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LA SCOMMESSA DEM. In una campagna elettorale giocata molto, e spesso anche in modo scomposto, in chiave interna più che europea, Schlein ha avuto il merito di puntare sui temi delle disuguaglianze, della giustizia sociale, dei diritti, dal salario alla sanità all’immigrazione

Una domanda di sinistra che aspetta risposte

 

Il primo vero test della sua leadership, il più atteso anche dai rivali interni e esterni, non solo è stato un successo per Schlein, ma è andato anche oltre le aspettative. E la segretaria dem giustamente sottolinea che solo Pd e Avs crescono in voti assoluti rispetto alle politiche.

Un dato che la autorizza a guardare ai prossimi mesi e anni con ottimismo, ma che lascia sul tappeto tutte le incognite rispetto al rinnovamento promesso e al percorso per la costruzione del mai veramente nato campo largo.

A questo successo tutt’altro che scontato Schlein è arrivata al termine di un cammino accidentato, tra mille insidie, cambi di rotta e qualche scivolone. Ha scommesso su sé stessa candidandosi in prima persona per un incarico in Europa che sapeva non avrebbe mai ricoperto, e ha provato persino a inserire il suo nome nel simbolo ponendosi al centro di una costellazione multitasking di candidature civiche capaci di attrarre consensi in uno spettro più ampio possibile, ma utili anche a rianimare lo spirito delle primarie in contrasto con l’immagine di un irriformabile apparato di correnti l’una contro l’altra armate. Ma con le stesse correnti e con i potentati locali la leader è dovuta poi scendere a patti.

Allo stesso tempo è vero anche che la segretaria aveva chiesto da subito ai “big” del partito che non fanno parte della maggioranza dem di mettersi in gioco correndo per Strasburgo in modo da non rischiare di restare sola con il cerino in mano in caso di risultato non brillante. Quegli stessi “big”, da Bonaccini a Nardella a Decaro, hanno contribuito in modo massiccio al raggiungimento del 24%. Pensare che a questo punto la vittoria vada attribuita proprio ai capibastone e ai “caciccati”, dei quali Schlein è dunque destinata a rimanere prigioniera, sarebbe fuorviante. Esercitare la leadership non significa assumere una postura leaderistica da donna sola al comando, rinnovamento non è sinonimo di rottamazione.

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Meloni resta in piedi in casa ma perde lo scettro europeo

La segretaria con questo Pd deve fare i conti ma, passato il giro di boa in scioltezza, ha l’occasione per portare avanti con più decisione la sua linea senza ascoltare l’eterna quanto fatua sirena del “si vince al centro” e il mantra del “riformismo”. Il flop delle liste centriste di Renzi e Calenda e il successo di Avs dimostrano che c’è una domanda di sinistra che aspetta solo risposte.

In una campagna elettorale giocata molto, e spesso anche in modo scomposto, in chiave interna più che europea, Schlein ha avuto il merito di puntare sui temi delle disuguaglianze, della giustizia sociale, dei diritti, dal salario alla sanità all’immigrazione. E, punto non marginale, grazie anche alla coincidenza delle amministrative, di battere palmo a palmo il famoso territorio. Salutari, probabilmente, anche questi quasi due anni di opposizione a una destra mai così destra, dopo una lunga epoca (a parte un paio di parentesi) di larghe intese e governi più o meno tecnici in nome delle compatibilità economico-finanziare, della responsabilità e del «ce lo chiede l’Europa». Insomma: del governo a tutti i costi.

All’affermazione del Pd ha certamente contribuito anche la bi-polarizzazione della contesa elettorale perseguita da Giorgia Meloni (singolare ma significativo il fatto che, quasi a tirare la volata all’avversaria, la premier nell’ultimo scorcio di campagna abbia scelto come bestia nera Vincenzo De Luca, figura ingombrante per la stessa Schlein).

La spinta bipolarista semina però mine in quel campo largo che dovrebbe diventare terreno fertile dell’alternativa possibile. Il crollo del M5S, più che persuadere Giuseppe Conte a ammainare la bandiera a lui cara della contesa sulla leadership del campo progressista, potrebbe al contrario convincerlo a tentare una nuova sterzata, anche se i margini di manovra per alleanze à la carte sembrano ormai preclusi.

Ma al leader post-grillino non è bastato sventolare il vessillo della pace per garantirsi un posto al sole. In perenne ricerca di identità e altalenanti in quanto a collocazione e ancor prima a visione, i 5 Stelle dovranno decidere se stabilirsi nel centrosinistra (o più auspicabilmente sinistracentro), un campo il cui elettorato chiede da sempre unità e rifugge le contese personalistiche, o se tentare di risalire la china surfando alla ricerca di origini ormai offuscate. Una destra c’è, e ancora forte. Un’alternativa – senza tentennamenti, opportunismi e ambiguità – non è impossibile

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EUROSHOCK. Per quanti sforzi facciano popolari e socialisti a fornire una versione edulcorata della cronaca, la vittoria delle destre estreme è un risultato clamoroso di fronte alla stori

 L’argine saltato

L’Unione europea, con le sue scelte politiche di fondo, ha opposto un argine debolissimo alla destra più nera e questo argine è stato travolto dal voto di ieri. Il simbolo della disfatta è Emmanuel Macron che con la sua resa travestita da rilancio replica la condotta irrazionale che ha avuto sulla guerra in Ucraina.

Il destino del parlamento francese da qui a poche settimane appare segnato e con esso, tristemente, quello del cuore politico del continente. I partiti dell’estrema destra entrano da padroni di casa nell’Unione, una casa che non hanno contribuito a costruire e che hanno sempre provato a demolire.

Agli esiti neri di queste elezioni fa da contraltare la quinta quasi immobile dell’emiciclo di Strasburgo. Dove von der Leyen si proclama vincitrice e prova a raccontarsi come alternativa a quella destra estrema che ha contribuito a gonfiare. Il risultato elettorale è come una scossa potente che sul momento crepa l’edificio senza abbatterlo. L’equilibrio dell’europarlamento in fondo sembra cambiare poco.

La vecchia alleanza tra popolari, liberali e socialisti potrebbe avere i voti sufficienti per riproporsi imperterrita, indifferente al terremoto. Ma non si potrà fare finta di niente. Perché l’Europa unita si regge, ancora, sugli stati che la compongono: la Francia, come la Germania dove i neonazisti raggiungono Scholz, ne è dunque un pilastro sul punto di crollare.

Per quanti sforzi facciano popolari e socialisti a fornire una versione edulcorata della cronaca, la vittoria delle destre estreme è un risultato clamoroso di fronte alla storia. Partiti xenofobi e razzisti, in molti casi apertamente nostalgici e neo fascisti superano di slancio e travolgono formazioni che sono state l’architrave dell’Europa per ottant’anni. È un D-day – celebrato appena l’altro giorno – ma al contrario.

Il risultato italiano, con un’affluenza più bassa di quella media dell’Unione, è solo una conferma per Meloni e non un trionfo. Più chiaro il successo di Schlein che supera le migliori previsioni. Così come fanno abbondantemente Verdi e Sinistra, trainati – vedremo oggi – dai consensi per Ilaria Salis. Una luce, dentro un tunnel nerissimo.

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Siamo ancora lontani da una vera democrazia trans-nazionale, ma il peso delle famiglie politiche continentali è stato molto più presente che in passato
Il fattore astensione: vince chi mobilita i suoi elettori
 

Il dato politico saliente è però un altro: nonostante le polemiche dei mesi scorsi, in ben 22 casi su 29 si presentano coalizioni più o meno ampie che vedono comunque la presenza insieme del Pd e del M5S. Il voto in queste città, e il contemporaneo voto europeo, potrà dirci qualcosa sul «rendimento» di queste alleanze, ma soprattutto sul vero e proprio rebus che riguarda il partito di Conte: quale è la sua vera «consistenza»? Quella fragile del voto locale e regionale o quella robusta che tutti i sondaggi, in questi mesi, hanno continuato stabilmente ad attribuirgli sul piano nazionale? Forse sono vere entrambe; ma avere un’ulteriore conferma di questo divario strutturale, o capire se si riduce o si accentua, assume un notevole rilievo politico.

Ovviamente, saranno importanti le sfide di Firenze e Bari; ma, scorrendo la mappa delle città al voto, si possono trovare molti altri luoghi da tenere sotto speciale osservazione, ossia alcune città conquistate dalla destra cinque o dieci, o anche più anni fa: Perugia, in primo luogo; ma poi anche Forlì e Ferrara; o in Toscana, anche una città operaia come Piombino o storiche roccaforti rosse come Cortona. Nelle ex-regioni rosse, più in generale, si tratta di capire se l’insediamento della destra, avvenuto negli ultimi dieci anni, si sta consolidando o può essere ancora rimesso in discussione.

E POI CI SONO LE EUROPEE: in che misura queste elezioni possono essere viste come un indicatore affidabile dell’andamento dei rapporti di forza tra i partiti? La cautela è d’obbligo: in passato, com’è noto, le europee sono state elezioni segnate da una grande volatilità degli elettori, con risultati poi spesso sconfessati dalle successive elezioni politiche. Può darsi però che il contesto politico, italiano ed europeo, porti oggi ad una maggiore stabilità del voto: sarà un voto che si colloca sulla scia delle elezioni politiche del 2022, o ci sarà una, sia pur parziale, inversione di tendenza?

Sui giornali impazza il tradizionale gioco delle “asticelle”; un solo dato, tuttavia, ci sembra utile ricordare: il 22,7% fu ottenuto nel 2019 da un Pd che aveva dentro sia Renzi che Calenda (oggi dati, insieme, al 5-6%). Ecco un altro parametro di valutazione: un risultato del Pd che graviti intorno almeno al 20% può essere considerato un successo politico per il partito. E sarà anche molto interessante guardare ai voti di preferenza nelle liste del Pd: una delle poche occasioni in cui le varie “anime” e posizioni possono davvero misurare la loro effettiva presa sull’elettorato e anche dentro il partito.
Ma decisivo, come sempre più spesso accade, sarà il livello della partecipazione, su cui incide la percezione della rilevanza politica del voto. Tradizionalmente, le europee hanno registrato sempre il più basso ranking di interesse: sarà ancora così, o queste elezioni ridurranno il divario? Nel 2014 votò il 58,7% e poi alle politiche del 2018 il 72,9%; nel 2019, il 56,1% alle europee e poi il 63,9% alle politiche del 2022. La forbice sembra ridursi, pur nella generale tendenza al ribasso: sarà ancora così?

L’ASTENSIONISMO non è un fenomeno indifferenziato: il livello di partecipazione esprime in primo luogo il grado di mobilitazione dei vari segmenti dell’elettorato, è un fenomeno asimmetrico. E alle europee questo fattore può giocare un ruolo rilevante: la combinazione tra un calo dei votanti (degli altrui votanti) e una buona mobilitazione dei propri elettori può essere il vettore di un significativo successo elettorale e produrre notevoli sbalzi nelle percentuali. Anche qui vedremo chi sarà premiato o punito da queste dinamiche: i dati sulla partecipazione, e la loro geografia, prima ancora dello spoglio dei voti, ci potranno dire molto.

Infine, una notazione di carattere più generale sulla campagna elettorale. Forse per la prima volta queste elezioni europee segnano alcuni elementi di novità: il tema delle «famiglie politiche» che si confrontano in Europa, e delle loro possibili alleanze, è stato molto più presente che in passato, e in ogni paese europeo se ne sta discutendo; così come si è diffusa una certa consapevolezza del ruolo che queste elezioni potranno avere sulla futura governance della Ue, a cominciare dagli equilibri con cui sarà composta la nuova Commissione. Siamo ancor lontani da una vera democrazia trans-nazionale, ma, per il momento, ci possiamo accontentare: andare a votare per fermare Le Pen-Salvini-Orban-Meloni-Abascal, e compagnia bruta, ci sembra già un motivo più che sufficiente a farci prestare attenzione a questa prossima scadenza

 
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Sulle elezioni europee pesano anche i conflitti in corso e le posizioni assunte dalle forze politiche. Il contributo di Fabrizio Coticchia, Università di Genova  

Patrick - stock.adobe.com

In occasione delle elezioni europee del 2024 il tema bellico ha assunto un peso notevole per il voto di molti cittadini di ogni Stato membro, di coloro che decideranno come votare anche valutando le posizioni assunte dai governi, dai partiti politici e dai singoli candidati circa le guerre in corso e le politiche che l’Unione dovrebbe adottare in materia.

In Italia nei programmi elettorali le posizioni dei partiti vanno da coloro che chiedono lo stop immediato all’invio di armi agli Stati in guerra come Ucraina e Israele, a chi si pronuncia per la creazione di un esercito europeo, da chi vuole aumentare le spese militari a chi chiede norme molto più severe per l’export delle stesse.

IL RUOLO DELLE CRISI

Fabrizio Coticchia, professore ordinario di Scienze politiche e internazionali all’Università di Genova da noi interpellato sottolinea che tendenzialmente per le elezioni i temi di politica estera non sono così cruciali come i temi di politica interna ed economici, o come l’immigrazione. Allo stesso tempo, però, “quando ci sono delle crisi rilevanti, come quelle ora in essere e tra loro collegate, anche i fattori internazionali giocano un peso e un ruolo. Lo vediamo anche nella modalità con la quale i partiti stanno elaborando la loro campagna elettorale anche rispetto al tema della

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Fanno campagna elettorale su regalie e condoni, o (indegnamente) sui Cpr in Albania. Vogliamo premiarli i partiti che distraggono lo sguardo dall’orrore planetario che avanza?

 Donetsk, Ucraina - foto Libkos/Ap

Questo è solo un sospiro filosofico. Forse un singhiozzo. Metodologico. Ma chiede ascolto. La domanda è: perché un elettore dovrebbe essere “realista”? Con questo termine, solitamente si intende l’una o l’altra di queste accezioni: 1) Non buttare via il tuo voto; 2) Non si vota per i principi e gli ideali, ma per influire sulla realtà; 3) Le anime belle sono degli irresponsabili; 4) Devi avere una visione strategica, una visione meramente ideale è troppo comoda; 5) Di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno.

La sola prescrizione alla quale la mia risposta è debole, anche ai miei occhi, è la prima. E può darsi sia quella decisiva, capirei gli amici chi la seguisse. Anche se i sondaggi sono predittivi, ma non profetici. E non sta scritto da nessuna parte che non ci siano grandi sommovimenti sotto i nostri piedi e nelle nostre anime: lì i sondaggi non bastano, ci vorrebbero i profeti. Il fatto è che i profeti, per definizione, non li ascolta nessuno in patria. Ed è questa la cosa più stupefacente. Siamo seduti sulle basi americane, in questo paese, siamo certi che in caso di guerra mondiale il campo di battaglia sarebbe qui o appena più in là in Europa, e sentiamo far campagna elettorale sugli spiccioli da regalare in giro e i condoni, oppure (vergognosamente) sui CPR da costruire in Albania. E vogliamo premiarli, i partiti che distraggono lo sguardo dall’orrore planetario che avanza?

Le prescrizioni 2-5 dicono suppergiù la stessa cosa, tutte. Mi è successo tante volte di notare che se c’è una cosa che definisce lo spirito – le idee, l’etica, iddio, il bello, il giusto – è che queste cose ravvivano, risvegliano, incendiano perfino. Lo diceva meglio il prete una volta: «Salirò all’altare di dio – di dio che ravviva la mia giovinezza». Che l’allieta. Sì, le idee hanno un potere felicitante, e si constata spesso che solo il felice è buono. Buono a tutto: perfino a far politica meglio dell’infelice, che diventa timoroso e confuso.

Tante volte mi è accaduto di notarlo: che senza il respiro dell’alto la democrazia muore asfissiata nel conflitto degli interessi economici e nazionali, smette di motivare la giovinezza, e perde la sua essenza, che è di rinnovarsi ogni giorno dalle sue fonti etiche: non c’è speranza di futuro senza respiro delle idee, del giusto, del bello – o magari, semplicemente, senza il rispetto dell’umanità, oggi piuttosto sfigurata in noi, in tutti noi, che facciamo colazione e andiamo a letto senza batter ciglio alla visione della carne umana schizzata a mucchietti sanguinolenti fra le macerie delle scuole bombardate, a un paio d’ore d’aereo da qui. E soprattutto senza amore del vero: e veri non sono solo i fatti, veri sono i principi, se sono solidamente fondati e infinitamente verificabili o rivedibili. Un principio, oggi, è che la guerra è l’equivalente penale internazionale dell’omicidio. Luigi Ferrajoli e il diritto internazionale specificano: la guerra d’aggressione. Ma forse oggi dobbiamo lasciare cadere la restrizione, per come sono fatte ormai le guerre, e per la sopravvenuta incapacità delle elites dirigenti a definire i loro fini, e quindi i loro limiti.

D’altra parte se lasciamo cadere questa restrizione cade la dottrina della guerra giusta. E comunque, vergogna discenda su chi ci ha fatto credere che la logica amico-nemico fosse l’essenza della politica, la sua definizione. Perché questa “politica” non può che essere o inizio o continuazione di guerra. E vergogna ai filosofi che non ce lo ricordano, che la filosofia è nata, invece, dalle menti che nella guerra hanno sì visto il presupposto reale e tragico di tutta l’avventura umana, ma proprio per questo, e per decenza, e per amor di dio, hanno anche visto che la politica è il solo mezzo per spegnerla, la guerra. Il solo, disperato, mezzo per salvare un pezzettino di umanità in noi

 

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A margine della presentazione dell’inchiesta sul lavoro della Fondazione Di Vittorio, la sociologa parla del ruolo dei sindacati in un mondo del lavoro fragile 

 

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Lo stato di salute dei sindacati europei, l’accresciuta fragilità dei lavoratori, il sistema capitalistico da superare per ridurre le disuguaglianze e fermare la devastazione del Pianeta, la democratizzazione delle imprese e la demercificazione del lavoro e, infine, l’uso dello strumento referendario per superare le criticità. Sono i temi trattati nella nostra intervista da Dominique Méda, sociologa dell’Université Paris Dauphine, SNS Ciampi visiting scholar e autrice del saggio Il Manifesto del lavoro

L’intervista ha avuto luogo a margine della presentazione del volume edito da Futura “Inchiesta sul lavoro. Condizioni e aspettative”, risultato della ricerca svolta dalla Fondazione Di Vittorio con un team di più di 30 ricercatori e ricercatrici afferenti a università, enti pubblici e privati ed enti di ricerca e uffici studio di ambito sindacale. Uno workshop organizzato dalla Scuola normale superiore, classe di Scienze politico-sociali, che si è tenuto presso Palazzo Strozzi a Firenze lo scorso 30 maggio.

Méda ha partecipato ai lavori introdotti da Daniele Di Nunzio, responsabile dell’area ricerca della Fondazione Di Vittorio e curatore del volume. È stato invece Guglielmo Meardi della Scuola normale superiore di Firenze a presiedere gli interventi di Marco Betti dell’Università di Teramo, Armanda Cetrulo della Scuola superiore Sant’Anna Pisa, Clelia Li Vigni della Scuola normale superiore di Firenze, Bernardo Marasco, segretario generale della Camera del lavoro di Firenze, Angelo Moro della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, Mario Pianta della Scuola normale superiore di Firenze e Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio.

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