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SCENARI. Gli incontri sull’Ucraina e sulla Palestina certificano che la Cina si pone come mediatore globale per avere sia un ruolo da grande potenza, sia quello di “facilitatore” nelle crisi

“Sotto lo stesso cielo”, l’entrata in scena della diplomazia cinese Il ministro dei esteri cinese Wang Yi foto Ap

«La Cina è una storia, il tianxia una teoria»: è la prima frase del libro “Sotto il cielo, tianxia” (Astrolabio Ubaldini, 2024, traduzione di Alessandra Lavagnino) di Zhao Tingyang, un filosofo politico cinese. In questo incipit abbiamo due elementi attualissimi: la Cina come “narrazione”, come “racconto”, quindi qualcosa di mutevole, cangiante e progressivo. Il tianxia come teoria, ovvero il recupero di un concetto attuale basato su un mondo interconnesso e pacifico (“sotto lo stesso cielo”), nel quale la Cina è al centro e non sopra (come lo sono gli Usa nell’ordine globale neo liberale a guida statunitense, per intenderci).

Zhao Tingyang è l’interprete di una teoria antica, diventata di recente retorica ufficiale. Se vogliamo semplificare: l’ordine mondiale nell’idea dell’attuale leadership di Pechino è il “tianxia”, un ordine paritario e pacifico, armonioso, in grado di sciogliere ogni nodo, grazie alla saggezza che scorre sotto il cielo, mediata dalla pacifica Cina.

È una visione, ovviamente, sinocentrica, ma ci pone anche di fronte a una teoria che poi è da ricercare e trovare all’interno della pratica, ovvero l’attuale postura internazionale della Cina. Partiamo da un esempio: la posizione cinese sulla guerra in Ucraina è stata fonte di molte preoccupazioni per Pechino: la decisione di non abbandonare la Russia, anzi di supportarla politicamente ed economicamente, pur dichiarando di non sostenere il suo sforzo bellico, ha notevolmente peggiorato l’immagine della Cina a livello internazionale.

Nel corso di questi due anni, però, proprio il nuovo assetto internazionale ha posto il Pcc di fronte alla necessità di spiegare e di elaborare una strategia internazionale capace di recuperare i cardini della sua politica estera e adattarsi al nuovo scenario. Ne sono emersi diversi documenti: prima il position paper a proposito della guerra in Ucraina (erroneamente considerato un piano di pace dalle nostre parti), poi un documento sulla sicurezza globale, poi uno sulla civiltà globale.

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Da tutto questo è emerso un punto: Pechino ha ribadito la sua postura storica nei confronti del Sud globale, scoperto alle nostre latitudini proprio perché la guerra in Ucraina ha fatto emergere un mondo che noi non vedevamo (e ora che lo vediamo non è che siano molto cambiate le posture occidentali al riguardo) e che invece la Cina ha da sempre nelle sue varie posizioni internazionali modificate nel corso del tempo: sia ai tempi di Mao, in piena guerra fredda, sia durante l’epoca di Deng quando la Cina tendeva a mostrarsi piuttosto sobria nelle relazioni internazionali, sia nell’epoca pre Xi con Hu Jintao: proprio Hu, sottovalutato anche da gran parte della sinologia, aveva elaborato quattro pilastri che ancora oggi possiamo dire siano all’ordine del giorno.

I quattro pilastri erano: gestire il rapporto con le grandi potenze, gestire la propria area (l’Asia), ricordare la fondazione, l’origine, cioè il sud globale, utilizzare il multilateralismo come strumento. Ovviamente con Xi Jinping siamo in un altro mondo: la politica estera cinese mira a creare un ordine internazionale che ruota intorno agli affari, al commercio e non alla forma politica degli attori internazionali. E propone, ovviamente, la Cina al centro del tianxia.

Date queste premesse è emerso nel tempo un approccio tattico della Cina alla questione ucraino piuttosto chiaro, in realtà: supporto politico alla Russia in funzione anti-occidentale, una retorica che ha presa proprio nel Sud globale, composto da paesi memori di colonizzazioni e altre interferenze occidentali; tentativo di non incorrere in sanzioni e di mantenere relazioni seppure al minimo con l’Occidente, cercando di sfruttarne i cortocircuiti (Ungheria, Serbia, eccetera); non improvvisarsi mediatori ben sapendo che una mediazione tra Russia e Ucraina non era mai arrivata a un punto tale da fare pensare a una possibile soluzione mediata della guerra (considerando inoltre il probabile ostruzionismo americano in caso di un protagonismo più marcato della Cina).

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Ora però è innegabile che le cose siano di nuovo fluide: la principale potenza mondiale è attesa da sei mesi di politica estera gestita da un presidente uscente e in grave difficoltà; nonostante i democratici possano competere con Trump per una vittoria, gli Usa sono percepiti al momento come “deboli”; anche l’Europa sente la “fatigue” (di meloniana memoria) di una guerra che sul campo è piantata e non sembra potersi risolvere militarmente.

Ed ecco che arriva l’invito al ministro degli esteri ucraino di recarsi a Pechino. E dalle tre ore di incontro tra Kuleba e Wang Yi, viene fuori una cosa finalmente importante: che Kiev è disposta a coinvolgere la Russia nei negoziati (se “in buona fede” ha specificato Kuleba, ma è già qualcosa). A margine dell’incontro sono arrivate anche le parole di Zelensky che di recente aveva tuonato contro Pechino e che invece nei giorni scorsi ha detto di fidarsi di Xi, delle sue parole sul fatto che la Cina non vende armi alla Russia.

Insieme all’incontro ucraino è arrivata anche “la dichiarazione di Pechino” di 14 fazioni palestinesi: un accordo fragilissimo e probabilmente senza futuro, ma che ha certificato la volontà della Cina di porsi come mediatore globale, rivendicando due cose: un ruolo come grande potenza, pari agli Usa, e un ruolo, si badi bene, da “facilitatore”. Come a dire, noi vi mettiamo intorno a un tavolo, poi però serve il vostro impegno. Noi, come Cina, sembra essere il sottotesto, non obblighiamo nessuno a fare niente. Non può essere considerata certo una politica estera disinteressata, ma quale paese eventualmente si muovo disinteressato? La proposta cinese è questa, che piaccia o non piaccia, che si sia d’accordo o meno: Pechino può essere mediatrice in un mondo che non è più unipolare. Almeno così lo è per la maggioranza dei paesi del mondo

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TRA GAZA E L’ODISSEA. Per avere successo una campagna elettorale americana (e non solo lì) deve contare su un elemento fondamentale, oltre ai soldi: elettori smemorati. Questo vale anche per il discorso del premier […]
I lotofagi  della politica Usa  (e italiana) Il primo ministro Netanyahu con il presidente Biden nello Studio ovale - foto Ap/Susan Walsh

Per avere successo una campagna elettorale americana (e non solo lì) deve contare su un elemento fondamentale, oltre ai soldi: elettori smemorati. Questo vale anche per il discorso del premier israeliano Netanyahu al Congresso che è stato disertato dalla candidata Kamala Harris, attaccato pesantemente da Nancy Pelosi. Il tutto evidentemente per attirare il voto delle minoranze arabe, musulmane e filo-palestinesi. E meno male che è stato accompagnato dalle proteste vibranti davanti (e dentro) a Capitol Hill violentemente represse con centinaia di arresti, con in prima fila i giovani ebrei contro l’occupazione e dalle parole inequivocabili di Bernie Sanders: “Come Sinwar, Netanyahu è un criminale di guerra”.

L’elettore democratico smemorato infatti deve dimenticare che il Congresso e questa amministrazione Biden in primavera – a massacro di Gaza ampiamte in corso – ha approvato un pacchetto di aiuti militari a Israele di oltre 26 miliardi di dollari. Deve dimenticare che gli Usa hanno aumentato quella potenza militare che già aveva visto l’amministrazione Obama stanziare per Tel Aviv 38 miliardi di dollari. Figuriamoci cosa accadrebbe se dovesse esplodere il fronte con il Libano o incendiarsi il Mar Rosso nel mirino degli Houti yemeniti. Questo è ovviamente l’”asse del male” capeggiato dall’Iran cui fa riferimento Netanyahu per il quale Israele e Stati uniti si dettano reciprocamente la linea della politica estera.

Biden che era salito alla Casa Bianca dicendo di volere riaprire i negoziati con Teheran, dopo che Trump aveva cancellato gli accordi del 2015 voluti da Obama, ben poco ha fatto al riguardo. L’elettore smemorato per dare il suo voto alla Harris deve dimenticarsi pure di questo. Ovvero del fatto che gli Stati uniti sono interessati ad alimentare un clima di scontro perenne in Medio Oriente, esattamente come vuole Israele per giustificare l’occupazione e gli insediamenti nei territori palestinesi. Il clima di apartheid non cambia.

Netanyahu che ieri ha incontrato Biden e la Harris e oggi va da Trump forse non se la passerà così male neppure se vincono i democratici. Certo Trump ha garantito a Israele il riconoscimento di Gerusalemme capitale dello stato ebraico, l’occupazione perenne delle alture siriane del Golan in corso dal 1967, e ha forgiato quel patto di Abramo con le monarchie arabe che per altro Biden ha ereditato in pieno. Il premier israeliano preferisce Trump, vorrebbe evitare elezioni fino a novembre per restare in sella, ma non è detto che poi si troverà tanto peggio con i democratici alla Casa Bianca. Chi oserebbe trattare Netanyahu come un ricercato delle corte penale internazionale, che per altro gli Usa non riconoscono? La politica del doppio standard è destinata a continuare sotto ogni amministrazione americana e le dichiarazioni da campagna elettorale lasciano il tempo che trovano. L’elettore è smemorato per definizione.

Anche da noi qui in Italia si pratica una politica dell’oblio. In concomitanza con la visita a Roma del presidente israeliano Herzog dobbiamo dimenticarci l’Italia ha continuato a fornire armi a Israele anche durante la guerra di Gaza, fare finta di niente sul fatto che l’Eni in ottobre, a ostilità cominciate da settimane, avesse accettato da Tel Aviv un appalto di esplorazione sul gas davanti alla Striscia che appartiene ai palestinesi. Non ne avremmo saputo nulla se non ci fosse stata una denuncia di un studio legale americano. Ignorare, come facciamo del resto regolarmente, che con lo stesso Netanyahu questo governo ha firmato nel marzo 2023 un appalto per la cybersecurity che allora spinse il capo della nostra agenzia alle dimissioni. Silenzio.

Dobbiamo dimenticare le dichiarazioni del ministro della Difesa Crosetto a Gerusalemme quando disse che «gli israeliani avvertono sempre i civili prima dei bombardamenti su Hamas». Deve essere sicuramente così che è accaduto anche il 13 luglio a Gaza quando caccia e droni israeliani hanno bombardato Al Mawasi, che l’esercito aveva indicato come unica zona sicura per gli abitanti della Striscia. Una superficie di 6,5 chilometri quadrati dove Israele vorrebbe rinchiudere un milione e 800mila persone che hanno perso tutto. Il risultato è stato un massacro con dozzine e dozzine di civili uccisi. E la strage continua ogni giorno.

Ma gli italiani, almeno secondo il nostro governo, sono i migliori alleati della politica americana bi-partisan in Medio Oriente. Il nostro tasso di oblio è altissimo e chi osa protestare o anche soltanto ricordare la verità viene trattato come un pericoloso sovversivo. Chi non dimentica sono i palestinesi e i nostri interlocutori arabi nella regione – altro che Piano Mattei – utili nello “scambio” migranti-petrolio, comunque perfettamente consci che l’Italia non ha avuto neppure il coraggio di votare per uno Stato palestinese. Vorrebbero che come i marinai di Ulisse mangiassimo il dolce frutto del loto che, guarda caso, si trovava nel mito dell’Odissea sulle coste libiche. Un porto sicuro, vero?

 
 
 
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AUTONOMIA. Qualcuno ha già emanato il verdetto. Il referendum contro l’autonomia differenziata non passerà il vaglio di ammissibilità. Ma la storia dei referendum dovrebbe invitare alla cautela

Referendum, le ragioni dell’ammissibilità Opera di Luciano Fabro

Qualcuno ha già emanato il verdetto. Il referendum contro l’autonomia differenziata non passerà il vaglio di ammissibilità dalla Consulta. Profeti e demagoghi che non dovrebbero parlare dalla “cattedra” (Max Weber).

Con più umiltà, la storia dei referendum dovrebbe invitare alla cautela, inducendo a prendere seriamente in considerazione gli argomenti complessi e i precedenti per nulla univoci. È solo su questa base che si possono formulare giudizi e previsioni che abbiano un più serio fondamento argomentativo.

Sono due le principali obiezioni che vengono formulate. Entrambe – a mia opinione – inconferenti. La prima è quella meccanicamente ripetuta del collegamento con la finanziaria. Ora è vero che la legge Calderoli è stata inserita tra i «disegni di legge collegati» alla manovra finanziaria e che in alcune sentenze la Corte ha esteso l’inammissibilità del referendum alle previsioni che alla legge di bilancio si rapportavano, ma ha sempre tenuto ad evidenziare come questa connessione dovesse operare «al di là della loro qualificazione formale», che è «di per sé non idonea a determinare effetti preclusivi in relazione alla sottoponibilità a referendum» (così la sent. 2 del 1994).

Consapevole la Consulta che altrimenti basterebbe includere un qualunque disegno di legge tra i «collegati» alla finanziaria per impedire il referendum «ampliando eccessivamente l’orbita del divieto di cui all’art. 75, secondo comma della costituzione» (così in modo chiaro nella sent. 6 del 2015). È sulla base di questo nesso sostanziale con la manovra di bilancio che la Corte in passato ha dichiarato l’inammissibilità di richieste referendarie, ma adesso è proprio questa stessa giurisprudenza che dovrebbe garantire l’ammissibilità del quesito sull’autonomia differenziata, stante che ora il collegamento con la legge finanziaria è puramente formale, mentre è esplicitata la dichiarazione di invarianza finanziaria «nell’applicazione della presente legge» (così all’art. 9).

In questo caso, dunque, per usare le parole della Corte, dovrebbe essere evidente che non sussiste il presupposto necessario per dichiarare l’inammissibilità, ovvero «quello stretto collegamento delle disposizioni legislative oggetto dei quesiti referendari con le leggi di bilancio, tale da escludere l’ammissibilità delle richieste referendarie» (ancora sent. 2 del 1994). La legge Calderoli è una normativa di natura meramente procedurale inidonea di per sé a produrre effetti «nell’ambito di operatività» della legge di bilancio; tantomeno appare una legge essenziale per la realizzazione degli equilibri finanziari e di bilancio (vedi sent. 12 del 1995). Dunque, la richiesta di abrogazione per via referendaria è da ritenere ammissibile.

La seconda obiezione sollevata da alcuni per dubitare della ammissibilità è, a mio parere, ancor meno fondata. Si sostiene che la legge Calderoli sarebbe da classificare tra le leggi «a contenuto costituzionalmente necessario» se non addirittura tra quelle «costituzionalmente vincolate».

Ciò che ha determinato in passato le inammissibilità dei relativi quesiti è stato il timore manifestato dalla Corte che l’abrogazione, e la conseguente eliminazione della normativa vigente, determinasse «la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo costituzione» (sent. 35 del 1997), ovvero anche solo che siano in grado di impedire di dare attuazione ad istituti, organi, procedure, principi stabiliti o previsti dalla Costituzione (vedi in tal senso la sent. n. 16 del 1978).

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Anche in questi ultimi casi, però, specifica opportunamente la Consulta, non basta un collegamento formale ad una qualunque disposizione costituzionale, è necessario che da tale abrogazione derivi una concreta lesione di quel minimo di tutela precedentemente concessa (vedi in tal senso le sent. 25 del 1981 e 45 del 2005).

Nessuno di questi casi è riferibile alla legge Calderoli, che è una legge ordinaria di natura procedurale, per nulla necessaria (tantomeno vincolata) per dare attuazione all’articolo 116, III comma della costituzione. Lo testimonia – in termini crudi, ma inequivocabili – il fatto che le intese tra Stato e regioni possono essere approvate dal parlamento ai sensi dell’attuale disposizione costituzionale anche in assenza di una apposita legge (il governo Gentiloni, che ha iniziato il processo, era infatti così orientato), né le intese possono essere vincolate da una legge ordinaria precedente (com’è ora con la legge Calderoli).

È questo un enorme problema che ci indica che la strada per liberarci del “pericolo” dell’autonomia così come concepita dall’attuale maggioranza è lunga e non si esaurirà sino a quando non si riuscirà a modificare ovvero, meglio, a cancellare l’attuale disposizione costituzionale. Ma, al contempo, dovrebbe assicurare l’ammissibilità di una richiesta il cui contenuto non è per nulla «costituzionalmente necessario».

Neppure la tutela minima che sarebbe comunque apprestata dalla legge Calderoli può essere richiamata. Detto in sintesi: la parte relativa all’emarginazione del Parlamento, in caso, risulta realizzare una normativa limitativa delle prerogative parlamentari e costituzionali; la parte dedicata alla «determinazione» dei Lep, non appresta nessuna tutela necessaria per «assicurare» il loro rispetto, tanto più stante la clausola dell’invarianza finanziaria. S’intende che ciò non esclude – con o senza legge Calderoli – che le eventuali intese che non garantissero il rispetto dei principi costituzionali (non solo i Lep ma l’eguaglianza nei diritti dei cittadini e l’unità ed indivisibilità della Repubblica) sarebbero comunque incostituzionali, questione su cui la Corte in sede di ammissibilità non si pronuncia. Ciò che solo le viene chiesto è di verificare se il corpo elettorale può abrogare una legge ritenuta alle origini di un regresso di civiltà.

Può darsi che le considerazioni qui svolte possano venir smentite dalla Consulta a cui spetta l’ultima parola, e la storia dei referendum ci ha fornito sorprese in passato. Si sa, infatti, che ormai i giudizi di ammissibilità hanno un elevato grado di imprevedibilità. Ma proprio ciò, io penso, dovrebbe indurre chi crede nel referendum a studiare soluzioni, anziché indugiare su letture regressive di una giurisprudenza costituzionale tutta da interpretare. Ritengo che ci siano ottimi motivi per essere fiduciosi

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GREEN DEAL. C’è ormai un evidente blocco della transizione ecologica. Si chiamava NextGenerationUE il piano verde con cui il vecchio continente puntava entro il 2050 alla sua totale decarbonizzazione
Transizione negata e «maltempo»  di governo Ikon Images

Fra il 2023 e questi primi sette mesi del 2024 cittadine e cittadini e le loro attività, soprattutto quelle agricole, sono state colpite da temperature record che hanno determinato carenza di acqua e una diffusa siccità a cui sono seguite in rapida successione le tragiche alluvioni nelle Marche, Ischia, Emilia Romagna e Toscana; ora nel pieno delle agognate vacanze estive prima si allaga la Val d’Aosta poi tutto il settentrione, con Milano in testa, è colpito da temporali, grandinate e come al solito fiumi e fiumiciattoli superinquinati esondano e mandano sott’acqua gran parte del PIL del paese. Non sta meglio la parte centrale e meridionale colpita da settimane al da un’ondata di calore terribile.

Da tempo si sa che questo stato di cose prima o poi sarebbe arrivato. Le responsabilità dei governi per non avere contrastato la corsa del cambiamento climatico sono chiarissime, ma scarsamente percepite dall’opinione pubblica. Ora con un governo di destra, prevalentemente negazionista delle responsabilità dell’uomo del cambiamento climatico la situazione è destinata a peggiorare. Si è diffusa ad arte la falsa convinzione che non si poteva far nulla per prevenire queste tragedie annunciate.

La verità è un’altra. Dagli anni novanta del secolo scorso la comunità scientifica aveva avvertito, inascoltata, i decisori politici sull’urgenza di una riduzione drastica delle emissioni climalteranti, senza la quale il paese e l’intero pianeta sarebbe stati esposti al susseguirsi di eventi come scioglimento di ghiacciai, desertificazioni, migrazioni alluvioni, ondate di calore, bombe d’acqua.

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Sebbene tutto ciò non suscita nessuna indignazione che l’Italia non abbia ancora un piano di adattamento (fermo da due anni in parlamento) che protegga la popolazione e tantomeno politiche in grado di mitigare la corsa dei cambiamenti climatici, come ad esempio accelerare l’uscita dalle fonti fossili di energia a cui viene invece il governo Meloni contrappone un piano fossile intitolato furbescamente ad Enrico Mattei.

Pesanti sono le responsabilità dei media. Ad ogni evento catastrofico l’informazione omette nel raccontarlo che ciò che lo causa è il cambiamento climatico e parla genericamente di “maltempo”. Anzi per tranquillizzare la popolazione e coprire le evidenti inadempienze di chi sta governando alla parola maltempo viene aggiunto l’aggettivo “eccezionale” cioè imprevedibile e quindi non si poteva far nulla.

Il ritardo dell’Italia però si inserisce in un arretramento più generale dell’Europa. C’è ormai un evidente blocco della transizione ecologica. Si chiamava NextGenerationUE il piano verde con cui il vecchio continente puntava entro il 2050 alla sua totale decarbonizzazione, una scelta che con coraggio si finanziava mandando al diavolo le politiche di austerità che avevano dilatato disuguaglianze e aggravato la situazione ambientale.

Tutto ciò è stato cancellato dalla guerra in Ucraina. Il programma su cui è stata rieletta la Von der Leyen alla guida della commissione europea ha come priorità il riarmo e il conseguente abbandono del piano verde. Il governo Meloni al di là delle apparenti perdite di peso politico sarà invece fra i principali protagonisti di questa svolta politica bellicista col risultato che lascerà con la copertura dell’Europa un paese già fragile e in pieno dissesto idrogeologico in balia degli eventi estremi.

Compito delle forze progressiste in Italia come in Europa è smettere di sottovalutare la portata della svolta che l’Europa ha compiuto e che la probabile elezione di Trump completerà. Al tentativo di liquidare la transizione ecologica va contrapposta la richiesta di una sua accelerazione, non a parole, ma costruendo nel paese e nell’intera Europa le ragioni e le vertenze per dar corpo a questa accelerazione.

Assumere la difesa della popolazione dagli eventi estremi pretendendo da chi governa un piano di adattamento e lo sblocco dei progetti di installazione delle rinnovabili. Assumere questo impegno non significa indebolire l’agenda sociale del centro sinistra, ma rafforzarla. Con una accelerazione della transizione ecologica si danno più possibilità di successo agli obiettivi sociali. sia sul fronte occupazionale sia su quello della redistribuzione del reddito ed anche sulla difesa dello stato sociale. L’uscita dal fossile e la rigenerazione urbana sono due obiettivi attorno a cui far crescere anche una reindustrializzazione del paese. Sono solo i titoli di un possibile progetto alternativo il cui sviluppo e capacità di unire va verificata nel territorio

 
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PALESTINA OCCUPATA. Un atto d’accusa durissimo quello della Corte, ma anche un grido d’allarme nell’intercalare il monito «il prima possibile», vale a dire «prima che sia troppo tardi»

Fine del tabù, ora il mondo deve agire Ospedale Al Awda a Gaza distrutto dai bombardamenti - Ap

Stavolta dobbiamo riconoscerlo, il diritto internazionale ha fatto la sua parte e, nonostante sia stato devastato in questi ultimi trenta anni da tante, troppe guerre fuori da ogni diritto dell’Occidente proprio in Medio Oriente, esiste ancora e prova ad avere un ruolo “a caldo” mentre il massacro di Gaza continua e raggiunge la cifra di 39mila morti e decine e decine di migliaia di feriti, per la maggiora parte civili inermi, donne, bambini, anziani, con la devastazione di ogni struttura umanitaria e di ogni risorsa vitale.
Così abbiamo avuto la decisione del 26 gennaio scorso della Corte di giustizia internazionale delle Nazioni unite, la massima assise di giustizia al mondo, di incriminare lo Stato d’Israele per «plausibile genocidio».

Poi la decisione della Procura della Corte penale internazionale dell’Aja del 21 maggio di emettere un mandato di arresto per Netanyahu e per il ministro della difesa Gallant per «crimini di guerra e crimini contro l’umanità» – stesso mandato d’arresto per Yahya Sinwar e altri tre leader di Hamas. Ecco ora l’atto d’accusa senza se e senza ma della sentenza “consultiva” della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni unite, richiesta dall’Assemblea generale dell’Onu nel dicembre 2022 in merito alla «presenza israeliana nei territori palestinesi»: «Lo Stato di Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza illegale nei Territori palestinesi occupati il più rapidamente possibile, di cessare immediatamente tutte le nuove attività di insediamento, di evacuare tutti i coloni e di risarcire i danni arrecati», sostiene la Corte.

Precisando stavolta che anche la Striscia di Gaza è da considerare territorio occupato perché confini – sarebbe meglio dire margini sotto chiave – , sicurezza ed economia sono nelle mani d’Israele. Una illegalità – ricordava Chiara Cruciati ieri sul manifesto – che dura da 57 anni che hanno cancellato tra l’altro due Risoluzioni storiche delle Nazioni unite che imponevano a Israele il ritiro dall’occupazione.

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Il ritiro non c’è stato ma in questi più di 50 anni sono andate in onda nuove violenze, l’annessione di fatto, l’istituzione di un regime di apartheid, la costruzione del Muro di separazione, nuove colonie con la cacciata dei palestinesi diventati profughi a casa loro o in altri paesi mediorientali, dove sono stati raggiunti da tante altre stragi come quella in Libano di Sabra e Shatila, accordi di pace subito azzerati da una parte sola con l’uccisione del premier israeliano Rabin nel 1995 ad opera di un integralista ebreo, furto delle risorse primarie, dall’acqua alle colture agricole della terra. Per questa verità, storica e politica, si sono spese migliaia di esistenze e generazioni di palestinesi che sopravvivono – divisi e abbandonati dai “grandi” del mondo e dalle leadership mediorientali – senza diritti sulla loro terra negata. Ma anche le Ong dei diritti umani, come tanti pacifisti nel mondo e in Israele stessa, oltre che la sinistra delle comunità ebraiche nel mondo.

Un atto d’accusa durissimo quello della Corte, ma anche un grido d’allarme nell’intercalare, il monito «il prima possibile», vale a dire «prima che sia troppo tardi». Perché i messaggi che la sentenza invia, a chi vuole intendere, sono tragicamente chiari e illuminano insieme le zone d’ombra del quotidiano massacro sanguinoso in corso, a Gaza e in Cisgiordania.
In primo luogo, che persistendo l’occupazione illegale, fatta di massicci insediamenti militari e di altrettanti mega-nuovi insediamenti colonici, non è possibile alcuno Stato di Palestina: c’è un solo Stato, Israele, armato fino ai denti ed occupante dell’altro che non viene riconosciuto.

In secondo luogo che il 7 ottobre 2023 – l’attacco criminale e la strage di Hamas di civili inermi e di militari con la cattura di ostaggi – va, come fu per la dichiarazione del segretario dell’Onu Guterres, collocato nel contesto storico della decennale occupazione israeliana dei territori palestinesi. Va dunque non certo giustificato ma collocato (usiamo due verbi con due funzioni diverse se non opposte) infine, che in assenza di una risposta «il prima possibile» della comunità internazionale, degli Stati, dell’Unione europea, dei parlamenti per sanzioni politiche ed economiche contro il governo israeliano, ma anche delle iniziative dal basso di mobilitazione e boicottaggio, dei campi larghi o stretti che siano delle residue sinistre, dei media e del giornalismo (p. s. Il Corriere della Sera relegava ieri la notizia della Corte Onu a pagina 13 in taglio basso con 40 righe) – l’interminabile litania di vittime che scorre ogni giorno davanti ai nostri occhi e le privazioni a cui sono sottoposti gli esseri umani che resistono, dentro gli occhi dei bambini tra le macerie in cerca di acqua e cibo, occhi che non dimenticano, saranno foriere di nuovi 7 ottobre, perché lì non c’è pace ma una condizione di guerra e oppressione permanente di un intero popolo.

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Il discorso di “San Trump”

Basta con i due pesi e due misure: se per i territori occupati dalla Russia nel Donbass ci si mobilita in Alleanza con l’invio di miliardi in armi rischiando la Terza guerra mondiale, com’è possibile ormai tacere o peggio cancellare l’infamia della illegalità dell’occupazione militare dei territori palestinesi?

Alla sentenza della Corte di giustizia internazionale dell’Onu così ha risposto il premier israeliano Benjamin Netanyahu: «Il popolo ebraico non è conquistatore nella propria terra, né nella nostra eterna capitale Gerusalemme, né nella terra dei nostri antenati in Giudea e Samaria. Nessuna falsa decisione dell’Aja – ha aggiunto – distorcerà questa verità storica, così come non si può contestare la legalità dell’insediamento israeliano in tutti i territori della nostra patria».

Mai parole così integraliste, razziste, degne del fascista suo ministro Ben Gvir, messianiche, lontane da una visione laica sono state pronunciate a nostra memoria da un premier dello Stato d’Israele: i palestinesi semplicemente non esistono. Eppure sarà il “colono” Netanyahu ad essere invitato tra pochi giorni, il 24 luglio, a parlare a camere riunite negli Stati uniti, su invito bipartisan, democratico e repubblicano – meglio dire ormai di Trump e del Maga – per enunciare la sua strategia politica e militare. Ancora una volta come “Bibi” ha sempre fatto nella sua storia, influirà non poco sul destino della campagna elettorale Usa già ampiamente compromessa dalle difficoltà di Biden, che pure su Gaza ha vacillato condannando la vendetta criminale israeliana ma inviando armi a Tel Aviv, e soprattutto da Santo Trump che annuncia appeasement con il neo-zar Putin sull’Ucraina, ma soffia già nuovi venti di guerra in Medio Oriente e in Asia

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UE. Addio al piano del 2019, ora «competitività e meno regole». È un compromesso con i potentati industriali e finanziari. Che fine fa la transizione ecologica? Tantopiù con un’Ue armata

green deal

 

Secondo tutte le maggiori testate giornalistiche Ursula von der Leyen, nel suo discorso programmatico al Parlamento Europeo, ha garantito il supporto al Green Deal, e il timore che il vento di destra che spira in Europa potesse ridimensionarlo è svanito.

È proprio così? Certo, l’affermazione: «Nei primi 100 giorni proporrò un nuovo Clean Industrial Deal» non sembrerebbe lasciare adito a dubbi. Ma è ad altri passi del discorso della von der Leyen che bisogna guardare per essere invece a dir poco perplessi. Per esempio, quando dice che il Green Deal dovrà essere basato su «pragmatismo, neutralità tecnologica e innovazione», sembra di sentire Salvini o la Meloni. Pragmatismo inteso come depotenziare o non mettere in atto le azioni del Green Deal che disturbano potenti lobby industriali, come si è fatto col Nature Restoration Law, con la Direttiva sulle case Green, con il regolamento sugli imballaggi? Neutralità tecnologica e innovazione intese come porte aperte al fantomatico nucleare di IV generazione e alla cattura e stoccaggio sottoterra della CO2, per non disturbare troppo le multinazionali del fossile?

Il tutto in un contesto che sembra essere disegnato dal più acceso dei sostenitori del neoliberismo: competizione, competizione, competizione. Le sue parole sono chiare: «Chi resta fermo resterà indietro. Chi non è competitivo dipenderà dagli altri… La nostra competitività ha bisogno di un forte impulso». E la competitività si promuove con «meno burocrazia e più fiducia… autorizzazioni più rapide». In una parola, mercato assolutamente libero da lacci e lacciuoli delle istituzioni. Sembra sentire gli economisti della Scuola di Chicago. Di questo dovrà tenere conto il Green Deal.

Diversa era la filosofia dietro il Green Deal di cui la stessa von der Leyen aveva parlato nel suo discorso di cinque anni fa, quando fu eletta la prima volta. Il Green Deal originario non orientava l’industria verso le emissioni zero e contro la perdita di biodiversità lasciando il mercato libero e competitivo come solo arbitro, ma attraverso un sistema di regole sviluppate al fine di costruire un sistema economico, sociale e culturale capace di realizzare la transizione ecologica. Transizione che inevitabilmente impone che certe attività produttive, quelle inquinanti, siano abbandonate e altre nuove vengano create. Per questo la filosofia del Green Deal era quella di rendere la vita difficile o progressivamente proibire quelle attività non in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione e di salvaguardia della biodiversità. Se, come dice ora von der Leyen, si deve andare verso un business «più facile e più veloce», con «meno burocrazia e più fiducia», ci saranno invece meno regole e la tanto decantata competitività non permetterebbe alle imprese inquinanti che andrebbero chiuse o riformate di soccombere, perché sono più forti di quelle più sostenibili non ancora consolidate che dovrebbero sostituirle. Si pensi, per esempio, alle aziende della produzione di beni di consumo che dovrebbero almeno in parte trasformarsi in aziende in grado di fare più riparazione e rigenerazione che produzione, per adeguarsi all’economia circolare, uno dei pilastri del Green Deal. Se non si mettono delle regole restrittive sulla produzione, come per esempio imponendo che i prodotti siano facilmente riparabili e che i pezzi di ricambio costino poco, il business delle riparazioni e rigenerazione non potrà mai decollare, o comunque competere con quello della produzione di beni progettati e realizzati per durare poco, di fatto impossibili da riparare. Per questo finora sono stati introdotti dei vincoli, delle regole restrittive.

Nel nuovo corso, invece delle regole, dei vincoli, si intravede il sussidio. Per rendere l’attività in linea con il Green Deal molto più lucrosa, più competitiva, di quella che in linea non è, si annuncia un contributo pubblico, attraverso il “nuovo Fondo europeo per la competitività”.

È il ribaltamento di paradigma: invece di costringere chi opera in danno della società a smettere di farlo, lo si induce al cambiamento a spese della stessa società che fino a quel momento ha subito il danno. Speriamo di sbagliarci.

Infine, c’è il capitolo agricoltura. Con grande orgoglio la von der Leyen lancia il “Dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura in Europa”, che riunisce agricoltori, gruppi ambientalisti ed esperti di tutta la catena alimentare”, per predisporre “una nuova strategia per la nostra agricoltura e il settore alimentare”. Ma non c’era già il programma “From Farm to Fork”, una ottima strategia già predisposta da tempo e mai messa in atto? Non è piaciuta alle lobby dell’agricoltura industriale e ora ne facciamo un’altra che le soddisfi?

Vero, allora, che la von der Leyen ha confermato l’impegno nel Green Deal, ma un altro, diverso da quello di prima, molto vicino all’Inflation Reduction Act di Biden, un compromesso con i potentati industriali e finanziari che rende più difficile la realizzazione degli obiettivi originari. Obiettivi più resi difficili da raggiungere dalla scelta di avere una Europa sempre più armata, che comporta risorse tolte al Green Deal e grandi quantità di gas serra che forze armate e guerra aggiungono

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