OPINIONI. La storia in corso non vede il «declino della violenza» rispetto al passato, come dice il pensiero ottimistico, ma il suo sviluppo, con più conflitti sanguinosi, armi più distruttive, più vittime
Quale futuro ci attende per gli anni a venire? Gli intellettuali di grido affrontano questo angoscioso interrogativo offrendo due tipi
di risposte. Quella mistica, che affida le nostre sorti all’imperscrutabile volontà di un dio o degli astri. E quella cinica, in fondo simile, che rigetta l’intera questione riducendo la storia umana a un misterioso ammasso di imprevedibili eventi accidentali.
Per dirla con György Lukács, il fatto che questo pigro genere di risposte oggi accontenti i più, è una prova che viviamo un’epoca di grottesco irrazionalismo.
Per fortuna esiste anche un modo più serio di affrontare i grandi interrogativi sulle prospettive dell’umanità. Consiste nel seguire un’indicazione dei modernizzatori del materialismo, secondo cui la storia può essere intesa come una sorta di «scienza del futuro». In parole semplici, pur tra sussulti e rovesciamenti, si tratta di tirar fuori dagli avvenimenti passati le possibili linee di tendenza per gli anni a venire.
La destra e la «cultura» delle armi: non c’è solo Pozzolo
PER CHIARIRE IL PUNTO, consideriamo il caso che più angustia le coscienze di questo tempo: la guerra. Le tendenze storiche di lungo periodo muovono verso il conflitto o verso la pace mondiale? Una risposta ottimista è venuta dal celebre scienziato cognitivo Stephen Pinker, secondo cui la storia umana tende verso un «declino della violenza»: dalle società primitive fino ai giorni nostri, i dati indicherebbero un calo consistente delle vittime di guerra in rapporto alla popolazione mondiale. Una magnifica sorte, secondo Pinker, che si spiegherebbe soprattutto con l’avvento del capitalismo liberale e democratico e con i moti di pace che tale illuminata civiltà porterebbe in dote. Tutto confortante, ma a ben vedere anche scientificamente fragile.
La rosea tesi di Pinker ha suscitato un’ampia discussione tra gli studiosi, da cui purtroppo non sono emersi molti riscontri favorevoli. Stando a ricerche più accurate che utilizzano archi temporali più definiti e termini di paragone più adeguati, robuste evidenze di un declino delle vittime di guerra non si trovano. Anzi, se si concentra l’attenzione su questo secolo e si rapporta il numero di vittime a indicatori maggiormente associati ai processi economici, i risultati sono inquietanti: i morti causati da conflitti militari aumentano sia in termini assoluti, sia in rapporto alla produzione di armi, sia in rapporto alla produzione totale di merci, con un incremento di oltre un terzo nell’arco di un ventennio. Come a dire, abbiamo a che fare con armamenti più distruttivi e con un capitalismo ancor più sanguinario che in passato.
ALTRO CHE DECLINO, dunque. Sarebbe piuttosto il caso di parlare di uno «sviluppo della violenza» militare nel tempo. Ma come spiegare un tale andamento? Una possibilità consiste nel collegarlo a una famigerata tesi marxiana, che di recente ha trovato conferme empiriche: è la tendenza verso la centralizzazione dei capitali nelle mani di un manipolo sempre più ristretto di grandi proprietari, avvalorata dal fatto che oltre l’ottanta percento del capitale azionario mondiale è ormai controllato da meno del due percento degli azionisti. Detto con una metafora, i dati indicano che il pesce grosso mangia il pesce piccolo e così diventa sempre più grosso. Ebbene, il guaio di questa tendenza è che porta alla formazione di imponenti blocchi monopolistici, i quali sono prima o poi destinati a scontrarsi sui mercati internazionali in una lotta non più solo economica ma anche militare. Ossia, una guerra imperialista.
Magari a pezzi, come si usa dire oggi. Se così stanno le cose, tocca pure correggere Goya. Non è il sonno della ragione ma è la stessa «ragione» capitalistica – la sua «legge» di movimento – che a quanto pare genera i mostri della guerra.
Il fiducioso Pinker replicherebbe che una tale angosciosa prospettiva trova un fiero ostacolo nello spirito pacifista delle democrazie liberali, a suo avviso poco inclini al conflitto militare. In realtà, l’ipotizzata riluttanza delle democrazie capitaliste verso la guerra trova riscontri modesti, soprattutto negli ultimi tempi.
ANCHE IN TAL CASO è probabile che giochi un ruolo la tendenza verso la centralizzazione dei capitali. Dopotutto, se il potere economico si concentra, presto o tardi tocca pure concentrare il potere politico in poche mani. Si spiegherebbe così pure l’odierna smania di «riforme» per rafforzare i poteri dei governi e ridurre le aule parlamentari all’irrilevanza. Con l’effetto, tra l’altro, di abbattere le residue difese democratiche contro le nuove fiammate di militarismo.
Lo scrittore di fantascienza Ray Bradbury diceva che una distopia non serve a descrivere un orrido futuro ma a prevenirlo. Iniziamo allora la prevenzione dicendo una verità. Le principali minacce alla democrazia e alla pace non vengono da qualche nemico esterno, ma dalle tendenze di fondo del capitalismo contemporaneo
Commenta (0 Commenti)CAPODANNO. Una «cronaca politica» di capodanno. Dietro c’è la cultura di governo che vuole le armi da strumento di offesa, a mezzo ordinario per la difesa personale e per la sicurezza pubblica
Illustrazione di Ikona Images/Ap
È diventato un caso politico quanto accaduto nella notte di San Silvestro al deputato di Fratelli d’Italia, Emanuele Pozzolo. Durante la festa di Capodanno nei locali della Pro loco di Rosazza, un paesino in provincia di Biella, dalla pistola regolarmente detenuta dal deputato meloniano è stato sparato un colpo che ha ferito ad una gamba il genero di un agente della scorta del sottosegretario alla Giustizia e compagno di partito Andrea Delmastro, presente alla festa.
Il deputato ha dichiarato che non era lui a maneggiare l’arma quando il colpo è partito «accidentalmente». L’arma sarebbe una North American Arms LR22, un revolver di piccole dimensioni – sta nel palmo di una mano – facilmente occultabile che viene spesso usato come seconda arma. La pistola è stata sequestrata e la prefettura di Biella ha avviato il procedimento di revoca del porto d’armi per difesa personale rilasciato al parlamentare che è ora indagato per lesioni aggravate.
Dopo aver inizialmente invocato l’immunità parlamentare, Pozzolo avrebbe acconsentito di sottoporsi allo stub per rilevare eventuali tracce di polvere da sparo non consegnando però i propri abiti ai carabinieri: lo avrebbe fatto solo circa sei ore dopo i fatti. Immunità che però, secondo la Procura di Biella, non doveva essere eccepita perché non era stato chiesto all’onorevole di sottoporsi a perquisizione personale o domiciliare.
Pozzolo, 38 anni di professione consulente legale con alle spalle una lunga militanza politica prima in Alleanza Nazionale, poi nella Lega Nord e quindi in Fratelli d’Italia, è stato eletto deputato di FdI nel 2022. In più occasioni si è espresso sui social a favore del possesso delle armi e tra i suoi messaggi – diversi dei quali sono stati cancellati da Facebook dopo il primo gennaio – si trova ancora traccia di alcune sue dichiarazioni: nel 2015, dopo la strage in Oregon, Pozzolo scriveva che «per Obama è sempre colpa delle armi. Eppure io non ho mai visto una pistola sparare da sola». Che invece è quello che sostiene dopo la notte di Capodanno. E nel giugno del 2016, postava un messaggio su Facebook (oggi risulta cancellato) che iniziava cosi: «L’Ue vuole togliere le armi ai cittadini onesti per combattere il terrorismo. Spieghiamo a questi maiali che…».
È il mantra della lobby della armi che trova in Salvini e oggi soprattutto nei politici di Fratelli d’Italia, la propria sponda politica: il riferimento è Giovanbattista Fazzolari, attuale sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’attuazione del programma di governo nel governo Meloni. Non è un caso che proprio Fazzolari, nella scorsa legislatura, sia stato il promotore della legge che nel dicembre del 2021 ha abrogato il divieto di vendita in Italia di armi corte in calibro 9×19 mm parabellum.
Vi è poi il senatore di Fratelli d’Italia, Bartolomeo Amidei: lo scorso luglio ha presentato un disegno di legge che, oltre a modificare ampiamente le normative sulla caccia, intendeva permettere anche ai sedicenni di andare a caccia portando legittimamente un’arma a questo scopo. Iniziativa ritirata nelle scorse settimane dopo le polemiche sollevate dalla pubblicazione della notizia.
È stato invece approvato dal Consiglio dei Ministri ed è in esame in Parlamento il disegno di legge proposto dal ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, che autorizzerà gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio. La norma permetterà a 300mila agenti di girare sempre armati con un’arma propria. Il ministro Piantedosi l’ha spiegata dicendo che l’arma di ordinanza è difficilmente occultabile e che il provvedimento servirà a «impedire la commissione di un reato». E qui sta il punto. Oggi possono girare armati con un’arma propria acquistabile senza l’obbligo di ottenere una licenza solo prefetti, questori, magistrati e ufficiali di pubblica sicurezza. Ma lo scopo è quello della propria difesa personale: norma comprensibile visto che si tratta di persone che svolgono per lo Stato una professione rischiosa. Il provvedimento del governo è finalizzato alla «pubblica sicurezza»: compito per il quale spetterebbe allo Stato fornire le armi e un addestramento adeguato, che invece, viene dato per scontato.
Sono solo alcuni dei provvedimenti messi in campo dalle destre. Ma quello che si vuole ottenere è un ribaltamento della visione della armi e della “cultura” che le circonda. Da strumento di offesa, il cui possesso va regolato rigorosamente, a mezzo ordinario per la difesa personale e per la sicurezza pubblica. Il prossimo passo sarà l’ennesima modifica alle norme sulla legittima difesa: per rendere – come invocano da anni – la difesa sempre legittima.
*(Analista dell’Osservatorio Permanente Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa – OPAL)
GOVERNO. Meloni accumula problemi e non riesce a sterzare. Domani l’attesa conferenza stampa
A Giorgia Meloni quegli otoliti devono essere sembrati provvidenziali: di rinvio in rinvio la avevano esonerata dal doversi presentare di fronte al plotone dei cronisti con la manovra non ancora approvata, a un soffio dall’esercizio provvisorio. La mela però era avvelenata, la provvidenza si è mutata in malasorte e la presidente arriva al fluviale appuntamento con la stampa nella condizione peggiore.
Il monito di Mattarella su balneari e ambulanti è un guaio di prima categoria. Il presidente fa sponda con l’Europa. Lui ci mette il peso morale della massima istituzione, con la quale la premier non ha intenzione né interesse a confliggere. Bruxelles invece va sul concreto e salvo miracoli farà scattare la procedura d’infrazione sui balneari. I colloqui per evitare la mazzata sono in corso, però vanno malissimo e l’Unione, già inviperita per il Mes, guarda la mediazione sulla quale punta il solito belpaese come fosse uno scarafaggio. Poi sarà il turno degli ambulanti e la musica sarà identica. Dodici anni di proroga ai governanti sembrano niente, sul Colle e a palazzo Berlaymont appaiono invece un’enormità.
Il fattaccio di capodanno è anche peggio e il deputato di FdI Pozzolo ha provato ad aggravare il danno impugnando l’immunità parlamentare come scudo contro le analisi che avrebbero appurato se è sincero o mente quando afferma di non essere stato lui a premere il grilletto. Alla fine sembra che l’analisi sia stata effettuata, ma non subito, e che i vestiti siano stati analizzati ma non consegnati. Un pasticcio più da marchese del Grillo e campione della Casta che da rappresentante del popolo.
In un caso simile persino Ron De Santis si sarebbe affrettato a mettere l’incauto pistolero alla porta. Meloni non lo ha ancora fatto e non è detto che lo faccia. Schiuma rabbia, è irritata per usare un eufemismo però a frenarla c’è la solita sindrome del Msi, il partito del ghetto, circondato da nemici, in cui si fa sempre e comunque quadrato. La reazione a sparo caldo dell’ospite sottosegretario Delmastro, con un assurdo tentativo di minimizzare, e quella del partito, che se la vorrebbe cavare col «fatto di cronaca e non di politica», riflettono umori radicati in un passato ormai atavico, quello della Fiamma, che la premier in realtà condivide. Dunque lascia correre le lancette senza fare quel che sarebbe dovuto nel suo stesso interesse: esortare alle dimissioni e in caso di diniego sospendere o espellere.
Sui balneari, in fondo, il dilemma è identico. La premier è ben consapevole di quanto sconsigliabile sia l’urto con un presidente molto amato nel Paese e da lei stessa appena omaggiato dopo il discorso di fine anno. Sa che è ancora meno opportuno sfidare di nuovo l’Unione europea dopo lo strappo sul Mes, che sul piano della sostanza neppure si avvicina a pareggiare la resa ingloriosa sul patto di stabilità ma su quello dell’immagine quasi la supera. Però non se la sente di sfidare una corporazione che è da sempre parte del suo zoccolo duro e soprattutto di lasciare campo libero al Carroccio, che invece se vede una possibilità di scontro con l’Europa e non c’è di mezzo Giorgetti si butta a pesce. «Figurati se lasciamo tutto questo spazio alla Lega», ammettono senza perifrasi dai piani alti della palazzina tricolore a Bruxelles. Se proprio si dovrà intervenire lo si farà a giugno. Dopo le elezioni europee.
È l’eterno problema della underdog, che vorrebbe essere una statista europea di destra ma non ha il coraggio di rompere i ponti con il passato nel ghetto o di fregarsene della competizione d’accatto con la Lega. Ma se non lo trova la conferenza stampa di domani rischia di trasformarsi per lei in una corrida
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QUIRINALE. Abbiamo visto sui social correre anche commenti che imputano a Mattarella un eccesso di arrendevolezza. Ma cosa avrebbe potuto o dovuto fare? In diversi passaggi del discorso di fine anno del presidente si coglie una oggettiva distanza da concreti indirizzi e pratiche di governo
Luciano Fabro, Italia Porta, 1986
Il presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno ci ha consegnato una panoramica sulle emergenze e le crisi in atto. Senza una parola sulla politica e le istituzioni in Italia. La domanda è: il contesto suggeriva che ne parlasse? Una novità c’era. In questa fine di anno è agli atti la strategia della maggioranza di destra di «rivoltare il paese come un calzino» (copyright Meloni in campagna elettorale 2022) con l’autonomia differenziata e il premierato.
L’avvio è stato con il disegno di legge Calderoli (AS 615) presentato il 23 marzo 2023, e con l’AS 935 Meloni e Casellati presentato il 15 novembre 2023. Il primo è già nel calendario d’Aula per il 16 gennaio. Il secondo parte in I Commissione. Per entrambi si preannuncia uno sprint in vista del voto europeo del 2024. È la competizione tra Meloni e Salvini, tra FdI e Lega, e all’interno della stessa Lega per la successione a un Salvini vacillante nella leadership. E la posta ultima e vera è far vivere una Costituzione della destra, post-fascista e venata da pulsioni autocratiche, mandando in soffitta la Costituzione democratica antifascista nata dalla Resistenza.
Un disegno ambizioso e dirompente. Come sempre accade, i vincitori vogliono riscrivere la storia, e nella specie hanno anche fretta di farlo. Gli ultimi anni hanno mostrato il veloce passaggio nel cielo della politica del Movimento 5Stelle e della Lega, due meteore giunte a superare il 30% dei voti per poi cadere rapidamente. A Fratelli d’Italia potrebbe toccare una sorte simile, salvo che nel frattempo non giunga un assist da norme costituzionali come il premierato, che con l’elezione diretta del premier e la blindatura maggioritaria punterebbero anche a contenere le mutevoli tendenze di un volubile corpo elettorale. Mentre la Lega vuole tornare agli antichi fasti di sindacato del Nord.
Mattarella ha di sicuro capito quel che accade, e che almeno in parte probabilmente accadrà nell’anno che si apre. Dunque, rispetto ai precedenti discorsi di fine anno, uno scenario inedito. Non pochi avrebbero voluto una sua parola. Abbiamo visto sui social correre anche commenti che gli imputano un eccesso di arrendevolezza verso la destra arrembante. Ma cosa avrebbe potuto o dovuto fare? Era davvero fragile il terreno su cui fondare un suo rifiuto di autorizzare la presentazione dei disegni di legge governativi. Tra l’altro, bloccare quello sul premierato sarebbe apparso come un tentativo di salvare la poltrona. Una esternazione nel discorso di fine anno avrebbe consentito un percorso più efficace.
Su alcuni temi il discorso non si allontana da un mainstream almeno in superficie largamente condiviso: così è, ad esempio, per la pace e la guerra, o i femminicidi. Ma non è altrettanto scontato il richiamo al lavoro sottopagato, o a condizioni inique, o segnato da immani differenze di retribuzione tra pochi super privilegiati e tanti che vivono nel disagio. O quello ai giovani che si sentono estranei in un mondo che disconosce le loro attese, ad esempio nel contrasto alla crisi ambientale. O alla Costituzione che “riconosce” i diritti, traducendosi in una democrazia capace di ascoltare e di affrontare le condizioni di estrema vulnerabilità e fragilità in cui tanti vivono. O ancora il richiamo alle periferie, o agli studenti.
In questi passaggi si coglie una oggettiva distanza da concreti indirizzi e pratiche di governo. Che si consolida poi con la sollecitazione al voto, non sostituibile con la frequentazione dei social. La partecipazione democratica consente e garantisce l’unità della Repubblica. Il richiamo al voto è oggettivamente un monito per un governo sostenuto da un consenso reale misurabile a circa un quarto del popolo italiano. Un governo forte nei numeri parlamentari, debole nel consenso del paese e nella legittimazione sostanziale.
Infine, il plauso indirizzato a chi ha dato esempio si mostra come messaggio volto alla società civile – non alla politica – perché sia protagonista della difesa dei valori fondanti posti dalla Costituzione: solidarietà, libertà, eguaglianza, giustizia, pace. Leggiamo che Meloni si dice d’accordo su lavoro e sanità. C’è molto altro, e sul resto siamo d’accordo noi.
Non c’è dubbio che la partecipazione democratica e l’impegno di ciascuno siano le chiavi per difendere la storia e l’identità del paese e bloccare l’arroganza della destra. Le sollecitazioni di Mattarella sono state ascoltate da oltre 15 milioni di italiani. Al momento giusto e nei modi possibili bisognerà rivolgersi a loro.
Commenta (0 Commenti)Forse perché distratti da una guerra da 750mila morti a dieci ore di automobile dall’Italia o dalla carneficina di Gaza che in meno di tre mesi – tanto è passato dal brutale assalto di Hamas che ha scatenato Israele – ha fatto più vittime di ogni altra guerra in quei territori già tanto insanguinati; forse perché preoccupati dai segni del cambiamento climatico, il 2023 è stato per il pianeta l’anno più caldo di sempre e c’è già almeno uno stato al mondo che annega ufficialmente, tanto che ai suoi abitanti viene riconosciuto il raro diritto di rifugiarsi altrove (è una di quelle piccole isole che la Cop28 ha lasciato fuori dalla porta quando ha firmato il suo inutile compromesso finale); forse perché storditi dalla destra al governo qui da noi, che taglia diritti e redditi ma chiede alle donne tanti nuovi bambini, probabilmente poveri, sicuramente bianchi perché se non lo sono che affoghino pure in mare, forse per queste o per altre disgrazie che hanno deviato la nostra attenzione non ci siamo accorti che il 2023 è stato un anno di record positivi.
Fortunatamente ce lo ha ricordato ieri il Sole 24 Ore, prova che i giornali servono ancora a qualcosa: l’anno che si chiude è stato quello «record per Borse, bond e oro». Lo è stato un po’ ovunque nel mondo, principalmente per le scommesse su inflazione e tassi (in discesa), ma per qualcuno è andata particolarmente bene.
Quel qualcuno siamo noi, nel senso dell’Italia: gli indici azionari della Borsa di Milano sono saliti in un anno di oltre 28 punti, più di Wall Street e di qualsiasi altra Borsa europea (8 punti più di Francoforte, 12 più di Parigi), sfiorando di uno zero virgola Tokyo. La maggiore impennata l’hanno fatta segnare le quotazioni delle banche italiane, «performance stellare» la definisce giustamente il quotidiano di Confindustria: +48% quando la media europea è meno della metà (+20%) e quella americana la metà della metà (+10%).
Se vi state chiedendo perché tanta grazia, la ragione è semplice: le banche italiane nel 2023 hanno fatto una valanga di utili e anche in questo caso c’entrano gli alti tassi di interesse che per chi ha un mutuo o ha bisogno di un prestito sono una condanna ma per chi ha il contante sono una benedizione.
Le banche italiane sono particolarmente fortunate (e la Borsa se n’è accorta) perché il nostro governo ha fatto solo finta di interessarsi ai loro extraprofitti e l’imposta, che era già una carezza, alla fine non l’hanno pagata neanche le banche controllate dal governo che avrebbe dovuto tassarle.
Pochi si sono accorti di tutta questa ricchezza che evidentemente pervade il nostro paese. Non solo perché la teoria economica dello «sgocciolamento» si è dimostrata una stupidaggine almeno quarant’anni fa, essendo provato il contrario e cioè che i ricchi riescono più facilmente a spremere fino all’ultima goccia i poveri, ma anche perché guardandosi attorno è più facile vedere crisi aziendali, servizi sociali tagliati, sfratti, beni un tempo di prima necessità diventati proibitivi.
Si notano le file alla Caritas, non quelle dai gioiellieri, che ricevono su appuntamento, eppure quello dei preziosi è uno dei settori che va meglio per la domanda interna, insieme a tutto il mercato del lusso. La ricchezza va pur messa al riparo.
Nell’economia capitalistica le crisi producono da sempre aumento delle diseguaglianze, pandemia e guerra non hanno fatto eccezione. L’Italia del boom della Borsa è all’avanguardia nel creare nuove sperequazioni e allargare quelle esistenti. I
l governo che attualmente l’amministra con il piglio di chi vuol durare un ventennio (ma vedremo) è l’olio nell’ingranaggio. Anti sistema nelle memorie e talvolta ancora nelle movenze e nei tic, la destra al potere è perfettamente funzionale al sistema che arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri.
Idealtipo del populismo delle classi dominanti, la destra di Giorgia Meloni che resiste al 30% nei sondaggi è quella che grida contro la perfidia delle tecnocrazie europee e poi non può che accordarsi ai loro rigori, che agita la retorica degli straccioni contro i potenti e poi agisce in modo da moltiplicare i primi e far felici i secondi, tagliando e cancellando i redditi bassi e diminuendo le tasse ai redditi alti.
È la destra che si impalca a Nazione e poi restringe l’area dell’intervento pubblico e teorizza lo Stato minimo: che gli ultimi si arrangino a trovare un sussidio, una scuola, un medico.
Tutto questo non può sorprenderci, sappiamo da tempo che in politica la reazione va a braccetto con la conservazione dei privilegi, che non c’è separazione logica tra l’attacco ai diritti civili e quello ai diritti sociali, che le pulsioni neo fasciste non hanno mai disturbato il capitale che si affretta anzi a giustificarle. E se non lo sapessimo, l’ultimo esempio di liberismo illiberale lo vediamo in Argentina mentre il prossimo rischiamo di rivederlo negli Stati uniti.
Tutto questo però ci dà la dimensione della sfida che ci attende, che non è solo quella di contrastare la destra al governo, opporsi alle sue scelte politiche, cercare di mandarla in crisi il prima possibile. È soprattutto quella di scardinare il modello economico e sociale che le sta dietro, di cui si nutre e in nome e per conto del quale agisce.
Non è una sfida tattica, non si può vincere sulla superficie della propaganda elettorale, ed è un lavoro che attende tutta la sinistra proprio nel momento in cui è più debole e disarticolata. La sinistra che, confusamente magari, ha individuato nel sistema capitalista la causa delle disuguaglianze e della devastazione ambientale e anche la sinistra che questo non sa fare, dichiarandosi tale senza aver fatto ancora niente per dimostrarlo.
Ed è un compito che attende anche questo giornale, con i suoi piccoli mezzi e la sua grande volontà, accresciuta dall’attenzione e dall’affetto che ci avete dimostrato negli ultimi mesi. Purtroppo per il 2024 un altro mondo non è affatto probabile, ma è sempre più necessario.
Buon anno, dunque
INTERVISTA AL SEGRETARIO FILLEA CGIL . Il sindacalista commenta il provvedimento: non risolve i problemi di iniquità, Giorgetti non può dare lezioni, Fdi e Lega sempre a favore. Fillea e Legambiente chiesero subito che il bonus fosse solo per le prime case e in base al reddito. Lo stop produce crisi occupazionali fallimenti e contenziosi
Un cantiere del superbonus edilizio 110% - Foto Ansa
Alessandro Genovesi, segretario generale della Fillea Cgil, la legge di Bilancio ha dato lo stop al Superbonus, con il ministro Giorgetti che ha usato parole molto forti, e poi, sotto la pressione di Forza Italia, un decreto last minute dagli effetti non chiari.
Mentre Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia hanno sempre votato le proroghe del superbonus fino al 2023, come Fillea e Legambiente fummo i primi a chiedere che fosse selettivo, solo per le prime case e per le classi energetiche e sismiche più basse, con percentuali in base al reddito e con la cessione del credito solo per chi era sotto i 30 mila euro Isee. Quindi lezioni da Giorgietti, no. Anche l’ultimo decreto non risolve i problemi: da un lato peggiora le norme sull’abbattimento delle barriere architettoniche, dall’altra interviene più su chi ha intascato i crediti che non sui condomini che hanno quasi finito i lavori. Anche la proroga per i redditi sotto i 15 mila euro è talmente bassa e condizionata che non produrrà grandi effetti. Insomma Meloni boicotta la direttiva “case green” e toglie la cessione del credito, per cui solo chi ha i soldi e potrà ricorrere alle detrazioni avrà una casa meno energivora, mentre per le case di periferia e per i ceti medio-bassi non vi è nulla. Le scelte del governo, al di là della propaganda, produrranno crisi occupazionali, fallimenti e migliaia di contenziosi legali.
Voi avevate stimato in 200mila i posti di lavoro a rischio per il combinato disposto fine della cessione del credito e dello sconto in fattura, dei tagli al Pnnr e le incertezze nei flussi finanziari. È una stima che il decreto di giovedì sera del governo fa ridurre?
Sì, forse con il decreto i posti a rischio saranno un po’ di meno ma la stima rimane valida. Siamo molto preoccupati.
Un altro intervento a gamba tesa del governo – firmato Matteo Salvini – infatti riguarda il Codice degli appalti con il ritorno a una deregulation. Quali saranno gli effetti?
Gli effetti saranno un ulteriore abbassamento dei diritti e della legalità, perché più si estende la catena dei subappalti che questo codice liberalizza, più aumenteranno zone grigie e competizione al ribasso. Cioè più lavoro irregolare, meno attenzione alla sicurezza, più infiltrazioni, materiali scadenti. A danno della collettività. Il tutto mentre dobbiamo spendere decine di miliardi di euro per le opere del Pnrr e del Fondo Complementare.
In contro tendenza è arrivato il Protocollo sul Giubileo 2025 di cui siete stati grandi fautori: ci può spiegare meglio i dettagli? Può essere un modello replicabile a livello nazionale e generale?
Il Protocollo sul Giubileo 2025, sottoscritto anche dalle imprese, dimostra che le opere si possono fare “presto e bene”, utilizzando la leva degli appalti pubblici per far crescere anche le aziende. Il Protocollo prevede tutta una serie di scelte da parte della stazione appaltante rispetto l’applicazione dei contratti nazionali degli edili, la comunicazione e la trasparenza delle imprese e dei lavoratori che entrano in cantiere, la formazione aggiuntiva per chiunque vi lavori e – tra le tante positive novità – l’esclusione del subappalto a cascata. Ovviamente ci si fa carico anche di ridurre il disagio dei cittadini prevedendo, per la realizzazione delle opere nei tempi previsti, la possibilità di lavorare 7 giorni su 7, h24, ma in totale sicurezza: massimo 8 ore a turno con almeno 4 squadre. Il Protocollo ora deve essere esportato in tutti i Comuni: questa la battaglia della Cgil per il 2024.
Neanche durante le feste di natale la strage sul lavoro si è fermata. Gli appelli si sprecano ma la striscia di sangue non si arresta. Ci sono responsabilità specifiche dell’attuale governo?
Gli infortuni sono causati da pessima organizzazione, turni massacranti, scarsa formazione, destrutturazione dei cicli produttivi. Sicuramente le scelte del Governo non affrontano questi nodi. Dalla liberalizzazione del subappalto a cascata alle bozze sulla formazione obbligatoria per la sicurezza, dalla mancata politica industriale e per la crescita dimensionale delle imprese fino alla volontà di stravolgere la funzione dei Contratti Collettivi di Lavoro, il messaggio è quello del “lasciar fare” al mercato. Ma il nostro è un mercato che compete sul costo del lavoro e meno sulla qualità. Con tutti i limiti presenti da anni, con i passati Governi qualche segnale stava arrivando: dall’assunzione degli ispettori al Durc di Congruità alla parità di trattamento tra lavoratori in appalto e sub appalto. Oggi buio totale.
Il 2024 dal punto di vista sindacale si è concluso con lo sciopero unitario del terziario. L’anno prossimo contate di recuperare la Cisl o la sua deriva governista è inarrestabile?
L’unità di azione con la Cisl rimane un obiettivo anche per il 2024, soprattutto alla luce di due fatti oggettivi: la presenza di piattaforme unitarie e la mancanza di interventi del Governo in direzione di quanto rivendicato insieme. Pensiamo alla mancata politica industriale o alle pensioni. Il 2024 sarà poi l’anno della riforma del fisco, con ancora più vantaggi per i redditi alti e per chi evade, insomma contro i lavoratori e pensionati. In un anno, per di più, dove tra Finanziaria fatta a debito e nuovo patto di stabilità o andremo a recuperare i 120 miliardi di evasione e ripristinare vera progressività sulle ricchezze o assisteremo a tagli impressionanti a sanità, scuola, trasporti, servizi sociali. Di fronte a questo non mobilitarsi tutti insieme sarebbe un errore strategico. Vale per la Cgil e la Uil che sono già in campo e devono dare continuità alla mobilitazione, ma vale anche per una grande organizzazione popolare come la Cisl