umanitarie». Hamas: niente scambio di ostaggi senza la tregua. Washington Post: lo Shifa non era una base islamista
Aiuti in entrata al valico di Rafah - Ap/Abed Rahim Khatib
È intervenuta la polizia israeliana, ieri mattina intorno alle 10 nei pressi di Urim, per fermare la marcia organizzata da decine di attivisti israeliani e familiari dei soldati dispiegati a Gaza. Tra loro l’associazione Mothers’ March. L’intenzione della protesta era bloccare i camion di aiuti umanitari in ingresso dal valico di Kerem Shalom, a est della Striscia.
Decine di altri manifestanti hanno provato a raggiungere, con le stesse intenzioni, il confine con l’Egitto. «Gli aiuti al nemico uccidono i soldati», si leggeva in uno dei cartelli portati in marcia insieme alle bandiere dello Stato di Israele.
IN CONTEMPORANEA, da Kerem Shalom, arrivava la notizia di un raid aereo israeliano in cui è stato ucciso Bassem Ghaben, noto come Abu Salem, direttore del valico sul lato palestinese. Altre tre le vittime. Un bombardamento che giunge a pochi giorni dal via libera all’utilizzo di Kerem Shalom all’ingresso di aiuti (finora l’unico usato, al minimo delle sue capacità, è stato quello di Rafah con l’Egitto).
Ed è giunto mentre alle Nazioni unite si continuava a rinviare il voto del Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione emiratina, sul tavolo da lunedì scorso: al centro del negoziato non più, apparentemente, la scelta tra «cessazione» o «sospensione» delle ostilità, ma la gestione degli aiuti umanitari. A chiedere cambiamenti al testo della risoluzione, di nuovo, gli Stati uniti che ieri si sono detti seriamente preoccupati: la risoluzione «potrebbe in realtà rallentare le consegne» di aiuti, non velocizzarle.
Di aiuti aveva parlato poco prima il presidente israeliano Herzog, a colloquio con il presidente del senato francese, Larcher: «Sfortunatamente, a causa del fallimento delle Nazioni unite, non sono in grado di fare entrare più di 125 camion al giorno». Nessun accenno ai raid israeliani e alle lunghe procedure di controllo dei camion in capo a Israele, risponde l’Onu.
E intanto la fame monta, a ribadirlo ieri è stata l’Organizzazione mondiale della Sanità: «La fame sta devastando Gaza e porterà a un incremento delle malattie nella Striscia, soprattutto tra i bambini, le donne incinte e quelle che allattano e gli anziani».
A oggi il 90% della popolazione di Gaza vive in una quotidianità di grave insicurezza alimentare, mentre proseguono senza sosta le operazioni militari israeliane, come sottolineato ieri dal primo ministro Netanyahu in una dichiarazione fotocopia delle precedenti, a uso e consumo del Consiglio di Sicurezza in procinto di votare: «Non fermeremo la guerra fino al raggiungimento dei nostri obiettivi: la completa eliminazione di Hamas e il rilascio di tutti i nostri ostaggi. La scelta che proponiamo ad Hamas è molto semplice: arrendetevi o morite».
NELLE ORE precedenti il movimento islamico palestinese aveva risposto con un secco no a un nuovo scambio tra ostaggi israeliani e palestinesi: avverrà, ha detto Hamas, solo a fronte di un cessate il fuoco permanente e non di pause temporanee (possibilità su cui il ministro della sicurezza nazionale Ben Gvir, esponente dell’ultradestra, ha dato la sua nota posizione: «L’idea di ridurre l’attività a Gaza sarebbe un fallimento del gabinetto di guerra limitato. È tempo di riprendere le redini di un gabinetto di guerra esteso»).
Il governo di fatto della Striscia ieri ha poi rivendicato l’uccisione di un soldato israeliano nel centro di Gaza, ad al-Mughraqa durante uno scontro a fuoco con l’esercito, in cooperazione con le Saraya al-Quds, le brigate armate del Jihad islami.
Da parte sua Israele ha bombardato la principale zona industriale dell’enclave palestinese, la Gaza Industrial Estate, sede a 72 fabbriche alimentari, manifatturiere e farmaceutiche. E ha affermato di aver assunto il controllo del quartiere di Shajaiyah a Gaza City, tra i più martoriati dai raid aerei. Nell’ultima operazione, ha detto l’unità di fanteria Golani, sono stati compiuti «raid nelle case di membri anziani» di Hamas ed è stato «confiscato materiale di intelligence». A poca distanza, nell’altro quartiere raso al suolo, Remal, l’esercito israeliano ha fatto saltare in aria la Palestine Mosque, occupata già da un mese.
SUL FRONTE «obiettivi non militari», è di ieri l’inchiesta del Washington Post che – attraverso immagini satellitari, interviste e materiale pubblicato dallo stesso esercito israeliano – smonta le accuse mosse da Tel Aviv all’ospedale al-Shifa di Gaza city, di essere ciò la copertura al quartier generale sotterraneo di Hamas.
Secondo il Wp, dai materiali visionati non è possibile individuare «prove di utilizzo militare da parte di Hamas»: tra le altre cose, cinque degli edifici dell’ospedale considerati da Tel Aviv parte integrante del network islamista non sono connessi ai tunnel sotterranei né ai suoi cortili.
Ieri, infine, nel quartiere as-Saha, nella parte orientale della Striscia, l’esercito ha distrutto un altro cimitero, dopo quello di al-Faluja: i bulldozer hanno devastato le tombe di Sheikh Shaban ed esumato i corpi, schiacciati e mutilati dai mezzi in transito. Le immagini mostrano corpi, anche di bambini, avvolti nei teli bianchi. Un modo, accusa il ricercatore in studi per la sicurezza al Doha Institute, Omar Ashour, «per terrorizzare la popolazione, devastare la sua volontà nel resistere all’occupazione. È una vecchia tattica delle cosiddette operazioni di contro-insorgenza: punire la popolazione (…) danneggiando la sua morale»
Commenta (0 Commenti)Il giorno dopo aver subito il ritorno del rigore nel nuovo patto di stabilità, il governo riscopre il sovranismo per vendicarsi dell’Europa. Meloni e Salvini nascondono la sconfitta a Bruxelles facendo bocciare il Mes dalla camera. La maggioranza (come l’opposizione) si spacca, ma se ne riparlerà. Dopo le europee
Appena pochi anni fa Giorgia Meloni e gli altri «sovranisti» del suo governo ancora sbandieravano l’incondizionato abbandono dell’euro come ricetta salvifica per l’economia italiana. Oggi si trovano con le ginocchia sui ceci a firmare il nuovo patto di stabilità, una cambiale all’Europa liberista persino più insidiosa delle precedenti.
L’approvata riforma del patto sarà una tenaglia, per l’Italia e per gli altri paesi relativamente deboli dell’Unione.
In primo luogo, la proposta di sostituire le rigide regole numeriche sui conti pubblici con degli «standard» più flessibili, timidamente caldeggiata dalla Commissione, è stata sdegnosamente cestinata dal governo tedesco.
Inoltre, il nuovo patto trascura che, come riconosciuto dalle stesse autorità europee, la crisi dell’eurozona esplose per uno squilibrio non dei conti pubblici ma dei conti esteri. Squilibrio alimentato da una Germania che a colpi di ribassi del costo del lavoro inondava di esportazioni gli altri paesi.
E ancora, nemmeno un cenno è stato dedicato a un fatto ormai riconosciuto da molti ex cardinali dell’ortodossia oggi redenti: si possono imporre anche le regole più draconiane ai paesi membri, ma in ultima istanza la sostenibilità del debito dipende dalle decisioni della Bce sui tassi d’interesse.
In sostanza il nuovo accordo insiste su un duplice obiettivo, di schiacciare sia il debito pubblico che la spesa pubblica. Viene così dimenticata la lezione della grande crisi del 2008, che si propagò dall’economia americana al mondo intero a causa di un problema di spesa e di debito eccessivi da parte del settore privato, non certo del pubblico.
Lungi dal garantire la sostenibilità dei bilanci ed evitare future crisi, anche il nuovo sistema di regole sembra dunque «stupido», come Romano Prodi osò definire il patto quando era presidente della Commissione Ue.
In realtà questo famigerato aggettivo è sempre stato un po’ fuorviante. Una razionalità capitalistica queste regole ce l’hanno ed è oggi persino più evidente che in passato: si tratta di
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