La tremenda, balbettante prova di Biden nel dibattito tv contro Trump incendia i social, gela i media amici e fa saltare in aria il partito democratico. Che ora discute l’impensabile: sostituire il candidato che l’establishment aveva blindato. E che insiste: «Io so fare questo lavoro»
UN PARTITO DIVISO. L’avevano vista arrivare, la débâcle di Joe Biden, ma non nelle dimensioni catastrofiche in cui è stata crudamente, crudelmente, messa in scena per novanta minuti sugli schermi della Cnn giovedì notte
Joe Biden durante il dibatitto con Donald Trump ad Atlanta - AP Photo/Gerald Herbert
La disfatta di Atlanta, i democratici l’avevano vista arrivare, ma non nelle dimensioni catastrofiche in cui è stata crudamente messa in scena per novanta minuti sugli schermi della Cnn giovedì notte. Pensavano, strateghi e big del partito, che Biden, opportunamente protetto da una rete di sicurezza, avrebbe potuto sostenere la difficile prova con Trump.
Tanto che la leadership democratica non ha concepito né predisposto un piano alternativo, come quello che adesso in molti invocano a gran voce e con urgenza, in prima fila i donor che mai come in questa competizione hanno aperto così generosamente il portafoglio.
Il tema dell’età di Joe Biden, unita a una sua crescente fatica a reggere un ruolo così pesante, è all’ordine del giorno dacché la sua ricandidatura è stata messa sul tavolo dall’interessato con il sostegno della famiglia e dei maggiorenti del Partito democratico, ma anche degli ambienti vicini che contano, come il New York Times, Hollywood, i grandi atenei, un fronte che vedeva nel presidente in carica quello più attrezzato per sconfiggere nuovamente l’impostore di New York.
Certo, va detto che ultimamente Biden ha subito un evidente peggioramento delle sue condizioni psicofisiche, probabilmente dovuto alle vicende giudiziarie del figlio Hunter.
Nel suo recente tour europeo, poi soprattutto in un gala per la raccolta fondi a Los Angeles, era apparso in uno stato di smarrimento e di affanno fisico. Ha colpito l’immagine, nell’evento di Los Angeles, di Barack Obama che gentilmente ma fermamente lo conduce
fuori dal palco mentre sembra disorientato e bloccato.
Si pensava – da parte dello staff – di poter controllare la situazione, con ogni sorta di premura e protezione, una cintura di sicurezza intorno al presidente, fin al punto di imporre un format su misura per lui alla Cnn, un dibattito senza pubblico, con microfoni controllati, con lo schermo diviso a metà, e altri accorgimenti che avrebbero dovuto sostenere il presidente e fargli da rete, ma che non hanno fatto altro che metterne in evidenza la debolezza.
Un’inadeguatezza tanto più plateale di fronte a uno sfidante che ha fatto la sua fortuna pubblica come ideatore e conduttore di un reality come The Apprentice, un «gatto randagio» – definizione di Biden – che si muove con agilità sul palco e sullo schermo.
L’idea di organizzare a giugno un dibattito che in passato si è sempre tenuto dopo le convention estive doveva servire a costruire la narrazione di una sfida della decenza contro l’indecenza, del bene contro il male, della democrazia contro la sovversione che avrebbe poi caratterizzato il voto di novembre.
Il duello presidenziale fa svanire questo disegno, e con esso ne mette in seria crisi il protagonista. Il match televisivo apre la strada a un referendum su Biden, non su Trump, com’era negli auspici della Casa Bianca.
La politica finisce ora ancor di più ai margini, la discussione tra i democratici si focalizza sul candidato, sulla sua capacità di vincere il 5 novembre e di trainare i candidati democratici in corsa per il senato e per la camera dei rappresentanti e per una miriade di cariche elettive locali. Un’immensa posta in gioco. Che vede il Partito democratico impreparato. Nel panico.
Nei prossimi giorni s’intensificheranno le pressioni perché Biden faccia un passo indietro e agevoli lui stesso un processo di designazione di un altro ticket presidenziale. Sono i media innanzitutto interessati perché la corsa si riapra con un altro contendente, anche quelli amici. Le danze le ha aperte a caldo il New York Times con una serie d’interventi delle sue firme più forti, a cominciare da Thomas Friedman.
Non mancano potenziali candidati alternativi. Ce ne sono almeno tre, come i governatori della California, Gavin Newsom, del Michigan Gretchen Whitmer, del Mariland Wes Moore. Ma, a parte Kamala Harris, nessuno è preparato a un’impresa così impegnativa, che si svolgerà nell’arco ormai di poche settimane, col rischio altissimo di bruciarsi.
Come possa attuarsi il percorso per un cambiamento non traumatico del candidato presidenziale è un bel problema politico. La via maestra sarebbe quella verso una convention democratica (in pieno agosto a Chicago) brokered, aperta, simile al congresso di un partito europeo, dove i quattromila delegati e superdelegati si possano confrontare su uno o più candidati.
Ma qui si torna al perché è Biden il candidato democratico e rischia di rimanerlo, a dispetto dei suoi anni e dei suoi ormai conclamati limiti psicofisici.
Perché ha avuto la forza e l’abilità di unire le diverse anime e fazioni del Partito democratico, oggi nuovamente stressato da divisioni e conflitti interni. Anche per questo Biden è riuscito a battere Trump nel 2020. Tutti gli altri potenziali candidati di cui si parla non sembrano avere questa stessa capacità. Che invece, sul fronte opposto, oggi Donald Trump può vantare nel Grand Old Party, dove molti lo detestano ma sono pronti a dargli tutto il sostegno che serve per vincere.