Roma, 19 dicembre 2023 – Romano Prodi ha investito Elly Schlein del ruolo di federatrice del Centrosinistra. Come le sembra questo approccio?
"Capisco le buone intenzioni di chi cerca di reagire alla deriva di una destra che sta cannibalizzando il Paese, di un governo che giorno dopo giorno comincia ad assumere le sembianze di un regime – avvisa Nichi Vendola, punto di riferimento della sinistra, da poco anche presidente proprio di Sinistra italiana –. Capisco l’urgenza di dare alle forze di opposizione il compito di costruire un’alternativa credibile alla coalizione sovranista e illiberale che sta colonizzando le istituzioni e la società italiana".
Ma la mossa non la convince?
"Non credo che il tema di oggi, quello su cui impegnare la nostra forza e intelligenza, sia la ricerca del federatore o della federatrice di una cosa che ancora non c’è, magari avendo sullo sfondo l’evocazione nostalgica dell’Ulivo. Sembra una discussione che si ripete, un déjà-vu. Finisce che siamo quelli di “aspettando Godot“. Rievocare le formule del passato rischia di apparire una fuga politicistica dal presente, se non una curiosa seduta spiritica. L’Ulivo nacque e morì in un mondo che non c’è più. Tutto è cambiato e non si può più sfuggire ai doverosi e aspri rendiconti sulle ragioni della nostra sconfitta, in Italia e non solo".
Anche Conte non l’ha presa bene.
"Forse pensa anche lui che occorra partire dalle fondamenta e non dal tetto. Solo la ricerca, il confronto, la discussione aperta con i saperi critici, i femminismi, il protagonismo dei giovani, può consentirci di mettere in campo un progetto ambizioso di cambiamento, non un libro dei sogni, ma un programma ben piantato nella terra delle contraddizioni del tempo nostro, un programma dotato di senso e capace di consenso".
C’è chi ipotizza l’esigenza di una figura esterna: Maurizio Landini potrebbe essere l’uomo giusto?
"Lei continua pazientemente a interrogarmi su un oggetto che incontra la mia impaziente ostilità. Che cosa, chi dobbiamo federare? Per fare cosa? Per quale idea? Non è più utile cercare risposte a domande che stanno nel cuore di tutta l’umanità piuttosto che farci domande che stanno solo nei talk show e che sono distanti anni-luce da quelli e quelle a cui ci rivolgiamo".
Qual è, allora, il ruolo che dovrebbe svolgere la leader dem?
"Spero che Elly Schlein continui e intensifichi il lavoro di ricostruzione del profilo politico e culturale del Pd, liberandolo dalle sue molteplici soggezioni alle compatibilità dettate dall’agenda liberista, bonificandolo dall’ossessione governista, e soprattutto riposizionandolo sul terreno della giustizia sociale e della pace, della conversione ecologica e del primato dei diritti umani".
Un’inversione quasi a U per il Pd pre-Schlein.
"Questo percorso che io auspico non è indolore: significa rompere con l’ossequio a un atlantismo acritico, riaprire con radicalità la partita per il disarmo, ripudiare la modernità fasulla di una sinistra che non si occupa più dei lavoratori salariati o della maledizione del precariato. Tutti noi siamo chiamati a essere federatori: di lotte, di reti di esperienze, di soggetti sociali feriti e atomizzati, di speranze sempre disattese. Ma ciò che può federarci e soprattutto connetterci col popolo del non voto e del disincanto, è la potenza dell’idea di alternativa".
Un ritorno all’ideologia?
" L’ideologia è il cuore dello scontro. La destra esibisce, anche contro il principio di realtà, tutti i propri vessilli ideologici e invece noi, spesso, sembriamo amministratori condominiali, con il malinconico realismo delle nostre tabelle millesimali".
Quale è, dunque, la strada che lei considera più valida per arrivare a una coalizione capace di sfidare la destra?
"Provo a dirlo con una metafora. Ci vorrebbe un vero e proprio Congresso: non di un partito o di una coalizione di ceti politici, ma di una moltitudine di attori, di un soggetto plurimo che agisce in alto e in basso, che è nel suo insieme politico e sociale, che agisce secondo lo stile della intersezionalità".
A chi si riferisce?
"Guardiamoci attorno: chi ha la capacità di una mobilitazione di massa, oggi, nel mondo progressista? Certamente i sindacati, anche se stressati da una lunga vicenda di delegittimazione dei corpi intermedi. Il movimento delle donne, come si è visto nella reazione alla insopportabile catena dei femminicidi. E il movimento lgbt, che con la sua potenza colorata e danzante riesce a opporsi efficacemente alle spinte reazionarie e neo-clericali della destra. E il movimento ecologista, sia pure in forme talora carsiche e mobilitando una diffusa avanguardia. Questi soggetti faticano a parlarsi, a ritrovarsi. Ma è da loro che può nascere non un accordo elettorale, ma una grande speranza sociale".
In che cosa fallì, invece, la coalizione prodiana del 2006?
"Non è stato molto indagato quel fallimento, si preferisce la comoda vulgata delle bizze personali o delle vicissitudini giudiziarie, anzi si cerca di mettere tutto sul conto del presunto estremismo di Bertinotti: un modo infantile di rimuovere non solo la cronaca di quei giorni – penso a Mastella, che era ministro di Giustizia –, ma anche le vere questioni che lacerarono il campo progressista e che riguardavano la risposta da dare alla crisi della società italiana ed europea".
In che senso?
"A quel tempo era già consumata per intero la storia del dopoguerra repubblicano e delle sue conquiste, il ceto medio aveva già cominciato a scivolare all’indietro, il riformismo oscillava paurosamente verso i dogmi dell’establishment economico. Già allora occorreva più coraggio, figuriamoci oggi: ma abbiamo il dovere di provarci, senza mai dimenticare che la destra può essere battuta, ma solo a condizione di non assomigliarle neanche un po’".
Commenta (0 Commenti)RIFORME. Gaffe o lapsus rivelatore che sia stata, la frase (non diremo il ragionamento) di Ignazio La Russa sul presidente della Repubblica è l’ennesima che il presidente del senato ha poi […]
Ignazio La Russa - foto LaPresse
Gaffe o lapsus rivelatore che sia stata, la frase (non diremo il ragionamento) di Ignazio La Russa sul presidente della Repubblica è l’ennesima che il presidente del senato ha poi dovuto precisare, correggere, smentire. Eppure qui non eravamo dalle parti dei nazisti spacciati per banda musicale, stavolta la frase era corretta. Nel senso che diceva la verità. Perché sì, «l’elezione diretta del presidente del Consiglio potrebbe ridimensionare i poteri del capo dello stato». Potrebbe anzi potrà certamente, perché il presidente della Repubblica dopo l’approvazione della riforma costituzionale proposta dal centrodestra sarà molto diverso da quello che è oggi. Assai più debole. E non si tratta di un effetto collaterale, ma dell’obiettivo preciso della riforma.
Quando la riforma fosse approvata, il «nuovo» capo dello stato non avrebbe più peso nella scelta dell’incaricato di formare il governo. Figurarsi quanto potrebbe fare il presidente nell’indicazione dei ministri (non è routine, chiedere a Di Maio e a Renzi che volevano imporre altre scelte ai presidenti Mattarella e Napolitano e prima di loro ci tentò Berlusconi).
Il presidente della Repubblica nel suo lavoro informale di raccordo tra le istituzioni non potrà più mettere sul piatto la possibilità di sciogliere le camere, che è da sempre la carta migliore – quasi l’unica – che ha nel mazzo quando deve far valere il suo punto di vista. La moral suasion intanto esiste in quanto il presidente ha voce in capitolo sui destini della legislatura, se perde questa voce nessuno lo ascolta. Senza contare che la riforma pretende di limitare il capo dello stato anche nella scelta del «secondo premier», introducendo di fatto quel vincolo di mandato per i parlamentari che la Costituzione da sempre vieta.
Sono tutte novità sostanziali che smontano facilmente l’argomento da avvocaticchio di la Russa («nessun articolo che riguarda il presidente della Repubblica è stato toccato»). Ma l’argomento più forte che annuncia il «ridimensionamento» del capo dello Stato è ancora un altro, ed è già all’opera tutte le volte in cui Giorgia Meloni quando si intravede (appena) qualche difficoltà con il Quirinale – per esempio sulla giustizia o sull’Europa – chiarisce di essere lei quella «scelta dagli italiani». La distanza che ancora c’è tra l’argomento retorico e la realtà – quella per cui Meloni è a palazzo Chigi in quanto indicata da una maggioranza parlamentare che è tale solo grazie a un abnorme premio elettorale – è proprio quella che la riforma costituzionale vuole cancellare.
Tra una carica eletta dal popolo e un’altra eletta indirettamente non ci sarà partita, la «Costituzione materiale», come già annuncia La Russa, cambierà e dovrà adeguarsi al vento plebiscitario.
Ieri dunque il presidente del senato prima ha detto e poi si è contraddetto. Gli capita tanto spesso che ormai siamo abituati ad aspettare il secondo tempo dei suoi annunci. L’uomo è diventato un problema anche per la presidente del Consiglio, che però non ha né la voglia né probabilmente ancora la convenienza di richiamarlo. Può solo sperare che si contenga. L’imbarazzo aumenta quando La Russa prova a convincerci che «il presidente della Repubblica avrà sempre un vantaggio sul presidente del Consiglio perché lui dura sette anni e l’altro solo cinque» e poi racconta di aver imparato questa fondamentale lezione di matematica da «un grande costituzionalista» (Marcello Pera, un filosofo).
Oppure quando garantisce che non c’è niente da temere con il premierato, prova ne sia che «non credo che se ne preoccupi nessun presidente della Repubblica passato». Il che è sicuramente vero, ma solo perché sono tutti morti.
Tra far trapelare per incontinenza le proprie cattive intenzioni e rivendicarle apertamente c’è spesso una distanza minima. La Russa è in questa stretta terra di confine, altrimenti detta «ci è o ci fa?». Peccato però che la destra abbia deciso di aprire la campagna per il referendum sulla riforma, prima ancora di cominciare a discuterla in parlamento. Quando è chiaro che il ruolo del capo dello Stato sarà il perno di tutta la campagna elettorale, quella per il Sì come quella per il No. Il presidente La Russa, in tutto questo, è ancora la seconda carica dello stato: il fatto che sia lasciato libero di lasciarsi andare nei confronti della prima (correggendo, per quel che vale) è una minaccia aperta agli equilibri istituzionali. È una violazione continua delle regole e delle garanzie che diventerà un problema sempre più grande. Anche per lo stesso Mattarella
Commenta (0 Commenti)STRATEGIE. Il Consiglio europeo ha deciso di aprire i negoziati di adesione con l’Ucraina: lo ha detto il presidente Michel. «L’Ucraina è Europa, l’Europa è Ucraina» ha dichiarato Metsola, presidente dell’Europarlamento; […]
Bruxelles, il primo ministro ungherese Viktor Orbán stringe le mani a Emmanuel Macron - foto Ap
Il Consiglio europeo ha deciso di aprire i negoziati di adesione con l’Ucraina: lo ha detto il presidente Michel. «L’Ucraina è Europa, l’Europa è Ucraina» ha dichiarato Metsola, presidente dell’Europarlamento; «un fatto storico» ha commentato Ursula von der Leyen. Anche se l’apertura dei negoziati vuol dire che l’adesione vera e propria avverrà tra qualche anno è una svolta istituzionale e simbolica.
Ma facciamo solo un passo indietro, a 24 ore prima dell’annuncio. Il viaggio di Zelensky negli Usa per avere più fondi a sostegno della continuazione della guerra è finora stato un fallimento, per diretta opposizione dei Repubblicani ma anche per un a diffusa e generale «stanchezza» americana, tanto più che le fonti d’intelligence confermano la stallo sostanziale sul campo dei combattimenti. La soluzione militare al conflitto non c’è, ma nonostante questo decine di miliardi di dollari devono a tutti i costi arrivare all’esercito ucraino, il cui capo di Stato maggiore Valery Zaluzhny è in conflitto aperto con il presidente, proprio sulla conduzione della guerra e sulla trattativa possibile.
Putin, che si ricandida la quinta volta, avverte che una tregua ci sarà quando lui avrà compiuto i suoi obiettivi. Stanchezza, stallo, fallimento della controffensiva ucraina – riconosciuta
Leggi tutto: Di fronte allo stallo, lo scaricabarile degli Usa - di Tommaso Di Francesco
Commenta (0 Commenti)«È molto grave che il governo italiano si sia astenuto nella risoluzione dell’Onu che chiedeva un cessate il fuoco umanitario a Gaza. Meloni ha espresso preoccupazioni per i civili palestinesi, ha ribadito che si sta impegnando sul fronte umanitario? Il vero impegno umanitario è un cessate il fuoco. E lavorare a una missione di pace», dice Giuseppe Provenzano, responsabile esteri del Pd, reduce da un viaggio in Israele e Palestina, dove ha incontrato il presidente Herzog, il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh e il cardinale Pizzaballa.
All’inizio della guerra voi avete cercato una linea comune con le destre sul Medio Oriente. Vi siete pentiti?
Quando il governo parlava di una soluzione politica e della ripresa di un negoziato di pace siamo stati i primi a manifestare disponibilità alla collaborazione. Ma le recenti decisioni del governo rompono di fatto l’unità del Parlamento e contrastano anche con un diffuso sentimento dell’opinione pubblica. Noi abbiamo fatto delle proposte precise: una missione internazionale di interposizione a Gaza sotto l’egida dell’Onu, che coinvolga anche i paesi arabi. L’Italia ha una tradizione diplomatica e una credibilità conquistata con la missione in Libano, ma la premier su questo è immobile. Si dice amica di Netanyahu? Allora dovrebbe convincerlo che non può andare avanti con questa carneficina che non ha alcuno sbocco politico. E invece è immobile.
Anche voi avete detto che Israele aveva il sacrosanto diritto a difendersi. Non era difficile prevedere che sarebbe stata una reazione violenta.
Certo che aveva diritto dopo il pogrom del 7 ottobre. Ma nel rispetto del diritto internazionale e umanitario. Abbiamo chiesto da subito a Israele di non trasformare la legittima difesa in vendetta. Combattere Hamas dev’essere la priorità non solo di Israele, ma della comunità internazionale. Però la popolazione di Gaza non è Hamas. E il governo israeliano sta anche supportando le violazioni compiuti dai coloni israeliani in Cisgiordania. Per questo chiediamo che l’Italia e l’Europa sanzionino questi comportamenti.
Veramente Francia e Germania, insieme all’Italia, chiedono altre sanzioni contro Hamas.
L’alto rappresentante per la politica estera Ue Borrell ha avuto parole chiare sia su Hamas e la liberazione degli ostaggi sia sul rispetto del diritto internazionale da parte di Netanyahu. La Spagna ha proposto una conferenza di pace. L’Europa deve avere una sua voce nello scacchiere internazionale, molto più forte di quanto sia oggi. Ne va della nostra credibilità, anche del sostegno all’Ucraina: la sosteniamo perché crediamo nel rispetto del diritto internazionale, non solo perché facciamo parte della Nato. E il diritto deve valere anche in Palestina. Dire “due popoli due stati”, per non apparire come pura retorica, deve significare il riconoscimento dello stato di Palestina: deve farlo l’Italia e l’Europa che nasce per incarnare due valori: pace e democrazia.
È noto che nell’applicazione del diritto internazionale alcuni sono più uguali di altri.
Non possiamo permetterci doppie morali, c’è un sud globale sempre più critico verso l’Occidente proprio con questa accusa. Spingere sulla soluzione politica in Medio Oriente è una occasione per provare a ricostruire un ordine internazionale basato su regole condivise. Per questo non accettiamo la delegittimazione dell’Onu: serve una sua democratizzazione, il consiglio di sicurezza così com’è non funziona. Ma le istituzioni si riformano, non si abbattono.
Israele è piuttosto restio ad accettare le indicazioni Onu.
Noi sosteniamo i richiami umanitari di Guterres. Quello che accade a Gaza è sotto gli occhi di tutti, nessuno può dire “non sapevo”. E’ urgente fermare il massacro di civili che può portare ad una escalation. Il diritto all’esistenza di Israele si sostiene rilanciando il processo di pace.
Nel Pd ci sono dirigenti autorevoli che sostengono la difesa di Israele senza troppi distinguo sul come. Sono andati nelle piazze organizzate dal Foglio.
Io ho visitato i Kibbutz colpiti, dove viveva la parte più progressista e pacifista. La solidarietà per il pogrom del 7 ottobre è un dovere. Così come è stata giusta la presenza di Schlein nella piazza contro l’antisemitismo, è nel nostro dna, assai più che in quello degli eredi di Almirante o degli amici dell’Afd tedesca come la Lega. Loro vogliono lo scontro di civiltà. Noi combattiamo ogni forma di suprematismo.
Alcuni giorni fa lei ha partecipato a un convegno organizzato da Gianni Cuperlo in cui molti dirigenti dem avrebbero fatto un mea culpa per aver parlato troppo poco di pace, in particolare sull’Ucraina. Un cambio di linea?
Avverto un certo fastidio in alcuni ambienti per un Pd che parla di pace. Sono stato a Kiev è anche lì la pace è il primo desiderio: ma questa non può essere una resa alla prepotenza della guerra imperialista di Putin.
È sempre stata la vostra linea. Bisogna inviare altre armi?
Rivendico una coerenza, continueremo a sostenere un popolo aggredito con tutti i mezzi necessari. Questo non ci impedisce di chiedere un maggiore sforzo diplomatico, di dire con più forza la parola pace.
Il vostro mea culpa riguardava l’accusa di essere “putiniani” a chi era contrario a inviare armi?
In questi due anni c’è stato un attacco inaccettabile contro gli autentici pacifisti, a partire dal mondo cattolico che merita ascolto e rispetto. C’è invece stato anche chi ha preteso di confiscare la parola pace con narrazioni ambigue sull’origine del conflitto che negavano il diritto degli ucraini a difendersi. Noi vogliamo la pace giusta.
Il governo Meloni minaccia il veto sul nuovo Patto di stabilità. La battaglia contro il ritorno dell’austerità può essere popolare, persino Monti sostiene che le nuove regole danneggerebbero l’Italia.
Ma sono loro che ci portano all’austerità! Il governo ha sbagliato tutto nel negoziato con l’Europa: hanno pensato di usare un’arma spuntata come la ratifica del Mes per ricattare gli altri paesi e sono andati a sbattere. Se si vuole ottenere un risultato, serve un negoziato politico e le alleanze giuste, non con Abascal e Orban. La vera faccia di questa destra antisociale è l’austerità: già la praticano in Italia col taglio alla sanità, alle pensioni e al welfare.
Venerdì e sabato il Pd ha convocato una due giorni sull’Europa, invocando il ritorno ai tempi della solidarietà e del Pnrr. Il clima però è cambiato e la colpa non è solo di Meloni.
Noi vogliamo cambiare l’Ue: c’è stato un avanzamento sul tema della solidarietà dopo la pandemia, e l’arretramento di oggi è figlio anche di fatti politici come la vittoria delle destra da noi. Le elezioni europee saranno una battaglia decisiva, e non è un caso che i socialisti abbiano deciso di tenere il congresso in Italia, a marzo: il cuore della sfida contro i nazionalisti è qui. In questo fine settimana vogliamo mettere le basi del programma ascoltando le forze sociali ed economiche, il mondo delle associazioni. Ci sarà il commissario Ue al Lavoro Schmit che ha voluto la direttiva sul salario minimo e le nuove regole per i lavoratori della piattaforme. Tutte cose che il governo Meloni non vuole. Vogliamo spingere l’Ue a ritrovare ambizione e coraggio per le sfide sulla sostenibilità ambientale e sociale: una «transizione verde col cuore rosso». La sfida con le destre è aperta, in Spagna le abbiamo fermate
COP28. Intervista a Brandon wu, protagonista delle Ong a Dubai
Brandon Wu è Director of policy and campaigns di Actionaid USA. Veterano delle Cop, la sua è stata una delle figure di riferimento per movimenti e ong durante la Conferenza sul clima di Dubai.
Con che umore si prepara a rincasare?
Sono deluso. Avevamo la grande opportunità di ottenere parole forti sia sull’abbandono dei combustibili fossili, sia sul supporto alle nazioni in sviluppo. Ma non abbiamo ottenuto niente di tutto ciò. Certo, è nato il fondo loss&damage. Ma dentro ci sono centinaia di milioni quando al mondo servirebbero centinaia di miliardi. Il linguaggio sui fossili è debole, con obiettivi lontani nel tempo e molte scappatoie. Bisogna capire che questi due problemi sono interconnessi. I paesi in via di sviluppo hanno bisogno di soldi per uscire dal fossile. Senza supporto, spesso, semplicemente non possono. Non solo a questo negoziato le nazioni sviluppate non hanno messo sul piatto il necessario: hanno anche diluito gli impegni sul tema. La finanza è la chiave di questa trattativa. Lo è sempre stata.
Chi sono i cattivi nella stanza?
Gli Stati Uniti. Sono primi per emissioni storiche, hanno la massima quota di contribuzione dovuta secondo principio di equità, e sono molto indietro. Washington non ha ancora raggiunto nemmeno l’obiettivo di 3 miliardi di dollari al Green Climate Fund che si era data nel 2014. Qui a Dubai hanno guidato la carica contro l’uso di un linguaggio che suggerisse l’obbligo da parte dei paesi ricchi di contribuire alla finanza climatica. Anche il Regno Unito è problematico. L’Unione Europea fa un
RIFORME. Gli autori del progetto di riforma costituzionale non hanno pensato che rischiano di affidare l’ultima parola sul "capo" agli iscritti all’Aire, da sempre un sistema opaco. Prosegue la sfilata dei costituzionalisti e delle costituzionaliste in prima commissione al senato, ma c’è qualche possibilità che i nostri allarmi vengano presi sul serio?
La macchina della riforma sul premierato va avanti, corre veloce sul binario su cui anche il regionalismo differenziato sta correndo, sferragliando verso la stessa stazione di arrivo. Per chi ha studiato e creduto nel progetto di società più giusta, uguale, democratica e libera disegnato nella Costituzione del 1948, quella stazione è percepita con un devastante senso di angoscia per il pericolo che essa rappresenta per la democrazia costituzionale. E allora, a chi appellarsi quando ormai ciò che appare ineluttabile si avvicina? Ai costituzionalisti la parola.
Premierato, la destra vuole la sua Costituzione
E quindi eccoci qua, che da fine novembre sfiliamo, in audizione in Commissione affari costituzionali al Senato, con i nostri appunti su due progetti di «premierato», quello del governo e quello renziano. Tra i due non si sa se temere di più il primo, mal costruito e tutto sbilenco nel suo tentativo di fare i conti con un compromesso instabile tra le forze politiche della maggioranza, e quello più linearmente autoritario, partorito dal mistificante mito renziano del sindaco d’Italia.
Tra chi lamenta che il “capo” non avrebbe sufficienti poteri e che il Governo non venga adeguatamente rafforzato, e chi segnala che il Parlamento in fondo non può essere lasciato avere carta bianca per un’intera legislatura (non sia mai!) ascoltare queste audizioni è un’esperienza scoraggiante. A che vale dire che il ruolo del Capo dello stato verrebbe svuotato, le Camere annichilite in un simile contesto? O ricordare che l’organo costituzionale che si vuol rafforzare è quello dei record sulla decretazione d’urgenza, dei Dpcm sui diritti fondamentali?
A chi dei nostri interlocutori interesserà che il premio di maggioranza abnorme implicitamente previsto nel testo del Governo è già stato dichiarato incostituzionale prima ancora di essere applicato, e che l’instabilità dei governi non si cura falsando la rappresentanza politica, ma semmai rivitalizzandola? Ma forse un’idea su come fermare il treno… un ostacolo insormontabile tra i vari difetti di architettura più o meno opinabili c’è.
Sovranità popolare non è votare un capo (o una capa)
Per uno di quegli scherzi che a volte fa la storia, proprio una mina inesplosa lasciata nel testo della Costituzione come eredità dal missino Tremaglia potrebbe salvarla: il voto degli italiani all’estero. Sono quasi sei milioni oggi, ed essendosi il governo dimenticato della loro esistenza, non si è calcolato che il loro voto rischierebbe di diventare decisivo nell’elezione diretta del premier all’esito della riforma di cui si discute.
Oggi gli italiani all’estero eleggono solo dodici parlamentari della circoscrizione estero, prima della riduzione del numero dei parlamentari erano diciotto. In entrambe le ultime due legislature sette di questi parlamentari sono stati eletti nelle fila del Pd.
Ora, mentre il voto per le Camere è un voto “pesato” e la circoscrizione estero esprime quindi un parlamentare ogni settecentomila elettori (a fronte dei circa centocinquantamila elettori per ogni parlamentare eletto dall’Italia), nel caso dell’elezione di una carica monocratica come quella del premier, questo non potrebbe avvenire, il voto di ogni cittadino tornerebbe ad essere uguale, uno vale uno. E così si rischierebbe di far dipendere la scelta del “capo” da un voto come quello degli italiani all’estero, che peraltro è caratterizzato sin dal suo primo esercizio da modalità che non garantiscono libertà, personalità e segretezza, oltre all’uguaglianza del voto.
Tutti ricordiamo le storie di brogli, i pacchi di schede false o sparite, i racconti di qualche parente iscritto all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero che ha ricevuto due schede o nessuna. Si vuole rischiare che le contestazioni che ogni volta hanno accompagnato queste vicende riguardino l’elezione del presidente del Consiglio? Signori, il treno è guasto, va fermato… e i costituzionalisti – e anche le costituzionaliste – servono ancora a qualcosa, forse
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