Una saga legale che sembra chiusa, ma destinata ad avere effetti di lunga durata sulla libertà di stampa e sul diritto ad informare e a essere informati. Una detenzione durata 5 anni nel carcere di Belmarsh, ma molto più lunga se si considera la sostanziale reclusione nell’ambasciata ecuadoregna di Londra.
La scarcerazione, anche se l’iter giudiziario non è concluso, è avvenuta ieri dopo il raggiungimento di un accordo tra il Dipartimento della giustizia statunitense e Assange. Un accordo a cui ha dato certamente un impulso decisivo il provvedimento dell’High Court di Londra che aveva concesso ad Assange la possibilità di presentare un nuovo appello contro il provvedimento di estradizione negli Usa deciso dalle autorità inglesi. Questo avrebbe significato per l’amministrazione americana un nuovo round nelle aule di giustizia inglesi con l’opinione pubblica sempre più mobilitata a favore di Assange. Non solo. Proprio nell’ultimo anno anche alcuni governi e organismi internazionali si sono attivati. Prima la Relatrice speciale Onu contro la tortura, Alice Jill Edwards, aveva chiesto, nei mesi scorsi, alle autorità inglesi di fermare l’estradizione di Assange e poi il governo australiano, dopo anni di silenzio rispetto a ciò che stava subendo Assange, si è risvegliato e grazie al premier Anthony Albanese ha iniziato a fare pressioni su Usa e Uk per il rilascio del proprio cittadino. Alle 18.36 del 24 giugno, quindi, Assange ha lasciato il carcere di massima sicurezza. Dal punto di vista giuridico, però, il cammino non è concluso anche se vicino alla fine. Queste le nuove tappe fissate dall’High Court of Justice che con l’ordinanza depositata il 25 giugno ha concesso la libertà condizionata ad Assange per consentirgli di recarsi presso il Tribunale distrettuale Usa di Saipan in base all’accordo di patteggiamento concluso il 19 giugno.
La prima tappa di Assange, quindi, saranno le isole Marianne: in tribunale il fondatore di WikiLeaks dovrà dichiararsi colpevole di aver cospirato per ottenere e diffondere informazioni classificate (capo di accusa numero uno) con una proposta di pena da scontare (che, in pratica, coinciderà con il periodo di carcere già subito in attesa dell’estradizione) e una rinuncia degli Usa alla richiesta di estradizione. Poi, forse con qualche altra restrizione, Assange tornerà in Australia. L’accordo di patteggiamento dovrà essere definito entro il 26 ed entro il 28 giugno dovrà essere trasmesso ai giudici inglesi. Poi il caso, anche per Londra, sarà chiuso.
Una conclusione che certo non segna il trionfo della libertà di stampa, ma che almeno porta alla libertà di Julian Assange, gravemente provato dalla lunga detenzione e che allontana per sempre lo spettro di una condanna che sarebbe potuta arrivare fino a 175 anni di carcere.
Ma in ogni caso, il cosiddetto chilling effect sulla libertà di stampa è stato realizzato e continuerà a produrre i suoi effetti. Difficile che un giornalista si avventuri nella divulgazione di notizie sui crimini presumibilmente commessi durante i conflitti dalle grandi potenze perché le gravi pene e il trattamento disumano e degradante subito dal fondatore di WikiLeaks in ragione di non chiarite esigenze di sicurezza nazionale potranno sempre essere chiamate in ballo per bloccare la libertà di stampa. È così necessario un intervento ad ampio raggio degli organismi internazionali a tutela dei diritti umani tenendo conto che i tanti anni di privazione della libertà personale hanno mostrato che anche i Paesi vincolati a convenzioni internazionali a tutela della libertà di espressione non esitano a calpestarla per nascondere alla collettività fatti di sicuro interesse pubblico