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Sale a 109 il numero dei giornalisti uccisi dopo il 7 ottobre nella Striscia di Gaza dall’esercito israeliano. Il mestiere di informare equiparato a «terrorismo». Ieri la giornata più sanguinosa dall’inizio dell’anno: 240 morti

OBIETTIVI DI GUERRA. La mano che stringe il microfono è ferita, è fasciata, il filo del microfono parte dalle bende, nell’altra mano si organizza il lavoro con un cellulare. Intanto quel tecnico aiuta il cameraman a «fare il bianco», cioè alza un foglio A4 in modo da perfezionare il colore della ripresa

Il dolore del reporter di al Jazeera Wael Al-Dahdouh (a destra), ieri, durante i funerali dei giornalisti Hamza Al-Dahdouh (suo figlio) e Mustafa Thuraya foto di Ahmad Hasaballah/Getty

Wael Dahdouh è direttore e corrispondente di Al Jazeera da Gaza. L’esercito israeliano gli aveva ucciso i figli di sette e quindici anni, sua moglie e altri otto parenti. Ieri l’ultimo figlio, il più grande, giornalista anche lui. Giravano in rete suoi video di quando aveva scoperto della strage della sua famiglia mentre copriva il servizio, mentre seppelliva il figlio: succede durante una guerra, se sei una persona esposta mediaticamente, che qualcuno riprenda le cose tue private, che tutti vedano il lutto che abitualmente è una stanza segreta, preclusa ai più.

Ma ieri è accaduta una cosa diversa, diversa dalle macerie, dai piccoli sudari a cui ci siamo abituati in questi tre mesi, dico abituati, ché non avremmo mai pensato di conoscere così bene l’aspetto di sepolture diverse dalle nostre.

E mentre ci eravamo abituati, dico abituati che non significa accettare, significa solo sapere cosa stiamo guardando, in qualche modo quindi controllare quanto e quale dolore prendere su di noi di questo genocidio, è successa una cosa diversa: che questo omone grosso e piegato dal lutto si è asciugato le lacrime, si è fatto fasciare la mano ferita, ed è tornato alla base – un miserrimo rifugio dove stanno gli altri colleghi, tutti gli inviati – per lavorare. Si vede questo ultimo video in cui arriva, un medico gli porge le sue condoglianze abbracciandolo, con uno dei sorrisi più comprensivi e dolci che io abbia mai veduto sul volto di un uomo, poi un tecnico gli dà

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SCENARI. Non solo non si intravede mediazione possibile fra due parti in divergenza etica, filosofica ed “ontologica” ma il “divorzio nazionale”, caldeggiato da molti Maga (Make America Great Again), è per molti versi già consumato

Donald Trump Ap Donald Trump - Ap

Come a sottolineare il paradossale “giorno della marmotta” in cui sembra essere, da tre anni, intrappolato il paese, il fatidico anno elettorale del 2024 viene inaugurato da discorsi incrociati di Joe Biden e Donald Trump nell’anniversario del 6 gennaio.

Le presidenziali sono fatidiche perché prospettano il rematch che quasi nessuno vorrebbe rivedere. Lo scontro fra i due anziani contendenti che al di là delle problematiche anagrafiche, confermano quello che tutti sentono: gli Stati Uniti, superpotenza occidentale, “democrazia fondativa” e “faro di libertà”, non hanno elaborato la profonda crisi politica, istituzionale e, diremmo, antropologica, che tre anni fa l’ha portata sull’orlo del precipizio, e di un colpo di stato.

Tre anni orsono, il Congresso è stato preso d’assalto dalla folla Maga incitata dall’ex presidente, nel tentativo di deragliare l’insediamento del successore legittimamente eletto. Oggi nuovamente candidato, sopravvissuto a due impeachment, pluri-incriminato, ma semmai proprio per questo ancor più riverito dalla base, quello stesso mandante torna a puntare il suo lanciafiamme demagogico sulle norme e le convenzioni della democrazia costituzionale.

Non ha mai davvero smesso. Dal suo “esilio” di Mar A Lago ha continuato a declinare l’aggressivo vittimismo che caratterizza tante destre populiste nel mondo. Non ha mai rinnegato la Big Lie delle elezioni “rubate” e le istituzioni sono state incapaci di contenere il demagogo sovversivo con l’impeachment, strumento costituzionalmente preposto, ma sabotato dalla connivenza di un Gop radicalizzato. Ora Donald Trump grava sulla psiche del paese come il mefitico ed iracondo tiranno raffigurato nella sua foto segnaletica. Il tasso insidioso di violenza che ha introdotto nel dialogo e nella vita pubblica della nazione, quello che declina nei suoi comizi foschi e sgangherati, incombe come un’eversiva minaccia sulla campagna elettorale.

Ha un bel ripetere Biden, come ha nuovamente fatto nell’ultimo discorso, che non si può essere al contempo per la democrazia e per

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 Sulla personalità di Paolo Benanti pubblichiamo anche questo articolo di Andrea Capocci su il manifesto

Il teologo francescano Paolo Benanti: «L’Intelligenza artificiale sarebbe più umana se sapesse dubitare dei suoi stessi responsi. L’etica è tutto ciò che non è esigibile per legge, quindi si può insegnare solo a chi possiede una soggettività»

Paolo Benanti, teologo francescano, membro dell’Organo consultivo delle Nazioni Unite per l’Ai. 50 anni, il Religioso del Terz’Ordine Regolare è docente di Etica e Bioetica, Etica della Tecnologia e Artificial Intelligence
Paolo Benanti, teologo francescano, membro dell’Organo consultivo delle Nazioni Unite per l’Ai. 50 anni, il Religioso del Terz’Ordine Regolare è docente di Etica e Bioetica, Etica della Tecnologia e Artificial Intelligence

CITTÀ DEL VATICANO. «La misericordia e l’uguaglianza, ma prima di tutto nei robot sarà decisivo il dubbio. Se riusciremo a inserire in ChatGPT la capacità di dubitare delle proprie risposte avremo realizzato qualcosa che rispetterà molto di più la natura di donne e uomini». Sono i principali valori morali da trasmettere all’Intelligenza artificiale (Ai) affinché «resti umana», secondo l’appello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Parola del teologo francescano Paolo Benanti, membro – unico italiano – dell’Organo consultivo delle Nazioni Unite per l’Ai. 50 anni, il Religioso del Terz’Ordine Regolare è docente di Etica e Bioetica, Etica della Tecnologia e Artificial Intelligence.

Siamo all’alba di un mondo segnato dall’Ai. Padre Benanti, è possibile infondere un’educazione agli algoritmi?

«Bisogna premettere che l’Ai non può essere educata moralmente, perché non è una soggettività personale. I valori su cui si basa sono numerici. Però possono essere in qualche misura adeguati, controllati da algoritmi utilizzabili come una sorta di Guard rail etica. Diventa perciò fondamentale una nuova e rinnovata educazione morale di quegli utenti, cioè dei cittadini, che non solo si interfacceranno con l’Ai, ma che daranno all’Ai i limiti o i campi applicativi. Quindi è urgente alzare il livello di insegnamento etico. Dicendo questo però potrebbe sorgere un’ambiguità».

Quale?

«Abbiamo conosciuto in passato forme di Stato etico che tutto erano tranne che etiche. Allora vorrei chiarire che cosa si intende per morale in questo senso».

Ci spieghi.

«Un giudice inglese molto autorevole, Lord Moulton, in un discorso a fine carriera ha affermato che l’etica è tutto ciò che non è esigibile per legge. Sul Titanic che stava affondando qualcuno ha detto “prima le donne e i bambini”, e hanno mandato prima le signore e i piccoli: quello era lo spazio dell’etica, lo spazio di civiltà. Ecco, noi dobbiamo edificare un nuovo strato di civiltà che abbia la funzione di cuscinetto etico: così si potrà gestire l’Ai nel migliore dei modi possibile».

Che cosa intende?

«Dare priorità all’essere umano. Tra l’obiettivo della macchina e lo scopo dell’umano, il progetto dell’umano deve venire prima. L’Ai deve dare la possibilità all’uomo di poter definire le sue priorità e quindi la sua autodeterminazione sociale».

Se l’Ai fosse un bambino, come lo si potrebbe istruire?

«Questo bimbo non ha tutte le abilità dell’adulto, allo stesso tempo ha una velocità eccezionale e non si stanca mai. Di fronte a una macchina inesauribile, e che lavora con una rapidità straordinaria nell’esecuzione del suo compito, ci deve essere vigilanza. Ray Kurzweil sosteneva che una macchina programmata per costruire graffette per i fogli - missione apparentemente innocua - senza mai fermarsi potrebbe portare alla fine del pianeta».

Immaginando l’Ai come un cervello nuovo, quali valori vi introdurrebbe per il bene dell’umanità, delle società odierne e del futuro?

«Dopo la nascita il cervello di noi umani si sviluppa nei primi mesi e anni, e questo fa sì che le relazioni che viviamo con le persone che ci accudiscono diano l’imprinting dei valori. Li assorbiamo così. Il bene che ci hanno voluto la nostra mamma e il nostro papà e altri familiari ci fanno apprendere la reciprocità dei comportamenti generosi, solidali, responsabili, educativi. Invece il “nuovo cervello” delle Ai non è aperto a quello che vivrà, ma è strutturato su quello che qualcun altro ha vissuto nel passato. Perciò secondo me i valori più importanti da collocarvi sono tre su tutti».

Il primo?

«Innanzitutto il dubbio. Detto così non sembra un valore morale. Ma se noi chiediamo qualcosa a ChatGPT una risposta ce la dà sempre. E a volte si tratta di allucinazioni. In questo momento la “virtù” più grande a cui possiamo aspirare noi uomini e donne non è la capacità di rispondere, ma di interrogarci se la risposta è valida o no. Se riuscissimo a dare alla macchina la predisposizione a dubitare dei suoi responsi avremmo fatto qualcosa che rispetterebbe molto di più la natura umana».

Ci dica il secondo.

«La misericordia, cioè la capacità di non essere determinati solo dagli avvenimenti negativi che una persona ha subito e registrato nella sua storia. Non si può prescindere dalla benevolenza».

Il terzo?

«Nell’ambito più sociale è cruciale l’aspetto dell’equità e dell’uguaglianza. Perché altrimenti le Ai alimenteranno la pericolosa divisione in classi sociali attraverso i pregiudizi».

E Dio che ruolo avrà?

«Il tema non sarà il rapporto tra Dio e l’Ai, ma sempre l’atteggiamento di noi uomini con l’Ai. Perché noi abbiamo la tendenza a crearci degli idoli, e potremo avere persone che si rivolgeranno alle Ai in forma oracolare, cioè come se fossero degli oracoli a cui chiedere delle divinazioni, di risolvere i nostri dilemmi esistenziali in una maniera che diventerebbe falso divino. E allora la questione sarà se l’uomo cercherà nell’Ai un dio che può controllare, una specie di bacchetta magica alla Harry Potter che sistema ciò che non va. In pratica il rischio è che si guardi al Cloud, dove risiede l’Ai, invece che al Cielo, e che si considerino le Ai delle nuove divinità»

 

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COMMENTI. L’Europa tace su pace e giustizia globale, come l’Onu impotente, tra l’enorme contraddizione fra l’universalismo dei principi e il particolarismo nazionale dei decisori politici

Una famiglia palestinese dopo un attacco israeliano a Khan Younis foto Ansa Una famiglia palestinese dopo un attacco israeliano a Khan Younis - foto Ansa

È veramente in agonia il diritto internazionale? È un petrarchismo da legulei o un astrazione da cattedratici sostenere che debbano esserci leggi universali e intangibili? Possiamo continuare a distogliere lo sguardo dalle gigantesche violazioni che ne stanno promuovendo gli Usa, la cosiddetta sola democrazia del Medio Oriente, e al loro seguito l’Unione europea, mentre sbandierano i valori dell’Occidente? L’agonia del diritto internazionale è un fatto che ognuno di noi dovrebbe esercitarsi a riconoscere fin nei dettagli minimi, come suggerisce Domenico Quirico (La Stampa 3 gennaio 2024). Perché chiamare «uccisioni» – come fanno i telegiornali – e non assassinii le cosiddette esecuzioni extra-giudiziarie che «accompagnano tutta la storia dello stato ebraico» (è ancora Quirico a ricordarcelo, sullo stesso giornale il giorno dopo), esultando per di più di questi «bestiali atavismi» con la Bibbia in mano, indipendentemente da che si tratti di terroristi conclamati, giornalisti, operatori sanitari, artisti, o altre vittime «collaterali»? Perché concedere onori da capo di stato a un assassino che ha fatto squartare un uomo (Jamal Khashoggi) e denunciarne un altro alla Corte Penale Internazionale, a seconda delle alleanze o delle guerre che sono in corso? Perché non chiamare genocidio quello in corso a Gaza, anche dopo che gli esperti hanno spiegato, se proprio occorreva, che ventiduemila morti la maggior parte civili e due milioni di «sfollati interni» bastano e avanzano a chiamarlo così?

Di fronte a quest’agonia, il silenzio dell’Unione europea è come la lama del coltello che senza

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SCENARI. Stato d’assedio, emergenza continua: ecco il fine degli attori regionali e di noi occidentali, non la pace. Lasciando che gli amici calpestino quel diritto internazionale che invochiamo per i nemici

In Medio Oriente la guerra allargata c’è già Netanyahu e Blinken - Ap

Con gli attentati in Iran e a Beirut è partita un’altra fase della destabilizzazione del Medio Oriente, cominciata con l’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Da allora – e sono più di venti anni – siamo passati attraverso il conflitto tra Hezbollah e Israele del 2006.

E poi le primavere arabe del 2011, l’intervento occidentale in Libia, il colpo di stato in Egitto del 2013 e la guerra di Siria, la mappa della regione è radicalmente mutata. Non è cambiato però l’obiettivo di alcuni dei protagonisti: nei piani Usa e israeliani lo Stato ebraico deve restare l’unica superpotenza regionale. È per questo che si fa la guerra e si rischia il suo allargamento non per altro.

IL TANTO CITATO Patto di Abramo tra Israele e le monarchie del Golfo (voluto da Trump ed ereditato in pieno da Biden), passando sopra la testa dei palestinesi e il mantra impallidito dei «due popoli e due stati», serve, o serviva proprio a questo. Il resto sono chiacchiere da bar sport dove tra un po’ andrà a reclutare i suoi supporter il principe assassino Mohammed bin Salman, amico di Putin, della Cina, e soprattutto dei tanti che qui paga e corrompe con sontuosi ingaggi.

È chiaro che in un situazione di alta tensione come quella attuale sono diversi gli attori, statali e non, interessati alla destabilizzazione. L’Iran manovra i suoi proxies – i combattenti per procura – Stati uniti e Israele manovrano i loro, come dimostrano ampiamente gli attentati di questi anni nella repubblica islamica e fuori contro alti esponenti iraniani tra cui nel 2020 il generale Qassem Soleimani, lo stratega della guerra all’Isis in Iraq e in Siria poi assassinato a Baghdad dagli americani.

Tutti i fronti di guerra sono attivi da anni, dal Libano alla Siria, dall’Iraq al Mar Rosso allo Yemen: soltanto che la nostra memoria e le nostre attitudini a osservare gli eventi sono selettive in maniera quasi paranoica: se è Israele a fare la guerra lo Stato ebraico «si difende», se sono gli altri a farla questi sono tutti «terroristi». Se poi siamo noi, l’Occidente e la Nato, a bombardare la regione, ammantiamo le nostre stragi come «esportazione della democrazia», con la difesa dell’ordine mondiale e dei nostri «valori». Ma dove sono finiti i nostri valori a Gaza e in Palestina? E magari pure in Afghanistan, abbandonato al suo destino dopo una fuga indecorosa.

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«Ma mi faccia il piacere», avrebbe detto Totò: avete mai visto in questi tre decenni una sia pur minima sanzione contro Israele per l’espansione abusiva delle colonie? Avete mai visto una condanna delle violenze israeliane in Cisgiordania? Ovviamente no. Soltanto George Bush padre nel 1991 ebbe il coraggio di minacciare il congelamento degli aiuti militari a Tel Aviv per costringere il suo governo a sedersi la tavolo dei negoziati a Madrid con i palestinesi.
COSA SUCCEDE INVECE oggi? Gli Usa non solo non chiedono una tregua definitiva a Gaza ma hanno varato altri 14 miliardi di aiuti a Israele per fare una guerra – e forse due – una sorta di strategia dell’annientamento dei palestinesi che non lascia vie di uscita.

Altro che due popoli e due stati: qui stiamo assistendo all’eliminazione di uno dei due senza fare nulla. Non ci si poteva aspettare altro da un fronte, quello occidentale, che negli anni scorsi ha abbandonato i curdi, alleati nella guerra al Califfato e innalzati sul piedistallo come eroi, alla repressione sanguinosa del Sultano della Nato Erdogan. Non sia mai poi che quegli stessi curdi tentino ora un processo democratico e inclusivo di etnie e religioni ma visto così in Medio Oriente: suona troppo di «sinistra» per piacere ai cantori dei media nostrani, trasformati ormai in lacchè della destra più becera.

Sono i fatti a parlare in questo senso non le nostre vaghe supposizioni. «Colpiremo ovunque», hanno promesso dopo il massacro compiuto da Hamas del 7 ottobre il premier israeliano Netanyahu e il suo ministro della Difesa Gallant che in estate aveva già promesso di ridurre il Libano «a una condizione medioevale».
SOLO QUI, NELL’ESANGUE Unione europea, si ignorava o si faceva finta di non capire quanto stava preparandosi alle porte di casa. Del resto il conflitto è il propellente fondamentale che rende legittimi i governi israeliani e anche quelli iraniani, oltre che i vari movimenti mediorientali di guerriglia alimentati da ingiustizie infinite: l’emergenza continua, lo stato di assedio, sono il fine ultimo degli attori della regione ma anche di noi occidentali, non la pace. Proprio perché mai interveniamo politicamente per raddrizzare i torti ma lasciando che quel diritto internazionale, spesso invocato nei confronti di nemici e avversari, venga quotidianamente calpestato dai nostri amici e alleati.

Ebbene quando l’ingiustizia si propaga si allargano anche i conflitti ed è questo che si rischia oggi in Medio Oriente. Le ragioni le sappiamo. Ma come al solito volteremo la testa dall’altra parte. Se anche il conflitto restasse limitato i motivi per nuove guerre ci sono tutti: basta voler guardare

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In tre ore di show Meloni bastona i suoi, sospende il pistolero Pozzolo, difende Salvini su Anas, rivendica l’occupazione della Rai, rifiuta le accuse di familismo, evoca ricatti, annuncia austerity e privatizzazioni

IN SCENA. La giovane leader «senza padroni e che non guarda in faccia a nessuno», allergica fino a ieri all’ipocrisia del politichese, ha dimostrato che per restare al centro della scena è pronta a imparare a menadito anche le regole più usurate del gioco

I vestiti nuovi dell’imperatrice Giorgia Meloni - LaPresse

Si narra che Giorgia Meloni, ripresasi dal fastidioso malessere fisico che l’ha colpita sotto le feste, abbia trascorso gli ultimi giorni in una full immersion con i suoi collaboratori per arrivare il più preparata possibile alla conferenza stampa di fine anno, slittata all’inizio di quello nuovo non per sua volontà. E bisogna ammettere che, sebbene a causa di questo slittamento si siano aggiunte alla mole già imponente di argomenti sul tappeto altre spinosissime questioni come il caso Pozzolo e il richiamo di Mattarella sulle direttive Ue in tema di concorrenza, il risultato è stato piuttosto brillante.

È vero, l’esordio della premier è apparso un po’ zoppicante, si è lasciata subito andare alla sua irrefrenabile tentazione di attaccare a freddo l’opposizione (in particolare chi aveva dubitato dei suoi malanni) quando avrebbe potuto elegantemente sorvolare. Ma poi l’underdog dell’estrema destra cresciuta ai bordi di periferia (periferia politica), la giovane leader «senza padroni e che non guarda in faccia a nessuno», allergica fino a ieri all’ipocrisia del politichese, ha dimostrato che per restare al centro della scena è pronta a imparare a menadito anche le regole più usurate del gioco.

Ha risposto alla maggior parte delle domande con affermazioni tanto perentorie quanto vaghe (ad esempio sulla

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