Le fiamme di Aleppo È noto che Donald Trump intende portare a termine il disimpegno delle forze statunitensi dal Nord-Est della Siria: un ritiro che già aveva iniziato, scontrandosi i comandi dell’esercito, nel corso del suo primo mandato presidenziale
Jihadisti in posa davanti alla cittadella di Aleppo – Ap
Nei calcoli di Mosca, doveva essere Kyiv a cadere in tre giorni, non Aleppo. Così i russi hanno cacciato il loro comandante, costretti a guardarsi le spalle, con un occhio alle proprie basi navali di Tartus e Latakia, cuore della proiezione nel Mediterraneo (Cirenaica) e in Africa. Negli ultimi cinque anni il mondo ha coltivato l’illusione che i fronti siriani, lungo i quali si sa dove si comincia ma raramente dove si va a finire, si fossero in qualche modo cristallizzati. Troppo difficile seguirne le dinamiche tutt’altro che lineari.
Dinamiche dove il nemico non è mai uno solo, e logiche fra loro diverse guidano gli interventi di molteplici attori esterni: la Russia e gli Usa, ma anche i paesi del Golfo, l’Iran e la Turchia.
Da più parti si è sottolineato il modo dirompente in cui, partendo dalla roccaforte di Idlib, i miliziani jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), ricondizionati in veste islamo-nazionalista, hanno messo a nudo la debolezza del regime di Assad, raddoppiando l’estensione di territorio su cui esercitano controllo, imboccando l’autostrada M5 verso Hama (dove al momento si trova la linea del fronte), puntando su Homs (la città-martire, cruciale per il controllo della costa) in direzione Damasco (la cui sola idea di conquista ha significati simbolici immensi). Si è scritto dell’indecifrabilità di ciò che accade nella cerchia di potere del regime, e di come le forze armate, costituite da una congerie di milizie demoralizzate, dipendano dal supporto militare esterno.
Per Teheran la sopravvivenza del regime degli Assad, amico sin dalla guerra Iran-Iraq, è strategicamente imprescindibile, a partire dalla connessione territoriale con il Libano. Impegnato nella propria sopravvivenza in casa, nel pieno di un cessate-il-fuoco quantomai instabile, Hezbollah, che proprio in Siria si è distinto come forza militare regionale, ha dovuto dichiarare di non poter inviare truppe. Tutto ciò che è arrivato, finora, sono qualche centinaio di miliziani sciiti dall’Iraq.
Sull’altro versante, il leader di Hts, al-Jolani, è riuscito negli anni a smarcarsi tanto dall’Isis quanto da al-Qaida, per poi accreditarsi con Ankara e portare la Turchia nel cuore delle guerre siriane. È infatti solo dal terzo giorno dell’offensiva di Hts che la coalizione di miliziani prezzolati da Ankara, convergendo su Aleppo, ha aperto un nuovo fronte contro le Syrian Democratic Forces (Sdf) a guida curda. Sviluppatosi all’ombra del primo, questo secondo fronte appare ogni giorno più importante: è qui, infatti, che vediamo i curdi di Aleppo, assediati, incolonnarsi in uscita dalla città. Ed è sempre qui che i curdi hanno dovuto cedere l’enclave di Tal Rifaat, da sempre una spina del fianco per Erdogan. Qui vediamo miliziani jihadisti trascinare le combattenti curde sui camion, esibite come trofei di guerra.
Dietro alle quinte, la partita in questi anni è stata giocata su quanto concedere alla persistente richiesta turca – osteggiata dagli Usa di Obama al tempo dell’intervento a difesa di Kobane – di estendere lungo il proprio confine con la Siria una propria fascia di sicurezza contro le formazioni curde. Occorre ricordare come già nel 1998, la Russia in cui Putin era a capo del servizio segreto negoziò l’espulsione del leader del Pkk Abdullah Ocalan da Damasco e una fascia sul confine di tre miglia dove colpire, previo assenso di Damasco. Il Putin di oggi non ha fatto che riproporre le medesime linee di riconciliazione turco-siriana: con il problema che Erdogan oggi occupa militarmente, anche tramite le predatorie milizie islamiste che foraggia, diverse regioni a ridosso del confine, mentre insiste su una fascia di sicurezza profonda ben 22 miglia. La novità è che dalla scorsa estate Damasco non insiste più sul ritiro immediato delle truppe turche da Jarablus, Azaz, al-Bab e Afrin, ma mostra incline ad accettare un impegno graduale nel futuro. Questo piano, tuttavia, sembrerebbe naufragato proprio attorno alle modalità previste per liberarsi dell’autogoverno curdo a Est dell’Eufrate, nonché delle forze statunitensi qui stazionate: Erdogan si è mostrato scettico circa il fatto che, all’indomani di un’operazione che avrebbe dovuto vedere nientemento che il supporto dell’aviazione turca (con rischio di escalation con l’alleato americano) le truppe di Damasco avrebbero poi ceduto l’effettivo controllo sul Nord.
È noto che Donald Trump intende portare a termine il disimpegno delle forze statunitensi dal Nord-Est della Siria: un ritiro che già aveva iniziato, scontrandosi i comandi dell’esercito, nel corso del suo primo mandato presidenziale. Qui i militari americani affiancano le Sdf nelle azioni anti-Isis. La notizia di ieri, gli scontri fra le Sdf e le forze di Damasco nella regione semidesertica di deir Ezzor è importante perché segna la fine di uno stato di non aggressione fra curdi e regime. La versione dei primi è di essere intervenuti davanti al rinfocolarsi di attività delle milizie dell’Isis, che – galvanizzate dalle avanzate jihadiste – avrebbero colto l’opportunità per cercare di colpire alle spalle. È evidente, tuttavia, che c’è una posta più grande sul tavolo, ed essa riguarda il destino stesso dell’autogoverno guidato dalle forze di difesa curde. Resta da vedere fin dove si spingeranno le offensive: oltre quale linea, chi inizialmente ha gioito per i duri colpi inferti ad Assad, iraniani e russi, inizierà a temere di perdere il controllo in mosaico siriano delicatissimo, incastonato in un Medio Oriente in cui la deterrenza non pare più funzionare per nessuno.
Aleppo, la grande città-mercato della borghesia sunnita che infine si sentì tradita dal regime, venne riconquistata da Damasco dopo tre anni di massacri. Era l’inizio del 2016 e incombeva la prima presidenza Trump. Russia e Iran si affacciavano con un loro successo su mondo più unipolare di quello di oggi, e sancivano come l’opposizione siriana non potesse rappresentare un’alternativa credibile ad Assad. Alla vigilia di un nuovo mandato per Trump, gli equilibri più fragili iniziano a saltare, mentre i fronti di guerre fra loro distanti appaiono più che mai fra loro connessi, e a noi vicini.