MEDIO ORIENTE. Proseguire la guerra contro Hamas a Gaza e sul fronte nord contro Hezbollah, è la polizza di assicurazione sulla vita politica del premier israeliano. Garanti e complici gli Usa
Quando uccidi il negoziatore vuol dire che del negoziato non ti importa nulla. E pure del cessate il fuoco a Gaza. La scelta di Tel Aviv è quella di una guerra infinita ai palestinesi e allargata a tutto il Medio Oriente, rappresaglie comprese (se resteranno rappresaglie). È questo il messaggio brutale che Israele e Netanyahu hanno consapevolmente inviato alla comunità internazionale con l’assassinio del leader di Hamas Ismail Haniyeh, colpito a Teheran, e che aveva condotto in questi mesi le trattative su Gaza a Doha e al Cairo. Poche ore prima gli israeliani avevano ucciso in Libano con un drone Fuad Shukr, considerato uno dei vertici di Hezbollah, il movimento sciita capeggiato da Nasrallah.
Queste due operazioni contro massimi esponenti dell’«asse della resistenza» sono dirette contro l’Iran considerato lo sponsor più importante dei movimenti anti-israeliani. L’aria che tira dalle parti del governo dello Stato ebraico è quella di puntare a una resa dei conti con i suoi nemici e avversari. Il clima generale dopo l’assassinio di Haniyeh sembra quasi evocare il colpo di pistola che nel 1914 a Sarajevo fece fuori l’arciduca Francesco Ferdinando, erede del trono austriaco, e noi europei, inesistenti e muti, appaiamo come i sonnambuli, alla vigilia della grande guerra, descritti nel libro di Christopher Clark.
Dentro Hamas, Haniyeh era il referente politico all’estero, soprattutto in Qatar e tra le petro-monarchie sunnite del Golfo e rappresentava lo schieramento più favorevole al negoziato del movimento islamico palestinese. Yahya Sinwar, l’altro capo nel mirino di Israele, è espressione soprattutto dell’ala militare e del fronte interno. Anche se applicare categorie politiche tradizionali in questi casi può apparire arbitrario, Haniyeh era l’”uomo ragno” che tesseva la tela diplomatica. Insomma hanno ucciso l’uomo del negoziato.
La stessa stampa israeliana parla di una guerra regionale imminente: mastavolta il conflitto potrebbe avere conseguenze ancora più ampie.
Le reazioni adirate all’assassinio di Haniyeh di Russia e Cina – oltre che della Turchia di cui fu ospite – dicono che questi alleati di Teheran si sentono direttamente chiamati in causa. Soprattutto Pechino, primo partner economico di Teheran, che prima ha mediato un accordo tra l’Iran e l’Arabia saudita e poi, di recente, anche un’intesa tra le fazioni palestinesi per il futuro di Gaza. Quanto alla Turchia di Erdogan, in rotta di aperta collisione con Israele, non si può certo ignorare che Ankara – sulla via di riallacciare le relazioni con la Siria di Assad – è membro delle Nato dal 1953 e rappresenta il maggiore esercito dell’Alleanza sul fianco sud-orientale del Mediterraneo: tra pochi giorni ci sarà il vertice generale della Nato a Washington e non sarà certo una passerella visto che sul tavolo ci sono conflitti come l’Ucraina, Gaza e ora nel più vasto Medio Oriente.
Ma ovviamente i più coinvolti di tutti sono gli Stati uniti che non si capisce da chi siano governati e quale sia il senso delle loro azioni, soprattutto in Medio Oriente. Verrebbe da dire che dopo il discorso di Netanyahu al Congresso che il premier israeliano, ricercato dalla procura della Corte penale internazionale, abbia preso la guida anche a Washington. In realtà sta approfittando della voragine che si è aperta da qui a novembre con il ritiro dalla campagna elettorale di Biden per dare libero sfogo alla deriva bellica e omicida dello stato israeliano che dopo il 7 di ottobre ha trovato una sponda negli estremismi radicali della regione. Proseguire la guerra contro Hamas a Gaza e sul fronte nord contro Hezbollah, rappresenta una sorta di assicurazione sulla vita politica di Netanyahu e del suo governo. E questa polizza ha come garanti e complici gli Stati uniti.
Non solo Netanyahu sa che da questa amministrazione Biden in via di liquidazione non verranno conseguenze ma che gli Stati uniti saranno in guerra al suo fianco. Non ha motivo di dubitarne visto che in mesi di conflitto a Gaza – dove gli israeliani hanno fatto 40mila morti perlopiù civili – gli Usa gli hanno versato decine di miliardi di dollari di aiuti militari. Anzi, invece di frenarlo, lo hanno applaudito, con poche eccezioni, quando ha evocato nel suo discorso di Washington la guerra all’Iran. Le stesse balbettanti mediazioni americane nella regione sono apparse più che altro delle perdite di tempo. Basti pensare a quello che non ha fatto l’inviato Usa Amos Hochstein in Libano, un ex militare israeliano che ai democratici americani in questi anni è servito più a seminare guai che a risolverli.
Ma il più incredibile è il segretario di stato Usa Blinken. Scomparso da un po’ di tempo dal quadrante mediorientale, dove ha lasciato che fosse la Cia a occuparsene con i brillanti risultati che vediamo, Blinken ha evitato di fare ipotesi sull’impatto che la morte di Haniyeh avrà sugli sforzi per un cessate il fuoco a Gaza e ha dichiarato, testuali parole: «Ho imparato nel corso di molti anni a non fare mai ipotesi sull’impatto che un evento ha avuto su qualcos’altro. Quindi non posso dire cosa significa». Lunare. Questo è il segretario di stato Usa da cui in parte dipendono le sorti dell’umanità, non un passante qualunque. «Vuoto di potere in Medio Oriente», titolava in marzo un articolo di Foreign Affairs. E ora è in questo vuoto che viene inghiottito il destino di milioni di persone.
Commenta (0 Commenti)DENTRO E FUORI. Si torna a parlare della proposta di mandare i magistrati a fare esperienza in carcere: ma quanto ne sappiamo davvero della vita dietro le sbarre?
Mentre la contabilità della morte in carcere arriva a quota sessantuno detenuti, mentre il cosiddetto decreto carcere interviene d’urgenza senza neppure nominare il sovraffollamento e soltanto per complicare le procedure per la concessione dei famosi giorni di liberazione anticipata, si torna anche a discutere della proposta di legge Sciascia-Tortora. Di cosa si tratta è presto detto: il nucleo dell’iniziativa prevede che i magistrati ordinari in tirocinio svolgano un periodo non inferiore a quindici giorni di esperienza formativa in carcere, comprensivo di pernottamento in casa circondariale o di reclusione.
Solo d’acchito il tema può sembrare eccentrico rispetto all’emergenza. A un’analisi più attenta, al contrario, costringe a porsi una domanda essenziale: conosciamo davvero il carcere? Sappiamo come funziona e come possiamo migliorarlo? Lo sanno i giudici?
Il senso della proposta di legge, sviluppata da un’idea che Leonardo Sciascia lanciò sul Corriere della Sera del 7 agosto 1983 – un mese e qualche giorno dopo l’arresto di Enzo Tortora – è quello di aumentare il bagaglio di conoscenza diretta dell’esperienza detentiva da parte dei magistrati.
Siamo chiari: è comprensibile che quasi tutti i settori della magistratura l’abbiano presa male, invocando un malcelato intento punitivo e un senso di sfiducia nei confronti dell’autorità giudiziaria. Quindici giorni, in effetti, sono tanti e la proposta del pernottamento rischia di essere controproducente: vero che il carcere la notte è diverso dal giorno, ma la presenza di un osservatore qualificato e prestigioso – un magistrato in tirocinio non viene ignorato, prima di tutto dall’amministrazione – rischia di modificare la realtà osservata, soprattutto quando quest’ultima è adusa a imbellettarsi quando sente gli occhi addosso.
Tuttavia, la proposta di legge pone sul tavolo una verità necessaria: solo trascorrendo tempo dentro il carcere se ne possono capire i meccanismi, non basta una visita, per quanto bene organizzata. Immergersi per un lasso di tempo ampio nel penitenziario – sono forse sufficienti i tre giorni a cui pensava Sciascia, magari prevedendo una presenza in ore serali – significa comprendere tutto quello che viene prima e dopo i messaggi normativi veicolati dall’ordinamento penitenziario e dai provvedimenti giudiziari. Sono quel prima e quel dopo che costruiscono la vera realtà del carcere: burocrazia meccanica, capovolgimento dell’ordine delle fonti del diritto (una circolare vale più della Costituzione), relazioni tra custodi e custoditi e tra custoditi stessi, isolamento dalla società.
È solo vivendo il carcere che si può imparare a leggerlo, è solo conoscendo questi dispositivi informali, che sono la roccia madre dell’esperienza detentiva, che si può capire e riflettere sulla latente resistenza dell’istituzione totale a ogni intervento dall’esterno, che sia in materia di metri quadri, di ore d’aria o di affettività. La perdurante inattuazione della sentenza della Corte costituzionale in materia di sessualità è un esempio di questa sottrazione al messaggio normativo, di questa lotta tra il riconoscimento dei diritti e la pretesa di autonormazione da parte dell’istituzione carceraria.
A volte, nella rincorsa tra diritti e organizzazione della vita detentiva, sembra di assistere a una gara simile a quella che, in natura, le piante di acacia ingaggiano con le giraffe, ghiotte delle loro foglie.
Gli arbusti hanno imparato a tutelarsi dalla fame degli animali: dapprima la crescita di spine, ma le giraffe hanno sviluppato lingue sottili e dure; poi c’è l’emissione di una sostanza velenosa che, oltre a rendere indigesta la foglia attaccata, avverte le altre piante circostanti, ma le giraffe hanno imparato a mangiare veloci e sopravento. E così via.
Questa lotta, comprensibile in natura, è ingiustificabile nelle realtà sociali, soprattutto quelle più estreme. Una migliore conoscenza della realtà penitenziaria dunque, potrebbe favorire una minor astrattezza cognitiva del magistrato e una riduzione della pretesa di isolamento e separatezza dell’istituzione totale. Una convergenza tra amministrazione, politica e giurisdizione indispensabile a un reale miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti
Commenta (0 Commenti)INFORMAZIONE. La lettera della presidente del Consiglio, debole, furba e inutilmente polemica, tradiva un imbarazzo grande e reale. La risposta dura europea dice che si addensano spesse nubi
Giorgia Meloni durante una trasmissione Rai foto Ansa
Il recente Rapporto sullo Stato di diritto varato in sede europea (vedi il manifesto dello scorso 25 luglio), con i crismi dell’ufficialità, ha riservato all’Italia un capitolo irto di spine. La crepa si è ampliata di ora in ora e non sembra destinata a chiudersi. Dall’Unione si è controreplicato, infatti, alla missiva di Giorgia Meloni: nessuna scelta faziosa o premeditata ha inficiato il Rapporto, frutto del dialogo con fonti variegate e diverse.
La piccata lettera della presidente del Consiglio inviata con furore formalmente dalla Cina alla rinnovata presidente della Commissione di Bruxelles Ursula von der Leyen, aveva un tono supponente e burocratico, rinviando a responsabilità pregresse. Tuttavia, non riusciva a confutare nel merito le critiche sulla sostanza delle questioni, relegandole provocatoriamente a fake news.
Il documento europeo è chiaro. Sotto schiaffo sono finite le politiche istituzionali della destra al governo a partire dal testo sul premierato, dalle sciabolate inferte alla magistratura e per andare proprio all’area delicata dell’informazione.
L’attacco all’indipendenza della Rai, la persistenza del reato della diffamazione con tanto di pena del carcere, il limite imposto alle intercettazioni, soprattutto l’attacco al segreto professionale e le restrizioni del diritto di cronaca dipingono l’Italia come una zona sempre più grigia ormai confinante con l’Ungheria.
Bruxelles boccia Budapest e promuove Varsavia
Del resto, gli omologhi testi prodotti dal Centre for media pluralism and media freedom dell’European University Institute con il Robert Schuman Centre for Advanced Studies, nonché dal consorzio Media Freedom Rapid Response – reso noto ieri – sostanzialmente muovono le stesse gravi critiche.
Insomma, il quadro è a tinte fosche e gli stessi dati forniti dall’osservatorio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni sul primo trimestre del 2024 segnalano una caduta degli ascolti dei telegiornali, a partire dal Tg1 e per finire con Rainews in caduta libera. A dimostrazione che l’eccesso di controllo distoglie il pubblico pur abituato a fruire del servizio pubblico.
Se è vero che la scelta di affidare ad un amministratore delegato di nomina dell’esecutivo la gestione della Rai risale ad una legge del tempo di Matteo Renzi, l’attuale maggioranza nulla ha proposto per cambiare la situazione. Anzi, potrebbe persino avvenire che nelle prossime ore malauguratamente le Camere procedano ad eleggere la parte del consiglio di amministrazione di emanazione parlamentare. Insomma, alla destra navigare nel peccato piace, eccome.
Se vi è un po’ di buona fede, si eviti di reiterare una pratica in odore di incostituzionalità, come hanno sottolineato diversi candidati al cda nei loro ricorsi alla giustizia amministrativa. E si istruisca con urgenza una vera riforma, evitando strafalcioni come l’ipotesi impraticabile (oltre che sbagliata) di privatizzare a pezzi l’azienda pubblica.
Rai, la Lega punta al direttore generale e reclama un tavolo
Così, si receda dall’intenzione ormai conclamata di limitare il diritto di informare ed essere informati, neutralizzando le conseguenze sul lavoro giornalistico dei testi del ministro Nordio. La lista dei rilievi, tra l’altro, è persino sottostimata, essendo messe in soffitta le annose questioni del duopolio radiotelevisivo, della persistenza del conflitto di interessi, della mancanza di una normativa adeguata e moderna sull’editoria. Nell’età dell’intelligenza artificiale le ferite di oggi possono condizionare pesantemente il futuro.
Lasciamo perdere per decenza la replica al sacrosanto rilievo sulle infrazioni della normativa sulla par condicio: presenze e ospitate del governo in piena campagna elettorale sono andate al di là del bene e del male.
La lettera di Giorgia Meloni, debole e inutilmente polemica, tradiva un imbarazzo grande e reale. Un caso di eccesso di furbizia, che rasenta l’ingenuità. E a Bruxelles, dopo il mancato voto per la rielezione di Ursula von der Leyen, le quotazioni della Presidente italiana sono certamente scese. La risposta alla risposta è la prova che nubi si addensano e temporali sono alle viste.
Il sindacato europeo dei giornalisti chiede un’azione della Commissione europea che vada al di là di uno scambio di missive e questo propone pure l’associazione Articolo21. C’è da interrogarsi, però, se non sia matura un’iniziativa politica comune delle forze di opposizione, forti del sostegno di un
impulso tanto significativo e proveniente da voci non certamente schierate. Per di più in un Paese che con questo governo ha svenduto una quota significativa delle telecomunicazioni al fondo Usa Kkr
Commenta (0 Commenti)Le elezioni presidenziali di oggi in Venezuela avranno un enorme peso politico in tutto il continente americano. Lo dimostra la grande pressione internazionale, specialmente sul governo bolivariano e sul suo candidato, Nicolás Maduro.
Tutti i grandi mass media internazionali si sono sbilanciati nel presentare inchieste di enti e organizzazioni più o meno indipendenti (spesso meno che più) che danno per certa la vittoria del candidato dell’opposizione, l’ex diplomatico Edmundo González Urrutia, in rappresentanza di varie organizzazioni riunite nella Plataforma Unitaria. La loro tesi è che una vittoria del Gran Polo Patriótico Simón Bolívar è possibile solo mediante una frode. E in caso di vittoria dell’opposizione paventano una «situazione di violenza», fino a una possibile guerra civile.
L’incertezza dell’esito del voto è reale. Per la prima volta dal 2013 l’opposizione si è presentata con un proprio candidato unitario e ha svolto la sua campagna senza episodi di violenza. Fino a oggi dunque vi è stata una competizione elettorale vera. Dopo 25 anni di ininterrotto “chavismo”, con una sua progressiva burocratizzazione e dopo aver subito pesanti sanzioni internazionali che hanno pesato soprattutto sulla qualità della vita della popolazione, la mobilitazione dell’opposizione ha in qualche modo permeato le basi sociali nelle quali il “chavismo” era egemonico. Quanto, lo si vedrà nell’esito del voto di oggi. Se però Maduro conserva o recupera il suo zoccolo duro dei tempi migliori può vincere, anche se del socialismo di Chavez resta ben poco.
Nonostante le inchieste sbandierate dall’opposizione e dai principali mass media internazionali solo due dei dieci candidati in lizza si sono rifiutati di firmare un accordo che impegnava al rispetto dei risultati del voto di oggi, proposto dallo stesso Maduro. Uno è stato González Urrutia. E non vi è da stupirsi. La vera leader dell’opposizione è María Corina Machado, rampolla di due grandi e ricche famiglie venezuelane, rappresentante della destra più dura che nelle più di due dozzine di elezioni svoltesi durante il governo bolivariano ne ha riconosciuto come «pulita», una sola. Quella vinta dall’opposizione nel 2015. In compenso si è schierata nel 2002 a favore del golpe di Carmona contro Chavez. E, neanche a dirlo, a favore dell’ “autoproclamato” (dagli Usa) presidente Juan Guaidó e di pesanti sanzioni contro il governo del Venezuela.
Indubbiamente anche per il presidente Maduro, che si è lanciato in una battente campagna elettorale e che è soggetto a sanzioni degli Usa che di fatto lo rendono un ricercato, sarà difficile accettare una sconfitta. Tanta è però la propaganda internazionale contro di lui e un suo paventato rifiuto di accettare il verdetto delle urne che persino uno sperimentato “animale politico” come Lula è intervenuto per ammonirlo: «Se perdi te ne devi andare» e preparare una riscossa dall’opposizione, ha reso pubblico il presidente brasiliano, che si sente sempre più accerchiato dalla destra continentale.
Seicento osservatori internazionali, tra i quali quelli del Centro Carter e un gruppo di esperti dell’Onu, sono incaricati di verificare il processo elettorale. Mancano è vero quelli dell’Ue, rifiutati dal governo bolivariano, ma vi è da sperare che siano sufficienti per evitare velenose e pericolose polemiche e contestazioni violente post voto. Quelle che i grandi mass media indicano come il “vero pericolo” della votazione di oggi.
Vi è invece da sperare in uno svolgimento democratico nel quale le forze sconfitte accettino il risultato, come ha raccomandato il presidente colombiano Gustavo Petro. L’anno prossimo vi saranno elezioni importanti, nelle quali verranno eletti sia il Parlamento che sindaci, governatori e in generale tutte le maggiori istituzioni. Un campo elettorale politico nel quale il perdente di oggi avrà spazio per recuperare.
Dicevamo dell’enorme peso politico delle elezioni venezuelane negli equilibri geopolitici, soprattutto dell’America latina, se vincerà l’opposizione che presenta un programma liberista di privatizzazioni selvagge. Buona parte delle conseguenze dipenderà dalla reazione degli Stati uniti, sempre più impegnati a riallineare il “cortile di casa” di fronte a una preoccupante penetrazione della Cina ( in minor grado della Russia).
Il Pentagono si è già schierato. La generalessa Laura Richardson, responsabile del Comando sud Usa, ha proposto un <> per contenere Pechino nel subcontinente latinoamericano. E il primo intervento preventivato è proprio a favore di una “ricostruzione” del Venezuela in caso di vittoria di Corina Machado. Quale sarà la reazione della Casa bianca rappresenterà uno dei banchi di prova della candidata (in pectore fino ad agosto) democratica Kamala Harris.
Per Cuba la vittoria dell’opposizione venezuelana aggiunta al possibile, e forse probabile, ritorno di Trump alla Casa bianca rappresenta uno scenario da incubo. Ben poche alternative resterebbero al governo del presidente Díaz-Canel se non stringere ulteriormente le relazioni con la Russia. Ben sapendo che il presidente Putin non è interessato a sostenere un’isola socialista quanto ad acquisire una posizione geostrategica vicino agli Usa
ELETTORALE AMERICANA. Il nodo centrale della candidatura democratica alla presidenza: non avere compreso i danni che l’atteggiamento di Biden su Gaza faceva alla credibilità internazionale statunitense
Partecipanti applaudono durante il discorso della vicepresidente Kamala Harris a Houston, Texas - foto Getty Images
La candidatura di Kamala Harris ha galvanizzato l’establishement democratico, che la scorsa settimana era in preda allo sconforto. L’impopolarità di Biden, di cui il presidente in carica sembrava non rendersi conto, il fallito attentato a Donald Trump, e la scelta, da parte di quest’ultimo, di J.D. Vance come candidato alla vice-presidenza, avevano creato per qualche giorno l’impressione che la partita delle elezioni fosse chiusa. Che il vantaggio nei sondaggi dell’ex presidente repubblicano fosse ormai diventato incolmabile. Buona parte dei commenti guardavano già al dopo elezioni, e ai pericoli che una nuova presidenza Trump prospetta per gli Stati Uniti.
La consapevolezza che la situazione per i democratici fosse disperata ha spinto alcune figure di spicco del partito a intensificare la pressione sul presidente uscente. La minaccia di una presa di posizione da parte dei vertici democratici – si diceva che la stessa Nancy Pelosi fosse sul punto di chiedere a Biden di farsi da parte – ha sboccato la situazione, conducendo all’endorsement di Kamala Harris come candidata “istituzionale” in grado di raccogliere l’eredità di quattro anni di governo che hanno restituito vigore all’economia, e di riequilibrare scelte di politica estera – in primo luogo sulla Palestina – che avevano alienato una parte dell’elettorato democratico.
Sui temi internazionali c’è stato, già dalle prime ore, un segnale interessante. La scelta di Harris di prendere le distanze, sia pure in modo cauto e sfumato, dall’atteggiamento di Biden nei confronti del governo Israeliano, sottolineata dall’assenza sia del presidente sia della vice quando Netanyahu ha tenuto il suo contestato intervento al Congresso. Questo gesto di discontinuità ha restituito vigore a una campagna che deve recuperare consenso tra gli elettori più sensibili al destino dei palestinesi.
Ciò nonostante, sarebbe un errore parlare di un cambio di direzione nella politica statunitense su Gaza. Nel suo discorso, Harris non è andata oltre l’espressione di una preoccupazione per le sorti dei civili, e non ha detto nulla su ciò che conta davvero: il sostegno incondizionato a Netanyahu. Su questo tema, la responsabilità dell’attuale amministrazione statunitense, nella quale Harris ha avuto, almeno sul piano formale, un ruolo di primo piano, rimane il nodo da sciogliere. Parole, per quanto sincere, di rammarico per le vittime della guerra non sono sufficienti.
Questo ci conduce al problema centrale della candidatura democratica alla presidenza. Non essere stati in grado di comprendere i danni che l’atteggiamento di Biden su Gaza stava facendo alla credibilità degli Stati Uniti come paese che dovrebbe difendere un ordine globale basato sulla tutela del diritto internazionale e dei diritti umani ha messo in dubbio le credenziali dei democratici come partito di riferimento per i progressisti sul piano internazionale. Sotto questo profilo, ben più credibili sono state certe forze della sinistra europea (in Spagna, in Francia e in Irlanda) che tuttavia non hanno la stessa capacità di proiezione globale.
C’è poi una questione di fondo, quasi assente dal dibattito pubblico, se si escludono alcune voci della sinistra statunitense. Al di là delle apparenze, Kamala Harris ha qualcosa in comune con J.D. Vance. Si tratta, in entrambi i casi, di candidati che devono la propria forza a un’investitura dall’alto, che non è passata attraverso un reale processo politico all’interno dei due principali partiti. Da un lato c’è l’erede legittima che viene chiamata a sostituire in corsa un leader che non è più in grado di svolgere il proprio ruolo. Dall’altro c’è un erede presuntivo che dovrà fare i conti con un autocrate cui potrebbe venire a noia anche prima del previsto.
Comunque vadano le elezioni, dunque, e anche se Kamala Harris dovesse prevalere – cosa niente affatto scontata, come ha argomentato ieri Fabrizio Tonello – i progressisti dovrebbero riflettere con attenzione su una crisi di legittimità le cui cause sono remote e profonde. Le tendenze autocratiche e oligarchiche del sistema politico statunitense, che molto hanno a che fare con il peso eccessivo che il denaro ha nel processo democratico, sono ben evidenti in questa elezione, e non sarebbero certo neutralizzate da una vittoria di Harris. Se la scelta si riduce al pubblico ministero e al pregiudicato, anche se gli elettori scegliessero il primo, c’è poco da stare allegri
Commenta (0 Commenti)PREMIERATO E CRISI FRANCESE. . Il consenso introvabile nella società non può essere surrogato da un potere “assoluto”, sulla carta, ma impotente nella prassi. E riguarda anche il Nfp
Fino a poco tempo fa, non erano pochi in Italia gli estimatori del modello “semi” (in realtà, “iper”) presidenzialistico francese. Oggi sembrano piuttosto silenziosi e imbarazzati. Ma la credenza che la “stabilità” dei governi debba essere affidata alla verticalizzazione del comando è ancora dura a morire, come dimostra l’idea (molto abborracciata, anche tecnicamente) dell’elezione diretta del premier.
Proprio la Francia ci sta dando la dimostrazione plastica dei guasti che si producono quando si pensa di sostituire alla fatica della mediazione e della rappresentanza politica, le scorciatoie di assetti istituzionali e di congegni elettorali che, alla lunga, producono una radicale delegittimazione della stessa democrazia. Il consenso introvabile nella società non può essere surrogato da un potere “assoluto”, sulla carta, ma impotente nella prassi. La parabola di Macron, da questo punto di vista, è davvero emblematica: salito sugli scudi come espressione di un riformismo tecnocratico (ma pur sempre solo con il 25% dei voti al primo turno delle presidenziali) si è trovato ben presto di fronte una società che ribolle, che nutre rancori e risentimenti, riottosa ai dettami della buona creanza riformista.
Agendo da apprendista stregone, Macron ha finito per alimentare l’ondata della destra (e legittimarne le posizioni, come sulle questioni dell’immigrazione): le sue recenti mosse nascevano, ancora una volta, dalla sua pretesa di proporsi come l’unico argine democratico alla destra. Ma il gioco stavolta non gli è riuscito: le “mosse” del Nuovo Fronte Popolare (Nfp) si sono rivelate un capolavoro di tattica elettorale, che ha scompaginato i piani del Presidente.
Le elezioni francesi come faro per le forze progressiste in Europa
L’esito finale, nel rapporto tra voti e seggi, vede una sovra-rappresentazione dell’area centrista (con il 22,8% dei voti, il 30,2% dei seggi) e della sinistra (29,9% i voti, 33,8% i seggi) e una sotto-rappresentazione del RN (33,5% dei voti contro il 24,8 dei seggi). Ma si è creata una situazione di stallo, in cui anche un eventuale governo di una delle tre minoranze è esposto alla possibile “mozione di censura” delle altre due. In definitiva, la strategie adottate (dapprima l’’accordo elettorale dentro la sinistra, e poi l’accordo di non-belligeranza con il centro) hanno quanto meno frenato i potenziali effetti distorsivi del sistema maggioritario: ma non hanno risolto il puzzle della possibili maggioranze di governo.
E qui entra in gioco non solo l’assetto istituzionale francese (che sta rivelando tutta la sua rigidità e la sua impotenza), ma anche i guasti che tutto ciò ha prodotto nella stessa cultura politica della sinistra francese. La recente intervista di Mélenchon ad un giornale italiano appare davvero sintomatica: in breve, il succo è che a Mélenchon interessa soprattutto la sfida delle prossime elezioni presidenziali (con forti accenti personalistici, sostenendo che la partita sarà tra lui e Marine Le Pen: come possa esserne così sicuro lascia molti dubbi) .
La posta in gioco immediata, un governo in coabitazione con Macron, sembra di fatto molto poco appetibile (e anche di difficile gestione: si pensi solo alla politica estera). Come ha scritto il politologo francese F. Savicki, anche la sinistra, “come gli altri partiti, è “prigioniera della centralità delle elezioni presidenziali”. E’ questo che “impedisce ai partiti di sfruttare al meglio, come in altre democrazie parlamentari, il gioco del compromesso che passa attraverso la negoziazione di un contratto di governo”.
Se è comprensibile, politicamente, che il NFP rivendichi l’incarico oggi di formare un governo, è frutto però di una deformazione “maggioritaristica” (the winner takes all), che evidentemente alligna anche a sinistra, l’idea che si possa e si debba andare al governo solo ed esclusivamente per applicare al 100% il proprio programma di governo. Un’affermazione che suona velleitaria e propagandistica: risulta più credibile Macron quando ricorda che nessuno ha propriamente vinto le elezioni. E colpisce, almeno stando alle cronache, l’assenza di una qualche iniziativa che faccia emergere le possibili divisioni del campo macroniano: che così potrà avere buon gioco, come già accaduto con la rielezione della Presidente dell’Assemblea legislativa, nel fare blocco con la pattuglia dei Repubblicani e presentarsi come il segmento più forte dell’emiciclo.
Pesa inoltre, nelle posizioni di Mèlenchon, un’antica tradizione statalista della sinistra: l’idea che, per poter cambiare veramente le cose, bisogna avere il pieno controllo delle leve del potere statale (e quindi, conquistare l’Eliseo: tutto il resto, qui e ora, è solo tattica in vista di questo obiettivo; anzi, forse è meglio evitare compromessi pericolosi). Un’idea perfettamente funzionale all’assetto “verticale” del modello istituzionale francese.
Vedremo gli sviluppi: se è essenziale che il Nfp non si divida (e sarebbe suicida farlo: tutti ne uscirebbero indeboliti), è un errore pensare che restare “con le mani libere”, non riuscire a dare uno sbocco di governo, anche parziale, al buon risultato che il Nfp ha ottenuto, possa essere la premessa per un suo futuro rafforzamento; anzi, è probabile che, dopo la forte mobilitazione sociale con cui è stata vissuta la campagna elettorale, ci possa essere un contraccolpo e possano subentrare elementi di sfiducia e di delusione, l’idea che “tanto, nulla cambia”. Speriamo che non accada
Commenta (0 Commenti)