Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

FRANCIA. Oggi nessuno dei tre blocchi (lepenisti, macronisti, sinistra) ha la capacità di essere una forza dirigente in grado di ottenere il consenso della maggioranza. Il Nuovo Fronte Popolare non è un incantesimo che ripete una vecchia antifona antifascista. È pronto a condurre una guerra di posizione? La speranza è da questa parte
La crisi dell’egemonia politica  in Francia La presentazione del Nouveau Front Populaire a Parigi - foto Ansa

Dalla nascita della Quinta Repubblica nel 1958, il panorama politico e ideologico francese è stato strutturato da due blocchi contrapposti.Da un lato, le due famiglie di destra (il gollismo e i suoi eredi, i liberali), dall’altro i due partiti di sinistra (i socialisti e i comunisti).

L’estrema destra e l’estrema sinistra hanno svolto un ruolo elettorale marginale e hanno avuto una presa relativamente debole sulla società. La bipartizione si è gradualmente disintegrata negli anni Ottanta a favore di una tripartizione delle forze politiche: l’estrema destra, il centro liberal-liberista e la sinistra plurale. In questa nuova geografia di forze ideologiche, la destra classica ha cercato di sopravvivere, ma si è trovata di fatto divisa tra la tentazione di aderire al Rassemblement National (RN) e al campo presidenziale.

In Francia non è mai esistita una forza paragonabile a quella della DC in Italia, la cui spina dorsale ideologica era basata sulla religione maggioritaria degli abitanti della penisola, sull’allineamento atlantista e sulla difesa del federalismo europeo.
Oggi nessuno dei tre blocchi (il RN, il campo presidenziale, la sinistra) ha la capacità di essere una forza dirigente in grado di ottenere il consenso della maggioranza dei francesi su un programma politico, perché nessuno di essi ha l’egemonia.

Nessuno può negare che l’ideologia dell’estrema destra abbia fatto progressi spettacolari nella società francese. Solo qualche decennio fa, il Front National non era altro che un piccolo gruppo, mentre il Rassemblement National vanta oggi oltre il 30% dell’elettorato, anche se in un contesto di tassi di astensione molto elevati. A questa famiglia politica mancava solo la rispettabilità che deriva di fatto dall’accesso alle responsabilità di governo. Questo obiettivo potrebbe essere raggiunto tra poche settimane.

Tuttavia, sarebbe eccessivo affermare che il Rassemblement National ha vinto la battaglia delle idee, come molti commentatori hanno ripetutamente proclamato. Le sue tesi sulla perdita dell’identità francese hanno preso piede nel dibattito politico e soprattutto nei media, contagiando l’opinione pubblica. I sondaggi mostrano anche un aumento degli ideali di tolleranza dei francesi nei confronti delle minoranze sociali e razziali, soprattutto tra le giovani generazioni. Inoltre, la mancanza di una risposta chiara del Rassemblement National alle questioni economiche e diplomatiche e il suo ostinato rifiuto di affrontare le sfide ecologiche e sociali testimoniano la limitatezza della sua influenza.

Il progresso del Rassemblement National non è in alcun modo in grado di creare un nuovo senso comune, per usare ancora una volta un’espressione gramsciana. Dal punto di vista ideologico il centro macronista è chiaramente strutturato attorno a un progetto liberale e liberista pro-europeo. Tuttavia, questo progetto piace solo alle élite sociali, di cui riflette gli interessi corporativi, senza alcuna capacità di soddisfare i bisogni materiali e spirituali delle classi inferiori. I macronisti di oggi non sono i giacobini di ieri! Il macronismo è quindi una forza dominante, non una forza dirigente.

La sinistra francese ha sempre avuto due anime, una riformista, l’altra rivoluzionaria. Ma questa dicotomia non le ha impedito di diventare egemone nel campo delle idee dal 1945 e poi nelle urne dagli anni Settanta agli anni Ottanta. Perché la sinistra ha perso il suo potere egemonico? Da un lato, la difficoltà di far rientrare le questioni sociali e ambientali nella questione sociale e, dall’altro, la riluttanza di alcuni suoi membri a continuare a difendere l’ideale repubblicano universalista.

Ma fanno sorridere coloro che presentano il Rassemblement National come l’esempio della lotta contro l’antisemitismo mentre la sinistra viene ingiustamente stigmatizzata come antisemita a causa della presa di posizione moralmente indegna di un gruppetto di deputati de La France Insoumise.
La creazione del Nuovo Fronte Popolare e il ritorno alla «disciplina repubblicana» sono la prova di un salutare risveglio. Il «popolo della sinistra» intende unirsi dal basso, costringendo gli apparati politici ad essere all’altezza di questa richiesta. Il Nuovo Fronte Popolare non è l’alleanza tra forze politiche incompatibili. Lo hanno detto con facile ironia i sostenitori del campo presidenziale che sono stati sorpresi da questa impennata della sinistra al punto da farne il loro principale nemico, anche a costo di rifiutare la disciplina repubblicana.

In origine, l’espressione «disciplina repubblicana» è stata usata per descrivere il trasferimento di voti al candidato di sinistra meglio piazzato al secondo turno di un’elezione, con la sinistra equiparata alla difesa della Repubblica. L’espressione non scomparve dopo il 1914 e il radicamento della destra al regime repubblicano. È stata utilizzata, anno dopo anno, in tutte le elezioni fino a poco tempo fa per bloccare l’estrema destra. Uno dei leader dei Repubblicani, François-Xavier Bellamy che ha guidato il partito alle europee, ha invitato a votare per i lepenisti in caso di duello con la France Insoumise. E anche i macronisti sembrano per ora non volerla votare al ballottaggio. In compenso, ci sono molti appelli a sinistra per bloccare il Rassemblement National a tutti i costi.

L’espressione «Nuovo Fronte Popolare» non è un semplice incantesimo che ripete una vecchia antifona antifascista. La sinistra ha però ancora molta strada da fare per recuperare la sua capacità egemonica. È pronta a condurre questa guerra di posizione? C’è da augurarselo, perché la speranza è da questa parte.

*Maître de conférences in storia contemporanea,Università di Rouen, autore della biografia Antonio Gramsci : Vivre, c’est résister, Dunod.

 
 
Commenta (0 Commenti)

IL FRONTE DEL LIBANO . Quando l’esercito israeliano ha annunciato qualche giorno fa di avere un piano per un’offensiva in Libano contro Hezbollah in poche ore il prezzo dei generatori di corrente è aumentato di […]

Un guerra  senza ”ombrello” americano? Cerimonia funebre all'aeroporto di Teheran,per il presidente Raisi e i suoi compagni, morti in un incidente in elicottero lo scorso 21 maggio - Lapresse

Quando l’esercito israeliano ha annunciato qualche giorno fa di avere un piano per un’offensiva in Libano contro Hezbollah in poche ore il prezzo dei generatori di corrente è aumentato di quattro volte nella regione di Haifa, a 30 chilometri dal confine libanese.

Era successo qualche cosa di simile nei giorni dello scontro tra Israele e Iran a seguito del bombardamento dell’ambasciata di Teheran a Damasco. Ma stavolta gli israeliani ritengono che Hezbollah potrebbe fare più male di quanto abbiano fatto militarmente gli ayatollah di Teheran, impegnati nella corsa alle presidenziali anticipate per la morte in un misterioso incidente di elicottero del presidente Ebrahim Raissi. Hezbollah, secondo gli stessi israeliani, ha un arsenale di 150mila razzi, e sarebbe in grado di colpire lo stato ebraico con 5mila ordigni al giorno.

E non è questa l’unica cosa che preoccupa Tel Aviv: la tecnologia del movimento islamico può incidere su rapporti di forza strategici che hanno visto finora Israele come un superpotenza imbattibile e intoccabile.
La guerra, come nel 2006, è pronta a esplodere nonostante i tentativi di mediazione americana affidati a un controverso ex ufficiale israeliano Amos Hochstein che ha fatto carriera nei corridoi del potere americano e ieri a Washington, insieme al segretario di stato Blinken, ha incontrato il ministro della difesa israeliano Gallant in visita negli Usa.

Hochstein entra di diritto in quella galleria di personaggi e organizzazioni descritta nell’ultimo importante libro dello storico Ilan Pappe – «Lobbyng for Zionism on both sides fo Atlantic» – che non crediamo avrà molte recensioni dalle nostre parti. Hochstein è colui che ha elaborato e dato corpo alle strategie Usa in Europa e Medio Oriente. È stato lui che fece saltare il South Stream, il gasdotto tra Russia-Turchia-Italia che doveva aggirare l’Ucraina, a lui è ricorso Biden per chiudere il North Stream 2, la pipeline tra la Russia e la Germania.

Una delle cause del conflitto con Mosca. Washington si gioca ora in Medio Oriente la carta Hochstein – che nel 2022 ha mediato l’accordo tra Libano e Israele sui confini marittimi – per evitare un’altra guerra tra gli Hezbollah e gli israeliani in un mix esplosivo con il massacro in corso a Gaza dove il premier Netanyahu non cerca la pace ma un’impossibile vittoria “totale”. Hochstein è un strana figura di mediatore che rivela le contraddizioni laceranti della politica estera americana, in bilico tra una diplomazia dai contorni ambigui e mosse destabilizzanti di portata devastante, oscillante tra la fedeltà agli interessi primari di Washington, quelli dello stato ebraico e delle lobby affaristiche e militari.

Questi sono i personaggi in campo che preoccupano almeno quanto la situazione che dovrebbero gestire.
Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre Hezbollah aveva innescato degli scontri lungo la frontiera meridionale del Libano in solidarietà con i palestinesi e per alleggerire la pressione sul movimento islamista. In realtà dopo la guerra dei 40 giorni del 2006 questo fronte, dove è presente la forza militare Onu della missione Unifil (un migliaio i soldati italiani), la tensione era rimasta alta ma senza potenziali escalation.

Negli ultimi mesi tutto è cambiato. Gli attacchi israeliani in Libano si sono fatti sempre più pesanti, con l’uccisione di 450 persone tra cui dozzine di civili. A sua volta Hezbollah ha compiuto azioni militari con droni sempre più potenti mentre Israele ha colpito in profondità e con omicidi mirati come quello che l’11 giugno ha fatto fuori il comandante di Hezbollah Taleb Sami Abdallah.

Il dato militarmente più interessante è che Hezbollah si è dimostrato in grado di abbattere i droni israeliani, ha lanciato missili contro i jet di Tel Aviv e ha persino compiuto un attacco simbolico contro un’unità dello scudo di difesa aerea israeliano, il famoso Iron Dome. Ma quale è l’obiettivo di Hezbollah? Secondo gli esperti libanesi il movimento intende mettere in mostra una capacità militare avanzata e di deterrenza senza però avviare un conflitto su larga scala, osteggiato dalla società libanese ma forse anche dall’alleato iraniano.

Gli israeliani sul fronte opposto non solo hanno dovuto procedere alla evacuazione di migliaia di persone dalla Galilea del nord ma si sono resi conto che Hezbollah è in grado di utilizzare tecnologie militari avanzate: una cosa cui Israele non era abituato a subire dai suoi nemici nella regione.

Proprio per questo Gallant è andato a Washington: per sondare la disponibilità degli Usa e dei loro alleati fornire quell’ombrello di sicurezza che avevano dato a Israele quando in aprile l’Iran ha attaccato – forse volutamente senza grandi risultati – lo Stato ebraico.

E qui è venuta la posizione del capo di stato maggiore dei comandi riuniti americani, Charles Brown , secondo il quale gli Usa non interverranno a fianco di Israele nel caso di apertura di un fronte di guerra contro Hezbollah, aggiungendo che «si vuole evitare una escalation anche con l’Iran». Se dobbiamo credergli per un volta le pressioni americane potrebbero avere un effetto e questa volta i confini li ha tracciati un generale non un politico, e forse non per caso

Commenta (0 Commenti)
GLI EFFETTI. Una saga legale che sembra chiusa, ma destinata ad avere effetti di lunga durata sulla libertà di stampa e sul diritto ad informare e a essere informati. Una detenzione durata […]
 

Una saga legale che sembra chiusa, ma destinata ad avere effetti di lunga durata sulla libertà di stampa e sul diritto ad informare e a essere informati. Una detenzione durata 5 anni nel carcere di Belmarsh, ma molto più lunga se si considera la sostanziale reclusione nell’ambasciata ecuadoregna di Londra.

La scarcerazione, anche se l’iter giudiziario non è concluso, è avvenuta ieri dopo il raggiungimento di un accordo tra il Dipartimento della giustizia statunitense e Assange. Un accordo a cui ha dato certamente un impulso decisivo il provvedimento dell’High Court di Londra che aveva concesso ad Assange la possibilità di presentare un nuovo appello contro il provvedimento di estradizione negli Usa deciso dalle autorità inglesi. Questo avrebbe significato per l’amministrazione americana un nuovo round nelle aule di giustizia inglesi con l’opinione pubblica sempre più mobilitata a favore di Assange. Non solo. Proprio nell’ultimo anno anche alcuni governi e organismi internazionali si sono attivati. Prima la Relatrice speciale Onu contro la tortura, Alice Jill Edwards, aveva chiesto, nei mesi scorsi, alle autorità inglesi di fermare l’estradizione di Assange e poi il governo australiano, dopo anni di silenzio rispetto a ciò che stava subendo Assange, si è risvegliato e grazie al premier Anthony Albanese ha iniziato a fare pressioni su Usa e Uk per il rilascio del proprio cittadino. Alle 18.36 del 24 giugno, quindi, Assange ha lasciato il carcere di massima sicurezza. Dal punto di vista giuridico, però, il cammino non è concluso anche se vicino alla fine. Queste le nuove tappe fissate dall’High Court of Justice che con l’ordinanza depositata il 25 giugno ha concesso la libertà condizionata ad Assange per consentirgli di recarsi presso il Tribunale distrettuale Usa di Saipan in base all’accordo di patteggiamento concluso il 19 giugno.

La prima tappa di Assange, quindi, saranno le isole Marianne: in tribunale il fondatore di WikiLeaks dovrà dichiararsi colpevole di aver cospirato per ottenere e diffondere informazioni classificate (capo di accusa numero uno) con una proposta di pena da scontare (che, in pratica, coinciderà con il periodo di carcere già subito in attesa dell’estradizione) e una rinuncia degli Usa alla richiesta di estradizione. Poi, forse con qualche altra restrizione, Assange tornerà in Australia. L’accordo di patteggiamento dovrà essere definito entro il 26 ed entro il 28 giugno dovrà essere trasmesso ai giudici inglesi. Poi il caso, anche per Londra, sarà chiuso.

Una conclusione che certo non segna il trionfo della libertà di stampa, ma che almeno porta alla libertà di Julian Assange, gravemente provato dalla lunga detenzione e che allontana per sempre lo spettro di una condanna che sarebbe potuta arrivare fino a 175 anni di carcere.

Ma in ogni caso, il cosiddetto chilling effect sulla libertà di stampa è stato realizzato e continuerà a produrre i suoi effetti. Difficile che un giornalista si avventuri nella divulgazione di notizie sui crimini presumibilmente commessi durante i conflitti dalle grandi potenze perché le gravi pene e il trattamento disumano e degradante subito dal fondatore di WikiLeaks in ragione di non chiarite esigenze di sicurezza nazionale potranno sempre essere chiamate in ballo per bloccare la libertà di stampa. È così necessario un intervento ad ampio raggio degli organismi internazionali a tutela dei diritti umani tenendo conto che i tanti anni di privazione della libertà personale hanno mostrato che anche i Paesi vincolati a convenzioni internazionali a tutela della libertà di espressione non esitano a calpestarla per nascondere alla collettività fatti di sicuro interesse pubblico

 
Commenta (0 Commenti)

GOVERNO E MEDIA . Trentacinque anni fa, dopo l’omicidio del rifugiato sudafricano Jerry Masslo, avvenuto nell’agosto del 1989 a Villa Literno, il 7 ottobre di quell’anno, un vasto schieramento di forze sociali promosse la […]

La costruzione del nemico migrante Alcuni momenti della manifestazione dei lavoratori braccianti ieri a Latina - foto di Andrea Sabbadini

Trentacinque anni fa, dopo l’omicidio del rifugiato sudafricano Jerry Masslo, avvenuto nell’agosto del 1989 a Villa Literno, il 7 ottobre di quell’anno, un vasto schieramento di forze sociali promosse la prima grande manifestazione contro il razzismo. Quella data segna la nascita di un movimento antirazzista per i diritti delle persone di origine straniera e contro ogni forma di discriminazione.

A distanza di 35 anni, la condizione del mondo dell’immigrazione è peggiorata e, nonostante il numero di migranti sia cresciuto (da poche centinaia di migliaia del 1989 a più di 5 milioni oggi), abbiamo visto diminuire la visibilità e il protagonismo di migranti e rifugiati, in parallelo a un aumento della politicità dell’argomento e di un uso sempre più strumentale a fini elettorali.

La scarsa presenza nel dibattito pubblico sull’immigrazione dei protagonisti, insieme all’uso aggressivo di argomenti razzisti, ha portato a una progressiva disumanizzazione delle persone, permettendo a politici e giornalisti spregiudicati di usare argomenti esplicitamente razzisti senza alcuna vergogna. Questa condizione ha autorizzato chiunque a considerare stranieri, migranti, rifugiati, lavoratori e lavoratrici come numeri, la cui vita evidentemente non vale nulla.

Le affermazioni di Renzo Lovato, datore di lavoro di Satnam Singh, sulla responsabilità del lavoratore morto «per mancanza di attenzione», cancellano le circostanze che

Commenta (0 Commenti)

L'APPELLO. La crudeltà a Gaza e in Cisgiordania, ha oltrepassato ogni limite. Crediamo spetti agli ebrei della diaspora e a chiunque abbia a cuore il futuro di Israele e dei palestinesi appoggiare chi in Israele chiede le dimissioni del governo Netanyahu

Gaza, il salvabile è ancora salvabile? Tel Aviv, 22 giugno, manifestazione anti-Netanyahu - Ap

Il livello di violenza e crudeltà in Palestina, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, ha oltrepassato da molto tempo ogni limite. Ci eravamo espressi a gennaio, in occasione del Giorno della Memoria, e lo facciamo di nuovo, a distanza di cinque mesi, perché l’inerzia e l’indifferenza di fronte alla strage della popolazione palestinese decimata e affamata è insopportabile.
Da mesi, la risposta di Israele all’aggressione di Hamas si è trasformata in guerra di sterminio contro il popolo palestinese. L’azione del governo Netanyahu sta infliggendo al Paese un vulnus che peserà per generazioni.

Il nome stesso di Israele, già compromesso, desta ora ostilità e disprezzo crescenti nel mondo, crea isolamento e insicurezza, e fomenta l’antisemitismo.

Crediamo che mai come ora spetti agli ebrei della diaspora e a chiunque abbia a cuore il futuro di Israele e dei palestinesi appoggiare le donne e gli uomini che in Israele, da settimane, si vanno ormai mobilitando non più solo per la liberazione degli ostaggi, ma chiedendo anche le dimissioni del governo Netanyahu. Sosteniamo gli israeliani che vogliono uscire dal tunnel di strage e distruzione in cui è stato trascinato il Paese.

Si cessi il fuoco immediatamente e sia adottato un piano che ponga fine alle sofferenze, ora.

 

Firmatari

Francesco Moshe Bassano, Guido Bassano, David Calef, Paola Canarutto, Giorgio Canarutto, Franca Chizzoli, Beppe Damascelli, Annapaola Formiggini, Paola Fermo, Sabetay Fresko, Bice Fubini, Nicoletta Gandus, Adriana Giussani Kleinefeld, Bella Gubbay, Joan Haim, Cecilia Herskovitz, Francesca Incardona, Stefano Levi Della Torre, Annie Lerner, Gad Lerner, Bruno Montesano, Guido Ortona, Giacomo Ortona, Bice Parodi, Mario Davide Sabbadini, David Terracini, Renata Sarfati, Eva Schwarzwald, Susanna Sinigaglia, Sergio Sinigaglia, Stefania Sinigaglia, Jardena Tedeschi, Mario Tedeschi, Fabrizia Termini, Claudio Treves, Roberto Veneziani, Micael Zeller, Marco Weiss.

Per adesioni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Finora hanno aderito:

Irene Agovino
Maria Alampi
Massimo Arena
Mietta Albertini
Silvana Appiano
Gabriele Aronov
Paola Azzali
Claudio Azzimonti
Renzo Bacci
Alessandro Balducci
Nadia Baher
Danilo Barbieri
Stefano Bartolini
Saverio Benedetti
Daniele Benaroio
Elena Bolgiani
Gianfranco Bottoni
Ugo Brunoni
Andrea Bellelli
Gabriella Belvisi
Marina Benveniste
Anthony Gad Bigio
Laura Bosio
Angela Bresciani
Piero Budinich
Mariarosa Caldara
Giovanna Cardarelli
Alberto Castelli
Alessandro Cassin
Paola Cavallari
Luisa Cetti
Anna Chiarloni
Renata Colorni
Andrea Corbella
Giuliana Cunéaz
Albertina Cuppini
Guido Celentano
Lodovica Danieli
Antonella D’Arma
Maria De Giglio
Stefano de Crescenzo
Anna Grazia Del Monte
Iris Deutsch
Eleonora Dicati
Luciana Di Battista
Dario Di Nepi
Marco Di Castro
Donatella Di Cesare
Peggy Eskenazi
Giusi D’Urso Hermes
Mariannina Failla

Alessandra Elda Falcone
Deanna Farneti Cera
Carlo Fei
Lorenzo Feltrin
Assunta Ferrari
Maria Teresa Finzi
Alberto Fiz
Ida Finzi
Andrea Fioroni
Enrico Franco
Marco Francesconi
Roberta Foresta
Susanna Fresko
Michele Frova
Andrea Fubini
Bianca Maria Gabrielli
Elena Gaetti
Sylvie Galante
David Gentili
Arianna Ghilardotti
Franco Maria Giovannini
Giuseppe Girgenti
Lorenzo Gobbi
Maria Rita Grazioso
Gabriella Guerci
Roberto Gulli
Pietro Ioly Zorattini
Marco Gulli
Elena Gulli,
Paola Greco
Surya Greco
Simonetta Heger
Micol Incardona
Patrizio Innamorati
Helena Janeczek

Paolo Jedlowski
Emilio Jona
Fabrizio La Rosa
Stefania Jahier
Pietro David Jona Lasinio
Giovanni Jona Lasinio
Sergio Lattes
Giovanni Leone
Paola Leoni
Danielle Levy
Nathan Levi
Maurizio Lichtner
Fernanda Lupinacci
Giovanna Majno
Giorgio Marcon
Amelia Massetti
Maria Pia May
Guy Meltzer
Elisabetta Menetti
Nicoletta Meroni
Giorgio Mieli
Sara Modigliani
Guido Moltedo
Veronica Menghi
Chiara Milano
Giorgio Mosci
Piero Morpurgo
Gaddo Morpurgo
Anna Masturzo
Norma Naim
Alessandro Natalini
Nicoletta Nechama Alberio
Piero Nissim
Gianni Oropallo
Angelo Palozzo
Lorenzo Pedol
Andrea Pedol
Ghita Pedol
Francesco Pedol
Mario Pedol
Rosangela Pesenti
Andrea Parrino
Elisabetta Pellarin
Marina Piazza
Tamar Pitch
Rossella Perugi
Roberta Persieri
Marco Pierro
Annamaria Piussi
Stefania Portaccio
Simona Podestà
Stefano Poli
Antonio Prete
Francesca Romana Preziosi
Luciano Pulcrano
Alessandro Ramolini
Linda Ester Ravenna
Luciana Rebecchi
Giuseppe Reitano
Daniela Radaelli
Fabrizio Repetto
Patrizia Rigoni
Marco Riva
Chiara Rossi
Micol Roubini
Dario Davide Sabbadini
Luciana Scandiani
Fausto Sacerdote
Emilio Sacerdoti
Massimiliano Salvini
Roberto Saviano
Claudia Scott
Giovanni Scalabrini
Paul Sears
Margherita Sestieri
Giorgio Seveso
Marc Silver
Ralph Siegel
Benedetta Silj
Scilla Sonnino
Alessandro Soria
Mila Spicola
Ivana Staudacher
Eleonora Stillitani
Larry Stillman
Daniela Scotto di Fasano
Paolo Stucchi
Arturo Tagliacozzo
Roberta Tazzioli
Luciana Tavernini
Davide Terracini
Gianna Terni
Ruben Tolentino
Letizia Tomassone
Simona Toscano
Costantino Trapani
Anna Tumiati
Gianna Urizio
Andrea Urbini
Alida Vitale
Enrica Valabrega
Adriana Valabrega
Sandro Ventura
Elena Vivarelli
Maria Zioni

 

 

Commenta (0 Commenti)
CAPORALATO. L’esperienza fatta in questi anni nel settore dell’edilizia potrebbe venire in soccorso ed essere, con i necessari aggiustamenti, riproposta per il settore agricolo

Alla protesta dei lavoratori sikh a Latina di sabato scorso LaPresse Alla protesta dei lavoratori sikh a Latina di sabato scorso - LaPresse

La drammatica vicenda di Satnam Singh, il bracciante morto qualche giorno fa a Latina, ci ha sbattuto in faccia una semplice verità: nell’epoca dell’intelligenza artificiale vi sono ancora vaste aree dell’economia italiana che generano profitti sfruttando in modo barbaro lavoratrici e lavoratori. Le parole del presidente Mattarella esprimono meglio di altre lo sdegno e la rabbia di molti, ma purtroppo, temo, non di tutti.

Ma lo sdegno non basta e se giustamente è stato da molti invocato il pieno rispetto e applicazione della legge 199/2016 contro il caporalato (che ha inasprito pene e individuato strumenti contro chi beneficia dello sfruttamento), agire esclusivamente la repressione, come è evidente, non è sufficiente. Serve una radicale e al contempo semplice scelta, normativa e di modello economico, volta a prevenire tutto ciò, distinguendo alla radice le imprese serie che rispettano leggi e contratti, e i malfattori.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Satnam Singh «dissanguato», se soccorso si poteva salvare

L’esperienza fatta in questi anni nel settore dell’edilizia potrebbe venire in soccorso ed essere, con i necessari aggiustamenti, riproposta per il settore agricolo.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:
E Lollobrigida scagiona subito «la filiera agricola»

Mi riferisco al Durc di Congruità, introdotto con Decreto 143 dal Ministro del Lavoro, Andrea Orlando, nel 2021 recependo l’accordo tra tutte le associazioni datoriali del settore (Ance, Cooperative, Artigiani, Confapi) e sindacati edili.

In meno di tre anni, il Durc di Congruità (che altro non è che una certificazione – obbligatoria per tutti i lavori edili pubblici indipendentemente dall’importo e per tutti i lavori privati di valore superiore ai 70mila euro – che indica, per i diversi tipi di lavori da fare e per i vari importi, un numero minino, «congruo» appunto, di lavoratori da denunciare) ha certificato (dati Cnce) oltre 40,6 miliardi di euro di lavori e oltre 270mila cantieri, individuando circa duemila imprese irregolari (a fronte di decine di migliaia regolari).

Risultato: l’emersione indotta di 100mila lavoratori prima totalmente o parzialmente sconosciuti a Inps, Inail e fisco (con vantaggi per tutti anche per le ristrette disponibilità finanziarie dello Stato).

LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Padroni, non datori di lavoro

E allora perché, come chiesto anche dalla Cgil proprio il giorno della manifestazione a Latina, sabato scorso, non replicarlo nel settore agricolo? Soprattutto perché non farlo di fronte al fatto che già, in tutte le regioni, vengono periodicamente redatte delle tabelle (dette «ettaro colturali») che, per ogni tipo di coltivazione (grano, fragole, pomodori…), per ogni tipo di terreno (pianeggiante, collinare, montuoso), valutando anche i diversi macchinari, individuano un numero minimo di ore/lavoro per ettaro?

Si, perché questi dati ci sono, simulazioni ed indicatori anche, ma questi sono oggi usati per accedere ad alcuni sgravi (come il gasolio) o per distinguere un agriturismo da un B&B, ma non per certificare la regolarità (o se vogliamo la congruità) di un’impresa agricola.

Basterebbe, con tutti gli accorgimenti del caso e coinvolgendo i sindacati dei lavoratori agricoli, adattare questi indicatori e porre l’obbligo (come è in edilizia) che per vendere i prodotti della terra, così come sono o trasformati, essi devono provenire da imprese agricole in regola con «il Durc di congruità agricolo».

Trattando i venditori (mercati o grandi supermercati che siano) o i trasformatori (Barilla, Ferrero, Cirio, per esempio) come in edilizia si trattano i committenti, ovvero sia imponendo loro di acquistare prodotti agricoli solo da aziende con il Durc di congruità agricolo, pena il sequestro della merce e la loro responsabilità in solido con multe e sanzioni.

Sarebbe una cosa facile ed immediata da fare che spezzerebbe ogni convenienza e che darebbe qualità (e prezzi più giusti) all’intera filiera, con un effetto di legalità e di emersione indiretta potentissimo. E sono certo, come è stato in edilizia, che tante imprese serie non avrebbero nulla da obiettare, anzi avrebbero tutta la convenienza a contrastare così forme di concorrenza sleale che spingono l’intero settore verso il basso.

Ecco una proposta concreta, cari ministri Calderone e Lollobrigida, che potreste fare vostra, coinvolgendo da subito i tanti bravi rappresentanti dei braccianti organizzati da Cgil, Cisl e Uil. Ecco un’iniziativa politica e parlamentare anche per le tante forze politiche in piazza sabato scorso, per dare continuità ad una battaglia in nome dei tanti, troppi sfruttati delle nostre campagne, stranieri e italiani, spesso anche donne. Certo non sarebbe la soluzione a tutti i problemi (a partire da quella trappola che incentiva illegalità e clandestinità – e quindi ricatto – chiamata legge Bossi-Fini) ma sicuramente un segnale nella direzione giusta. Quella di affrontare i problemi per quello che sono, senza voltarsi, per opportunismo o connivenza poco interessa, dall’altra parte.

*L’autore è il segretario generale della Fillea Cgil

 
 
 

 

Commenta (0 Commenti)