I SETTE GRANDI. Se serviva una conferma, l’ultimo G7 l’ha data: il capitalismo è in piena mutazione e la metamorfosi è così violenta da mettere in discussione persino i dogmi assoluti del diritto […]
I membri del G7 in Puglia - Ap
Se serviva una conferma, l’ultimo G7 l’ha data: il capitalismo è in piena mutazione e la metamorfosi è così violenta da mettere in discussione persino i dogmi assoluti del diritto proprietario.
Prendiamo il diritto alla libertà dei commerci. Da Biden a Meloni, i leader del G7 lo menzionano ormai con malcelato fastidio, come fosse un idolo vetusto indegno di venerazione. Gli stessi leader si entusiasmano, al contrario, nell’annunciare nuove misure protezionistiche contro la Cina e contro altri paesi non allineati agli interessi occidentali.
I sette grandi giustificano le restrizioni commerciali lamentando il sostegno della Cina alla Russia guerrafondaia. In realtà, i dati indicano che il protezionismo occidentale è iniziato ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina.
Soprattutto a opera degli Stati Uniti, che tra il 2010 e il 2022 hanno introdotto ben 7.790 nuovi vincoli agli scambi internazionali. Ma anche l’Europa, pur riluttante, ha alzato da tempo barriere contro l’oriente. La tesi cara ai sette grandi, del protezionismo come mera conseguenza della guerra, è dunque smentita dai fatti. Le barriere commerciali, piuttosto, sono state premessa dei conflitti.
I grandi del G7 mettono sotto il tallone anche un altro vecchio dogma proprietario: il valore indiscusso del dollaro come moneta di scambio internazionale.
La Cina, i paesi arabi produttori di energia e in parte anche la Russia, hanno accumulato ingenti quantità di dollari grazie a decenni di esportazioni. Stando alla dottrina, questi paesi avrebbero ora il diritto di utilizzare a piacimento gli ammassi di moneta verde che posseggono, magari anche per acquisire aziende occidentali.
Il problema è che il protezionismo americano ed europeo glielo impedisce: le barriere commerciali e finanziarie bloccano gli acquisti.
La conseguenza è che i proprietari orientali si trovano ora con pile di dollari che non possono utilizzare come vorrebbero. Naturale, quindi, che perdano interesse verso la valuta americana. Se ci pensiamo bene, la causa prima della cosiddetta «de-dollarizzazione» è proprio il protezionismo di marca statunitense.
Ma non è finita qui. Al vertice pugliese i leader del G7 sono arrivati a sfregiare persino il massimo comandamento del capitale: il diritto di proprietà privata garantito a livello internazionale. I sette grandi hanno stabilito che il nuovo stanziamento di 50 miliardi per l’Ucraina sarà coperto da prestiti garantiti da un esproprio di profitti russi.
Si tratta di proventi sui famigerati 300 miliardi depositati in occidente da società russe e congelati dopo l’inizio della guerra. Su questo delicatissimo tema l’occidente capitalistico si è spaccato più volte.
Da Wall Street a Francoforte, i brokers occidentali avvisano che la violazione delle proprietà russe ha attivato un campanello d’allarme tra i capitalisti di mezzo mondo, che temendo ritorsioni anche nei loro confronti potrebbero abbandonare ogni prospettiva d’investimento in occidente. Il rischio è concreto, eppure alla fine si è deciso comunque di varcare la soglia proibita. Anche la proprietà privata subisce così un declassamento: da indiscusso diritto individuale a concessione del sovrano.
Questa colossale mutazione capitalista non sembra incontrare ostacoli di sorta.
L’Ue appare sempre più assuefatta alla violazione degli antichi diritti proprietari. Le stesse destre reazionarie in ascesa la assecondano ormai senza indugio. Né si intravede un demiurgo americano in grado di contrastare la tendenza. Trump vorrebbe fare concessioni ai russi di tipo territoriale ma rimarca l’intenzione di proseguire con le barriere commerciali e finanziarie verso la Cina e verso gli altri paesi non allineati a Washington. Chi pensa che una sua vittoria elettorale possa invertire il corso degli eventi è un illuso.
Una vecchia tesi di Marx suggerisce che il mutamento capitalistico stravolge di continuo la storia umana con una violenza che non risparmia nessuno, talvolta nemmeno gli stessi capitalisti.
La profanazione dei «sacri diritti di proprietà» sancita dal G7 è solo una prova fra le tante. È l’annuncio di una nuova epoca di accumulazione originaria, in cui le dolcezze dei liberi commerci lasciano il posto alla ferocia delle reciproche usurpazioni
Commenta (0 Commenti)L'ANALISI. In Puglia i G7 fingono che rispetto alle conclusioni di Hiroshima non sia cambiato granché. Conviene a tutti, ma soprattutto conviene a Giorgia Meloni
Partecipanti al corteo del Pride di Roma del 2023 foto LaPresse
Cortesie per gli ospiti: location mozzafiato, chef stellati e Italian style. Cortesie per la padrona di casa: sull’Italian style generazione Giorgia – madre e cristiana – chiudiamo un occhio o tutti e due.
L’arretramento su aborto e diritti Lgbtq+ viene alla fine fatto passare dai Grandi riuniti in Puglia con nonchalance nonostante le iniziali resistenze Usa e il plateale «rammarico» di Macron. Facciamo finta che nulla cambi rispetto al testo firmato l’anno scorso a Hiroshima: conviene a tutti, ognuno con i suoi guai domestici. Conviene soprattutto alla premier italiana, che riesce a non ammainare la sua bandiera. Una vecchia storia, sempre uguale a se stessa.
L’11 SETTEMBRE 2023 il sito della presidenza del consiglio comunicava che «in occasione della sua visita nello Stato del Qatar» la premier Giorgia Meloni aveva incontrato l’emiro Tamim Bin Hamad Al Thani per «rinsaldare le eccellenti relazioni bilaterali e il rapporto personale». E che nel corso del colloquio ci si era soffermati «sulle importanti opportunità di collaborazione per le nostre imprese».
Era la stessa Giorgia Meloni che poco più di due anni prima, luglio 2021 – ma certo, non aveva ancora fatto il suo ingresso trionfale a palazzo Chigi – accusava: «Nel governo Draghi c’è una grande contraddizione e ipocrisia sui temi della lotta all’omofobia. Presenterò un atto in parlamento in cui chiederò al governo di fermare ogni forma di accordo commerciale con i Paesi in cui l’omosessualità è un reato, come il Qatar. A me le ipocrisie danno molto fastidio».
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Delle contraddizioni nelle quali inciampano i leader politici quando passano dai banchi dell’opposizione agli scranni del governo sono piene le cronache. Dell’ipocrisia invece l’attuale presidente del consiglio è una recordwoman. Nascondersi dietro il benaltrismo è una specialità sua e dei suoi ministri («e allora i Khmer rossi?…»).
Il governo Draghi nel giugno 2021 aveva aggiunto la sua firma a una dichiarazione di 13 Paesi europei contro la legge ungherese anti-Lgbtq+, quella per vietare la cosiddetta «propaganda omosessuale» nelle scuole, nella pubblicità, nei programmi tv rivolti ai minori. Di qui la reazione di Meloni: e allora il Qatar? E allora Peppa Pig?, aveva prontamente abbracciato la dottrina Orbán il Fratello Mollicone durante la campagna elettorale per le politiche (in una puntata del popolarissimo cartone animato compariva un orsetto polare con due mamme).
INUTILE DIRE CHE il governo Meloni (come Polonia, Romania, Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovacchia) non ha appoggiato il ricorso successivamente presentato dalla Commissione Ue contro la legge ungherese. Una legge che Ursula von der Leyen aveva definito «vergognosa» perché «praticamente l’omosessualità viene posta a livello della pornografia» e «non serve alla protezione dei bambini, è un pretesto per discriminare».
Sulle tematiche Lgbtq+ il governo Meloni si è distinto in più occasioni in Europa e in Italia: alla crociata contro la mamma disegnata in Peppa Pig corrisponde quella contro i figli in carne ossa di coppie omogenitoriali, è guerra alla carriera alias nelle scuole e ai farmaci per gli adolescenti transgender. L’educazione sessuale e affettiva resta tabù.
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Nel maggio scorso, l’Italia è stata tra i paesi europei (non esattamente i più illuminati sul tema) che si sono rifiutati di approvare la dichiarazione sull’avanzamento dei diritti umani per le persone Lgbtiq+ predisposta dalla presidenza di turno belga del Consiglio Ue presentata in occasione della giornata internazionale contro omofobia, transfobia e bifobia. Un figurone. La stessa splendida prova l’Italia la fornisce da Borgo Egnazia alla vigilia del Pride di oggi a Roma. I Fratelli di Giorgia l’altro giorno erano assai preoccupati perché le botte in parlamento rischiavano di danneggiare la fulgida immagine del Paese di fronte ai grandi del mondo. Peccato che i picchiatori della destra in parlamento non facciano altro che rispecchiare l’arretratezza culturale, sociale e politica che esprime la compagine guidata dalla prima donna premier del Paese.
L’ITALIA NON HA FIRMATO la dichiarazione europea sui diritti Lgbtq+ per lo stesso motivo per cui ha deciso di annacquare il documento finale del G7 pugliese rispetto a quello di Hiroshima. Nel testo dello scorso anno compariva (come nell’affossato ddl Zan) la bestia nera di Meloni&co, «l’identità di genere», alla base di quella fantomatica «ideologia gender» inventata dalle destre reazionarie dell’orbe terracqueo per giustificare le pulsioni omotransfobiche e rassicurare la base e l’elettorato più retrivi e nostalgici (non solo vecchi arnesi, come dimostra l’inchiesta di Fanpage). E dal documento del G7 pugliese scompaiono anche la parola «aborto» e il riferimento al ruolo dell’istruzione.
Ovviamente per la premier sono tutte fake news. Nessun arretramento rispetto all’aborto (e i prolife nei consultori?), nessuna esitazione sui diritti Lgbtq. Giorgia Meloni non è mica una Vannacci qualunque… Tanto basta, evidentemente, anche alla presidente uscente della Commissione Ue, che a un passo dal secondo mandato alla guida dell’Unione non sembra preoccupata dalla tendenza orbaniana di quella che resta una sua importante interlocutrice.
Contraddizioni? Ipocrisia? Improvviso allarme per l’avanzata della «teoria gender»? O paura di non agguantare il bis per colpa di Peppa Pig?
Commenta (0 Commenti)Roberto Fico, ex presidente della camera e militante del Movimento 5 Stelle dalle origini, leggendo il voto europeo parte dall’astensione. «È impossibile non notare che è andato a votare meno del 50% degli aventi diritto – afferma – È un problema che in una democrazia forte e sana deve interrogare tutti».
Giorgia Meloni si dice vincitrice. Ha ragione?
Non ne esce vincitrice fino in fondo, si registra un arretramento dei voti. E non possono dirsi vincitori sull’astensione che è un segnale anche al governo. Se non è riuscita a portare la gente al voto significa che non ha stimolato la partecipazione. Anche perché tanti settori della società sono sotto attacco. E c’è una parte del paese che è costantemente attaccata da questo governo: il sud. Basta guardare a Caivano, dove si sono spesi, hanno mandato i ministri ma il M5S, nonostante tutto, è il primo partito.
Cosa intende per attacco al sud?
Penso all’autonomia differenziata, alla cancellazione del reddito di cittadinanza, all’utilizzo strumentale dei Fondi di sviluppo e coesione, alla Zona economica speciale unica per il sud. Questo governo ha un problema molto serio con il Meridione. E noi ci dobbiamo preparare a una battaglia durissima, dobbiamo essere uniti per sconfiggere autonomia differenziata e premierato.
In tutto ciò, il M5S conosce una sconfitta.
È vero, non siamo andati bene. E se non abbiamo preso i voti che pensavamo ci prendiamo la nostra parte di responsabilità. Va detto però che per noi le elezioni europee sono sempre state difficili, siamo sempre rimasti al di sotto delle aspettative. È accaduto nel 2013 e anche nel 2019. Sapevamo della difficoltà di questo voto, sono elezioni che molti sentono lontane, c’è il voto di preferenza e pesa di meno il voto di opinione, che per noi è importante.
Pasquale Tridico è stato eletto proprio al sud con il record assoluto di preferenze per il M5S. Forse dovevate fare qualcosa di più per incontrare il consenso di chi ha perso il reddito di cittadinanza.
Su questi temi ci siamo esposti candidando Tridico, che da presidente dell’Inps è stato colui che ha messo in pratica il reddito. In posti come la provincia di Napoli abbiamo avuto un risultato importante, anche se mi aspettavo di più a livello nazionale. E, ripeto, non pensavo a questo calo dell’affluenza.
Di fronte a questa battuta d’arresto qualcuno parla di ritorno alle origini. Ma si dimentica che molti degli eletti protagonisti di quella stagione sono andati via alla fine della scorsa legislatura insieme a Luigi Di Maio.
Abbiamo subito una scissione molto pesante in un momento particolarmente complicato. A quel punto ci siamo rimboccati le maniche con Giuseppe Conte affinché si potesse andare avanti, continuando a rappresentare le istanze a tutela dei cittadini.
Adesso cosa farete?
Viviamo un momento difficile. Tuttavia, di momenti del genere in questi venti anni di storia, dai primi MeetUp del 2005 a oggi, ne abbiamo conosciuti diversi. Sempre dopo le elezioni europee: ricordiamo di quando Beppe Grillo, nel 2013, prese il Maalox con Renzi al 40%, o quando, nel 2019, ci fermammo al 17% e nei mesi successivi Di Maio si dimise. Ne abbiamo sempre approfittato per rilanciare. Ora lo facciamo con una riflessione profonda che è iniziata martedì nell’assemblea dei parlamentari e che continuerà giorno per giorno, come fanno tutte le forze politiche mature che vivono situazioni del genere.
Come funzionerà il processo di «autoriforma» di cui ha parlato Conte?
Ne stiamo discutendo. Penso sia importante tornare a parlare di futuro e di temi come la guerra, l’inflazione, la difesa dei salari a fronte di aziende che fanno profitti enormi. Ma anche la giustizia ambientale. Sono problemi di una società che non funziona, con una classe media sempre più povera. Si tratta di contraddizioni che vanno aggredite: l’Istat ci dice che più di 5 milioni di italiani si trovano sotto la soglia di povertà. E intanto Meloni ha accettato il patto di stabilità come se niente fosse: avranno un problema enorme già dalla prossima legge di bilancio.
Pensa che bisogna occuparsi di tutto ciò in coalizione con il centrosinistra?
In questo momento credo che debba essere il M5S a imbracciare questi argomenti. Il che non significa che non si debba lavorare nel contesto di un progressismo innovativo.
Vi occuperete del tetto dei due mandati?
Fin quando la regola dei mandati rimane in vigore, io la rispetto. A me interessa parlare di temi che riguardano i cittadini in difficoltà. Altrimenti subiremo gli eventi invece di gestirli. Come potrebbe accadere per l’intelligenza artificiale, che rischia di penalizzare soprattutto i lavoratori
Il nuovo gruppo della Sinistra Europea si è già insediato a Bruxelles. A comporlo i rappresentanti dei partiti che sono riusciti a passare attraverso le varie regole di accesso al parlamento dell’Unione in circa 12 paesi, gli italiani accolti da un caloroso applauso.
Perché tornati dopo cinque anni di assenza dovuta alla sconfitta della Lista per Tsipras nel 2019. E tuttavia non ancora fisicamente in loco, causa la nota efficienza del nostro paese nel dare conferma ufficiale della loro elezione agli eletti. In tutto, nel gruppo Left, i deputati provenienti da 12 paesi, non sempre riconoscibili dal nome dell’organizzazione che rappresentano, come era un tempo quando quasi tutti si chiamavano «comunisti» o, tutt’al più, socialisti di sinistra.
Ora una grande varietà di denominazioni, e però nella confusione politica che domina l’Europa la certezza in questo caso che per tutti si tratta di una buona sinistra, e anche, di una buona provenienza storica. Sono pressappoco tanti quanti ce ne erano la scorsa legislatura ( 39 o 40 ,non si sa ancora), ma, in definitiva, vista la temperie che scuote il mondo, più o meno altrettanti.
Ho preso la penna per scriverne perché nessuno dei nostri grandi quotidiani pur – ufficialmente molto europeisti – ha pensato di dedicare ai risultati della sinistra-sinistra una qualche attenzione. Come sempre, del resto. E però a me sembra che questo voto vada valutato: nel generale disastro che vede il successo quasi ovunque della destra estrema e il calo, in alcuni casi, clamoroso, dell’area socialdemocratica,la sinistra-sinistra (anche io faccio fatica a darle un nome), si caratterizza per un inusuale e in alcuni casi significativo aumento di voti, non si tratta di casi isolati, ma di un andamento generale di tutta l’area. (Un solo vero e drammatico “buco”: in Germania, dove la presenza più importante svanisce per via della spaccatura nella Linke).
Innanzitutto il grande nord, quello della migliore socialdemocrazia della storia postbellica che anche noi abbiamo sempre ammirato e che negli ultimi tempi è stata quasi ovunque sostituita da orrendi governi quasi fascisti che ci hanno lasciato sgomenti. Ma anche nel sud, penso al Portogallo, per esempio, e persino alla Spagna dove si assiste ad una triste crisi del nostro mito più recente, Podemos, che si spezzetta, ma nel complesso non perde voti.
Per non dire del tranquillo e moderato Belgio, di cui da sempre ho inseguito le sorti del suo Partito comunista, che mai ha avuto un parlamentare nel Parlamento della “capitale” europea, Bruxelles, dove “Le Parti des travailleurs “arriva oggi, in città, al 20,8 %, come mi dice commosso il mio ex assistente Paul Emile Dupret, il solo membro del vecchio Pcb che abbia mai conosciuto. «Nel mio quartiere – un popoloso quartiere popolare della capitale belga – mi dice – siamo il primo partito».
Siccome a me da parecchio tempo mi prendono in giro perché ripeto sempre che «sono ottimista», immagino che dopo questo scritto si accingano a portarmi al manicomio. Quado dico che sono ottimista non è perché sottovaluti il rischio delle pessime conseguenze che potranno arrivare per via della massiccia affermazione della destra anche estrema, soprattutto in riferimento alla questione migranti e ai passi indietro che verranno fatti sulla questione ecologica (anche perché si tratta di due temi su cui questa destra troverà facilmente alleati nella destra cosiddetta per bene).
Lo dico però con convinzione perché riscontro nel lavoro concreto sul territorio che i giovanissimi non è vero che sono spoliticizzati, gli importa solo poco di quanto si discute in parlamento, non si riconoscono nei partiti, non gli interessa votare, in generale perché gli sembra – e come dargli torto – che, a livello istituzionale, non ci sia consapevolezza del fatto che siamo ad un cambio epocale e che la trasformazione necessaria ha proporzioni assai profonde.
Il mio ottimismo non riguarda il prossimo tempo che sarà difficilissimo e anche questo voto complessivo lo dimostra. Il mio è un ottimismo nasce da una valutazione dei processi embrionali di lungo periodo, per questi successi in Paesi dai quali non ce li aspettavamo e dall’Italia quando sento che sui 23.000 studenti fuorisede hanno votato per Alleanza Verdi Sinistra in più del 40 %.
E anche, lasciatemelo dire, per via del risultato di Torino, più dell’11%, perché dentro ci vedo anche l’effetto del nostro rinnovato impegno operaio, la mobilitazione alla Fiat. Penso che da questi piccoli successi possano sortire frutti visibili solo dopo una riscoperta, anche personale, sul terreno, dall’apprendere che le cose possono essere cambiate. Questo voto della sinistra-sinistra mi rassicura. Spero di avere ragione.
(P.s. Qui le percentuali del voto della sinistra-sinistra sul totale, i seggi non sono calcolati ancora, e risultano non sicuri e non completi, ma quasi, per esempio manca l’Irlanda e ovviamente l’est Europa che non elegge nessuno: Belgio totale 10,7 5. (Bruxelles 20,8,Vallonia 12,1,Fiandre 8,3); Germania 2,7 %, Francia 9,9; Spagna (Podemos 3,3 -Sumar 4,7;Olanda,4,5;Portogallo Bloque 1,Pcp 1; Grecia 15 %; Svezia 11,1; DK 7 %;Finlandia 17,3; Cipro 21,7)
EUROPEE. Ma dove l’onda nera ha assunto la potenza di uno Tsunami, dove il “dopoguerra” sembra essersi più bruscamente interrotto, è proprio in quello che fu il pilastro portante dell’Unione europea: l’asse franco-tedesco
Manifesti elettorali in Francia - foto Ansa
L’onda nera c’è stata, ma meno omogenea e pervasiva di quanto si potesse attendere. In Scandinavia si è decisamente arrestata e perfino nell’Est europeo non ha dilagato come era ragionevole temere. Anche l’astensione, ovverosia la sfiducia nell’esistenza stessa di una prospettiva politica europea, si è manifestata nei diversi paesi in proporzioni molto differenti. Resta però il fatto che il peso delle destre estreme è aumentato in tutto il continente e non è facile mettere a fuoco i fattori che sottendono questo fenomeno a partire da quel progressivo esaurirsi del “dopoguerra”, delle mentalità, del senso comune e dell’organizzazione sociale ed economica che ne hanno caratterizzato la storia.
Cambia la Scandinavia: le sinistre avanzano
Una democrazia dimezzata in un Paese diviso
Ma dove l’onda nera ha assunto la potenza di uno Tsunami, dove il “dopoguerra” sembra essersi più bruscamente interrotto, è proprio in quello che fu il pilastro portante dell’Unione europea: l’asse franco-tedesco. Il principale garante della pace e della cooperazione in Europa. In Francia e in Germania l’esito elettorale ha scosso le fondamenta dell’assetto politico, seppure diverse sono state le reazioni a Parigi e Berlino.
L’azzardo di un Emmanuel Macron sempre più avventurista che chiede elezioni politiche anticipate in Francia.
Choc Le Pen, Macron scioglie il parlamento
La prudente flemma del Cancelliere Scholz, che non sembra trarre particolari conseguenze politiche dalla rovinosa frana del suo partito e da quella ancor peggiore dei suoi alleati Verdi. Il governo di Spd, Fdp e Grünen non disporrebbe più di una maggioranza nell’elettorato tedesco. La rincorsa a destra sui temi dell’immigrazione e del disarmo, la marcia indietro sulla politica climatica non hanno arginato l’emorragia del centrosinistra che, nel caso dei Grünen, si è tradotta in una implicita condanna per alto tradimento che ha dimezzato l’elettorato verde. Senza per questo aver acquisito voti moderati.
Germania: Afd e Cdu vogliono elezioni subito, Scholz resiste
Sul versante opposto la paura dell’estrema destra si è molto indebolita, nonostante i ripetuti episodi di conclamato razzismo fascista che hanno coinvolto esponenti dell’Afd, mentre il conservatorismo della Cdu-Csu continua a riscuotere un solido consenso. La sua maggioranza, in lieve crescita, si avvale di una moderazione sempre più fittizia accompagnata dalla promessa, di sapore trumpiano, di restaurare la potenza della Germania senza più circoscriverla all’ambito economico, come imponeva l’assetto del “dopoguerra”. Ma è proprio questo assetto che molti tedeschi e una buona percentuale delle giovani generazioni vivono con crescente insofferenza. Tanto più che quella Germania, governata dall’equilibrio tra i partiti popolari di massa, tra grandi imprese e forti sindacati, garante di crescita, benessere e solide prospettive si è trasformata in una realtà sempre più statica, minata da elementi di crisi e avara di promesse per il futuro. Restare un gigante economico, senza una equivalente forza politica è impresa sempre più difficile nel contesto di una globalizzazione disarmonica e conflittuale come quella che segna il tempo presente. E le destre tedesche puntano proprio su questo problema offrendone soluzioni nazionaliste. Ma la forza politica avrebbe potuto e dovuto essere quella comune europea se la tentazione nazionale non avesse avuto la meglio, a varie gradazioni di intensità, anche nella sinistra. E se l’Europa si fosse evoluta per tempo verso una dimensione politica, invece di limitarsi (rendendosi spesso odiosa) alla cura del mercato e alla regolazione finanziaria.
Quanto a presunzione nazionale la Francia non ha niente da invidiare a Berlino, anzi. E anche qui stabilità e continuità del centrismo repubblicano si danno come stagnazione. Per decenni il centrismo si è avvalso dell’appoggio in ultima istanza della sinistra per fermare l’avanzata della destra: prima del ruvidamente fascista Jean Marie, in seguito della più abile e suadente Marine Le Pen. Per poi condurre politiche sempre più reazionarie sull’immigrazione e sul controllo sociale, praticando un arrogante decisionismo statalista e padronale votato allo scontro frontale e prolungato con diverse forze sociali. Questo gioco è finito, come si poteva prevedere, assai malamente. Nel paese l’estrema destra è maggioranza con il suo mito della «Francia autentica» reso ormai digeribile anche per la borghesia benpensante. A sinistra, con un riflesso quasi pavloviano, si invoca il fronte popolare che nessuno sa bene cosa possa essere oggi. Ci sono solo un paio di settimane per chiarirlo.
Dunque è nei paesi forti, nel suo centro di gravità permanente, che l’Unione europea subisce la lesione più grave e profonda. Le conseguenze sono ancora tutte da esaminare. E, quando ci sono in ballo le nazioni, se si chiude un “dopoguerra” facilmente si transita nell’“anteguerra”
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IL NON-VOTO. Italia, abbiamo un problema. E il problema si chiama astensionismo. Da anni, ormai decenni, lo andiamo ripetendo, ma sempre al vento. Perché i partiti, appena scrutinate le schede, preferiscono girarsi […]
Italia, abbiamo un problema. E il problema si chiama astensionismo. Da anni, ormai decenni, lo andiamo ripetendo, ma sempre al vento. Perché i partiti, appena scrutinate le schede, preferiscono girarsi dall’altra parte facendo orecchie da mercante. Ma finché l’astensione è soltanto un piccolo rumore di fondo, un malessere appena percettibile, infilare la testa sotto la sabbia per non vedere il problema può essere un’idea comprensibile, sebbene non ragionevole.
Quando però il problema diventa serio, e i non-votanti superano i votanti (com’è accaduto, per la prima volta in Italia con queste elezioni europee), allora nascondere il malessere sotto il tappeto è solo un modo per aggravare la situazione. La diagnosi è piuttosto chiara: la nostra stanca democrazia italiana si sta ammorbando, passo dopo passo, di un virus che si chiama indifferenza e che colpisce gli organi vitali di un sistema politico democratico.
Nella democrazia dell’indifferenza, dove apatia e protesta si danno manforte, i sintomi della malattia sono ormai evidenti da tempo, ma aver sfondato con le ultime elezioni europee la soglia psicologica – e patologica – del 50% del non-voto ha reso il malessere ancora più acuto. Diamo voce ai numeri: nel giro degli ultimi due decenni, quelli che con poca fantasia alcuni studiosi hanno ribattezzato gli anni della «policrisi», l’Italia ha lasciato per strada oltre 10 milioni di elettori. In media, mezzo milione di potenziali votanti ogni anno ha deciso di restare a casa, di non esercitare il proprio dovere civico elettorale, andando a gonfiare le vele dell’astensione. Nel primo ventennio del nuovo secolo, un elettore su quattro ha ritirato la propria partecipazione dall’arena della democrazia europea, e una tendenza simile si registra tanto alle elezioni politiche quanto in quelle amministrative. Di questo passo, basterà ancora una manciata di elezioni europee per assistere a un processo elettorale a cui prende parte un terzo dell’elettorato, con i restanti elettori chiusi nella loro bolla di indifferenza a lamentarsi del crescente deficit democratico che intacca la legittimità delle istituzioni dell’Ue, per la loro distanza dai bisogni e dai sogni delle «gente comune».
Di fronte a questa diagnosi generale, c’è poi un malessere ancora più profondo e specifico che tocca i ceti sociali più poveri e svantaggiati, i quali – com’è noto a tutti tranne ai fautori dell’autonomia differenziata – risultano sovrarappresentati soprattutto nelle regioni meridionali. Non è un caso infatti che anche queste elezioni europee abbiano certificato quel differenziale partecipativo che, con una media di circa 15 punti percentuali, ha separato le regioni del Centro-nord da quelle del Sud. Così, a una democrazia dimezzata dall’astensione si aggiunge la realtà di un paese che continua a essere spaccato a metà, e dove la storica questione meridionale approfondisce la nuova questione democratica.
Peraltro, come rivelano le prime analisi dei flussi elettorali, il virus dell’astensionismo ha scarse connotazioni partitiche, ma importanti sfumature sociali. Al di là di una perdita un po’ più consistente (e ampiamente prevedibile) del M5s verso l’area del non-voto soprattutto nelle regioni del Meridione, tutti gli altri partiti hanno perso all’incirca un quinto dei consensi ottenuti alle elezioni politiche del 2022 a vantaggio dell’astensione. Parliamo quindi di un fenomeno trasversale, che colpisce tutte le formazioni politiche senza particolari distinzioni ideologiche e che, oltre a questi nuovi ingressi, ha visto consolidarsi al proprio interno un’area di astensionismo ormai cronico, pari al 70% dei non-votanti. In termini assoluti, parliamo di un blocco elettorale multiforme di circa 15 milioni di elettori che non solo mina le fondamenta della rappresentanza democratica, ma finisce anche per darne una pericolosa torsione classista. Infatti, dentro il bacino del non-voto troviamo, in quasi due casi su tre, rappresentanti dei ceti subordinati, molti disoccupati o piccoli artigiani o commercianti in difficoltà rispetto alle grandi trasformazioni del capitalismo globale-digitale.
Insomma, se questa è la diagnosi confermata anche dall’ultimo voto europeo, bisognerebbe passare rapidamente a riflettere sulle possibili cure e poi agire di conseguenza e con coerenza. La strategia dei partiti è nota: basta nascondere il problema per risolverlo, sperando passi in fretta ‘a nuttata elettorale. Ma fino a quando potrà reggere una democrazia senza popolo?
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