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LA VERA SFIDA. Come e se si sbloccherà l’impasse parlamentare francese dopo gli inattesi risultati delle elezioni del 7 di luglio, in che modo e con chi si configurerà la coabitazione con la […]

Non ci credo, abbiamo vinto. Notte folle per la République

Come e se si sbloccherà l’impasse parlamentare francese dopo gli inattesi risultati delle elezioni del 7 di luglio, in che modo e con chi si configurerà la coabitazione con la presidenza, con quali rischi per il futuro, con quali compromessi e riflessi sull’opinione pubblica? Sono questioni decisive che tuttavia resteranno per un bel pezzo senza risposta. Ma, nell’immediato, il voto francese rappresenta un segnale ben preciso: conferma e rafforza qualcosa che già con le elezioni europee si era lasciato intravvedere. Nonostante un’indubbia avanzata delle forze nazionaliste e xenofobe, e in buona misura proprio per questo, la paura della destra più radicale e della sua marcia verso il potere in Europa si è diffusa.

E si è intensificata, facendosi in più occasioni maggioranza. Malgrado lunghe e laboriose strategie di ripulitura, umori neri e nostalgie, riaffiorano alla minima occasione nei partiti dell’estrema destra e, più in generale, l’avventura nazionalista comincia suscitare qualche preoccupazione.

Al contrario le sinistre non fanno più paura a nessuno, o quasi. Sono passati i tempi nei quali Berlusconi vedeva comunisti dovunque, o meglio fingeva di vederli per rifilare un babau all’infantilismo che ben sapeva stimolare tra i suoi potenziali elettori. Semmai il quadro appare oggi rovesciato. Le sinistre non è facile vederle quando perdono, ma soprattutto quando vincono. Difficile scovare qualcosa di sinistra nel Labour di Keir Starmer e altrettanto arduo dalle parti di Olaf Scholz e dei Grünen tedeschi o dei socialdemocratici danesi.

In Francia le sinistre all’opposizione si sono viste di più (anche in occasione di partecipate lotte sociali), ma soprattutto nel momento del massimo pericolo, di fronte al quale hanno tempestivamente edificato un argine decisivo. Un argine tuttavia non è ancora un’architettura politica, è un’opera importante ma piuttosto semplice, con una sola ed unica funzione: respingere, trattenere. Cambiare lo stato delle cose è un altro paio di maniche.

Quello che nel corso degli anni ha determinato il lungo declino delle forze di sinistra in tutta Europa non è certo la paura di un inesistente radicalismo, ma piuttosto la generale delusione per la timidezza, la subalternità al cosiddetto “pensiero unico” e l’inefficacia politica e sociale che ne è conseguita. E che a un certo punto si è trasformata in seconda natura, fregiandosi del titolo di “responsabilità”, quella che ha spinto, in questo caso comprensibilmente, un gran numero di elettori di sinistra a votare per gli uomini di Macron, compresi macellai sociali e questurini come l’indigeribile Darmanin, pur di sbarrare il passo al Rassemblement national. Molti di meno gli elettori macroniani e gaullisti che hanno fatto il sacrificio di votare a sinistra per la medesima ragione. La cortesia è stata ripagata in minima misura. Fino alla faccia tosta di rivendicare il successo di una presunta scommessa strategica del presidente che, per la verità, ha quasi dimezzato la sua forza parlamentare. Probabilmente il peso della variegata opinione di sinistra è perfino maggiore di quello che si traduce nei seggi assegnati al Nuovo fronte popolare.

E resta il fatto che il paese, come già anticipato dai grandi e tenaci movimenti di protesta che si sono susseguiti in Francia negli ultimi anni e dal vasto appoggio che hanno ottenuto nell’opinione pubblica, non ne può più di Emmanuel Macron, della sua arroganza e del suo stile di governo. Un umore diffuso che peserà non poco sulle precarie condizioni in cui si trascineranno gli ultimi anni del suo mandato.

Converrà però non dimenticare che la minaccia di una destra agguerrita all’arrembaggio del potere non si è affatto estinta e che l’aggregazione di una parte dei gaullisti al Rassemblement national resta un segnale decisamente preoccupante riguardo alla tenuta dell’antifascismo borghese. Inoltre i voti confluiti nell’estrema destra sono comunque una marea. Se lo spaventapasseri comunista è finito in soffitta, ce ne è un altro pronto all’uso e dimostratosi in più occasioni di grande efficacia: i migranti e la popolazione francese di origine extraeuropea, in particolare quella araba e di fede musulmana, che le destre demonizzano come fattore di minaccia su diversi fronti: culturali, economici, sociali. Qui, non si può negarlo, la paura esiste ed è pronta a essere mobilitata. Del resto, su questo terreno, le risposte delle sinistre di governo sono state ovunque fiacche, reticenti quando non anticipatrici o imitative delle politiche adottate dai governi della destra. La sfida più difficile sta qui, dove perfino il più classico repertorio repubblicano finisce col contraddirsi ripetutamente

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DOPO IL VOTO. In Iran ha vinto il più indecifrabile dei presidenti, come del resto previsto dai sondaggi informali dei Guardiani della Rivoluzione, ovvero di coloro che insieme ai vertici religiosi e alla […]

Massoud Pezeshkian in mezzo ai suoi sostenitori a Tehran durante la campagna elettorale per le presidenziali Massoud Pezeshkian in mezzo ai suoi sostenitori a Tehran durante la campagna elettorale per le presidenziali, foto Vahid Salemi /Ap

In Iran ha vinto il più indecifrabile dei presidenti, come del resto previsto dai sondaggi informali dei Guardiani della Rivoluzione, ovvero di coloro che insieme ai vertici religiosi e alla Guida Suprema Alì Khamenei detengono il potere. Appartiene all’ala riformista che da anni era stata estromessa dalle stanze dei bottoni e che per altro quando era stata ai vertici della presidenza con Khatami e poi con il più moderato Rohani non era mai riuscita a riformare nulla.

Ci riuscirà il neo eletto presidente Massoud Pezeshkian? Abbiamo più di qualche dubbio e allora dobbiamo chiederci come mai un regime, sempre più militarizzato e impegnato su svariati fronti di guerra del Medio Oriente e contro Israele, abbia deciso di “resuscitare” i riformisti.

La ragione di fondo è che la legittimità della repubblica islamica fondata nel 1979 con la rivoluzione di Khomeini è in discussione non solo per le pesanti disillusioni sul sistema degli ayatollah e la crisi economica ma perché queste elezioni arrivavano dopo mesi di proteste da parte della popolazione per ottenere maggiore rispetto dei propri diritti, manifestazioni duramente represse dalle forze dell’ordine.

A far nascere il movimento “Donne, vita, libertà” era stata nel 2022 la morte della giovane Mahsa Amini, avvenuta mentre si trovava nelle mani della polizia per non aver indossato il velo nella maniera considerata corretta secondo le regole dei guardiani della morale.

Pezeshkian che ha battuto l’ultraconservatore Said Jalili, è arrivato in cima alla presidenza per dare un messaggio diverso, quello di una maggiore tolleranza: è stato chiamato a dare un volto più accettabile del regime nei confronti di un’opinione pubblica ampiamente disillusa e in buona parte ostile.

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Questo medico chirurgo, – di padre azero e madre curda, ex ministro della sanità, figura di secondo piano e senza grandi credenziali rivoluzionarie, non avrebbe mai potuto partecipare alla corsa presidenziale senza l’approvazione del Consiglio dei Guardiani che avevano già eliminato personalità ben più note della sua. E’ stato scelto dall’alto e calato nell’agone politico.

Questo significa due cose in apparente contraddizione.

La prima è che il campo ultra conservatore religioso e militarista è ancora abbastanza compatto e sicuro nella gestione del potere al punto di permettersi presentare un candidato dell’”opposizione” interna e di indicarlo come vincente.

Ma allo stesso tempo la scelta di Pezeshkian rivela il punto chiave della questione: la profonda crisi di legittimità che sta vivendo la repubblica islamica come dimostra l’affluenza alle urne che rimane molto bassa rispetto al passato. Il nuovo presidente rappresenta una sorta di operazione di recupero del regime in un Paese che vive una profonda frattura tra chi è ai vertici e il popolo.

Un’operazione in buona parte cosmetica perché il neo presidente ha un potere limitato: è il capo del governo non la Guida in un sistema monopolizzato dagli ultraconservatori che dominano tutte le istituzioni principali, da quelle politiche alla magistratura, ai vertici religiosi e militari.

Massoud Pezeshkian in mezzo ai suoi sostenitori a Tehran durante la campagna elettorale per le presidenziali
Massoud Pezeshkian in mezzo ai suoi sostenitori a Tehran durante la campagna elettorale per le presidenziali, foto Vahid Salemi /Ap

Pezeshkian avrà grandi difficoltà a governare come dice lui perché ha un forza politica e personale limitata e si dovrà comunque confrontare con un Parlamento, il Majilis, costituito in gran parte da ultraconservatori e dove i riformisti sono in netta minoranza. In qualunque momento possono quindi bocciargli i ministri e le leggi.

In poche parole è un presidente sotto tutela, sorvegliato dall’alto. Ma allora perché è stato spinto in prima fila e fino alla vittoria? Perché questa è una delle ultime carte che si gioca la repubblica islamica in una fase non solo di delegittimazione ma anche di crisi economica e sociale.

Pezeshkian per governare dovrà prendere anche provvedimenti impopolari come il taglio dei sussidi e l’aumento dei prezzi energetici: per farlo è meglio mettere la faccia di un riformista. “Siamo tutti popolo di questo Paese, ci sarà bisogno dell’aiuto di tutti per il progresso dell’Iran”, è stata una delle sue prime dichiarazioni, parole che preludono a una sorta di appello alla solidarietà su cui, di solito, si fa leva nei momenti difficili.

Quanto influirà l’ascesa di Pezeshkian sulla politica estera? Un domanda essenziale perché da Teheran, polo di riferimento dell’Islam sciita, passano la pace e la guerra in Medio Oriente, dal Libano degli Hezbollah fino alla Palestina di Hamas, dall’Iraq alla Siria fino agli Houthi yemeniti.

Il neo presidente ha detto di voler tendere “a tutti la mano dell’amicizia” ma che sia lui a potere decidere su tutto questo non ci crede nessuno e lui per primo. Però Pezeshkian è una sorta di messaggio lanciato da una repubblica islamica, da sempre in guerra o in attrito con l’Occidente, che rischia di restare impigliata nell’asse per lei vitale tra Mosca e Pechino che non è esattamente quello che vogliono gli strateghi degli ayatollah.

E’ ora di riaprire, almeno formalmente all’Occidente, se non per convinzione per necessità visto il possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca. Come diceva il filosofo iraniano Dariush Shayegan, ispiratore del dialogo tra civiltà, la storia dell’Iran è come un pendolo che oscilla perennemente tra Oriente e Occidente. E forse il pendolo si rimetterà in moto

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La Francia si gioca tutto nel secondo turno delle elezioni politiche. La destra di Le Pen e Bardella punta al governo. Può fermarla il barrage repubblicano voluto soprattutto dalla sinistra. La chiamata in campo è per gli elettori di centro, malgrado Macron

TRA PARIGI E ROMA. Preso in mezzo tra le feste nazionali di Stati uniti e Francia, questo 7 luglio condizionerà il destino delle democrazie occidentali. Sulla soglia del governo di Parigi c’è un partito […]

Giorgia Meloni Giorgia Meloni in campagna elettorale - LaPresse

Preso in mezzo tra le feste nazionali di Stati uniti e Francia, questo 7 luglio condizionerà il destino delle democrazie occidentali.

Sulla soglia del governo di Parigi c’è un partito di originaria ispirazione fascista – i successivi camuffamenti non hanno toccato la fiamma, mutuata dall’Italia dove arde già a palazzo Chigi.

Negli Usa l’aspirante dittatore, parole sue, avrà la sua chance tra quattro mesi e i “democratici” stanno facendo di tutto per dargli una mano (più o meno come hanno fatto Macron in Francia e il centrosinistra qui da noi).

Il suffragio universale, per il lungo dopoguerra considerato come sostanziale sinonimo della democrazia e come tale ancora spacciato dagli eredi degli sconfitti – «potere al popolo, non ai giochi di palazzo», ripete Meloni che sogna l’investitura diretta – apre le porte al suo svuotamento.

Ne ha parlato qualche giorno fa il presidente Mattarella in un discorso importante, preoccupato e consapevole del passaggio storico.

La democrazia, ha detto, è la realizzazione concreta dei diritti nella vita delle persone. «Non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento» e non si «consuma» esprimendo il voto nelle urne «nelle occasioni elettorali». Come vorrebbero al contrario tutti quelli che da anni hanno aperto la caccia alle libertà di associazione e manifestazione, ai partiti e ai sindacati, alla libertà di stampa. Pensatori “liberali” prima che governanti di destra.

Ma il presidente Mattarella ha detto anche di più. Ha aggiunto che a smentire la coincidenza tra suffragio universale e democrazia piena concorrono anche «marchingegni che alterano la rappresentatività e la volontà degli

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IL RITORNO DEL LABOUR. Starmer vince, ma non convince. Una formula abusata, che in questo caso non è fuori luogo. La maggioranza numerica del Labour in parlamento è ampia, e la sconfitta dei Tories […]

Un leader ambiguo, lontano anche dalla Terza via Il nuovo primo ministro britannico del Partito laburista Keir Starmer a Downing street - foto Ap

Starmer vince, ma non convince. Una formula abusata, che in questo caso non è fuori luogo. La maggioranza numerica del Labour in parlamento è ampia, e la sconfitta dei Tories è schiacciante. L’analisi del voto, e i dati sull’affluenza, rivelano tuttavia una situazione diversa rispetto a quella in cui il Regno Unito si è trovato l’ultima volta in cui i Laburisti sono andati al governo, guidati da Tony Blair, in seguito a una landslide (valanga) di suffragi nel 1997.

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Anche nel 1997 i Tories avevano perso la fiducia del paese (la crisi monetaria del Black Wednesday nel 1992, e diversi scandali, avevano lasciato il segno), ma l’economia dava chiari segni di ripresa, e Blair sapeva di poter contare su un certo margine per gli interventi di spesa sociale annunciati nel manifesto del partito. Oggi Starmer ha tratto vantaggio da un partito Conservatore la cui credibilità è distrutta, forse in modo irrimediabile, ma prende la guida del governo in una situazione, non solo economica, di gran lunga peggiore rispetto a quella della fine degli anni Novanta. Nelle elezioni che videro il trionfo del New Labour era già presente il tema del rapporto con l’Europa, ma i candidati del Referendum Party, presenti in molte circoscrizioni, non riuscirono a entrare in parlamento. A guidare i Tories erano figure come John Major (che dopo aver rassegnato le dimissioni andò ad assistere a una partita di Cricket) e Kenneth Clarke.

Uomini dell’ala moderata del Thatcherismo, che infatti si sono schierati in tempi recenti contro il loro partito sulla Brexit.

Nell’atmosfera di fiducia nel futuro seguita alla fine della guerra fredda, Tony Blair poteva credibilmente puntare a rappresentare una versione aggiornata del Laburismo di Harold Wilson, progressista sul piano dei costumi e inclusivo dal punto di vista sociale.
Questo era il senso del New Labour, che trovava in tendenze analoghe negli Stati Uniti e in Europa interlocutori simpatetici. Una manifestazione chiara della diversa atmosfera che accoglie Tony Blair quando si reca a Buckigham Palace a ricevere l’incarico dalla regina si vede nei filmati di allora. Con uno strappo al protocollo, Blair e la moglie entrarono nella residenza reale a piedi, attraversando una folla in festa, che li salutava con entusiasmo. All’ingresso di Downing Street Blair dice poche parole (pare che per scaramanzia non avesse preparato un discorso formale) con un messaggio tutto in positivo.

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Molto diverso invece il discorso tenuto ieri da Starmer, davanti a una platea di militanti. Ripete ossessivamente la parola «cambiamento» e si riferisce molto spesso alla «nazione». Insiste sul fatto che il partito è cambiato, e poiché lo ripete di continuo in circa mezz’ora assume un tono apologetico, che era estraneo allo spirito del discorso di Blair nel 1997. Dice che il partito «cambiato» metterà al primo posto il paese, e che ne proteggerà i confini. Formule che riecheggiano temi centrali per la destra nazionalista, e la seconda non appare lusinghiera per quei quadri del partito che rappresentano la continuità rispetto agli anni di Corbyn e di Ed Miliband.

Solo negli ultimi dieci minuti c’è un accenno, brevissimo, a un tema classico della sinistra, quando rievoca il senso di sicurezza che la generazione dei suoi genitori aveva nel vivere in un paese in cui si poteva sperare in un futuro migliore per i propri figli. Su come si dovrebbe restaurare questo senso di sicurezza però non dice nulla.
La parola «fairness», centrale nel discorso del New Labour non viene mai pronunciata, e nemmeno parla di giustizia o eguaglianza.
Sullo sfondo ci sono seri dubbi, sollevati da molti osservatori, sulla solidità di una maggioranza che è ampia, ma che potrebbe rivelarsi fragile. Sul piano delle politiche sociali la sua preoccupazione principale in campagna elettorale è stata non spaventare gli investitori e le imprese.

L’impegno ribadito più volte per il rispetto della disciplina fiscale lo ha spinto a rinnegare misure popolari, su cui in passato aveva espresso un parere positivo, come quella che eliminerebbe i limiti imposti dai Tories ai benefici per le famiglie che hanno più di due figli. Questo, in un paese con un grave problema di povertà infantile, non è un segnale incoraggiante. Possibile che alcune di queste posizioni vengano riviste, ma sarebbe un nuovo cambio di direzione per un leader che ha già mostrato una certa disinvoltura nel rinnegare impegni presi in precedenza.

C’è poi il tema della Palestina, che ha provocato fratture che hanno avuto conseguenze importanti nel voto (anche nel suo collegio, dove Starmer ha perso molti voti a favore di Andrew Feinstein). Un dissenso che è stato soffocato, con metodi piuttosto sbrigativi, ma che potrebbe riesplodere trovando anche una sponda in parlamento (oltre a Jeremy Corbyn, sono stati eletti quattro parlamentari indipendenti su una piattaforma di difesa dei diritti dei palestinesi, e su questo tema i malumori ci sono anche nel partito).
Insomma, Starmer è per molti versi un’incognita, con ambiguità e debolezze, non un ritorno alla Terza Via

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LE AMBIGUITÀ DEI VERDI. Nel Parlamento europeo le famiglie “partitiche” transnazionali configurano equilibri che rischiano di non riflettere le preferenze degli elettori

C'erano una volta i Verdi tedeschi | il manifesto

Nel Parlamento europeo le famiglie “partitiche” transnazionali configurano equilibri che rischiano di non riflettere le preferenze degli elettori. Ciò è tanto più vero nel caso di meccanismi di formazione del consenso fortemente dipendenti da “single issue voters”, cioè elettori ed elettrici che hanno votato soprattutto per una questione specifica o che sono stati attratti da candidati molto riconoscibili, vuoi per posizione pubblica, vuoi per biografia personale. Se pensiamo, per esempio, alla composizione del gruppo dei Verdi europei non possiamo non notare la presenza di eletti appartenenti a partiti la cui linea politica contraddice quella del sottogruppo più forte, cioè i verdi tedeschi. Il punto non può essere del tutto ignorato, specie se le questioni dirimenti e che hanno indirizzato il voto si richiamano reciprocamente. La singola istanza “verde” non è sufficiente.

Il problema assume una portata anche maggiore quando gli eletti, che comunque fanno riferimento a un programma univoco del partito di appartenenza, si dividono tra gruppi parlamentari che sono in contraddizione palese su temi cruciali. Il gruppo verde europeo, appunto, è unito dalla sacrosanta centralità del tema ambientale, ma è invece molto ambiguo, fluido si potrebbe dire, sui temi di politica internazionale.

Per esempio, la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock è stata in prima fila nel sostegno, per lunghi mesi largamente incondizionato, a Israele. È anche una esponente di punta di un governo che si è distinto nella repressione del dissenso pro-Palestina, che ha messo a repentaglio diritti democratici che un sistema liberale dovrebbe dare per scontati, dalla libertà di espressione a quella di manifestazione – fino alla notizia, riportata pochi giorni fa – che gli immigrati in Germania richiedenti cittadinanza dovrebbero dichiarare come condizione necessaria il diritto di Israele ad esistere.

Le cose non vanno meglio, anzi, per quel che riguarda la guerra in Ucraina. I Verdi tedeschi sono senza dubbio il partito della coalizione tedesca che più spinge per il sostegno militare all’Ucraina, come infatti riportato da il manifesto qualche mese fa. E d’altronde il problema non sono solo i Verdi tedeschi, se lo stesso “Manifesto dei Verdi” è molto chiaro sul continuare ad armare Kiev perché – si sostiene – è attraverso la difesa armata dell’Ucraina che passa la sicurezza europea. Temi, questi, che rimandano a un posizionamento politico più ampio, se pensiamo che il gruppo dei Verdi era più che interessato a entrare nella maggioranza Ursula. Un’alleanza davvero lontana da quanto sostengono, per esempio, i Verdi italiani. Dal punto di visto politico, sarà interessante capire come e quando queste distanze si faranno sentire ed, eventualmente, saranno affrontate nel discorso pubblico.

Il punto in parola non riguarda certo le posizioni dei singoli o casi specifici, quanto la presenza di famiglie politiche europee che sono ormai obsolete rispetto alle dinamiche nazionali. Ciò è particolarmente vero per un gruppo come quello dei Verdi che, pur nascendo da posizioni politiche radicali, soprattutto sulla guerra, si tende a caratterizzare a livello europeo per il solo tema ambientale. Si tratta certamente di un tema centrale, se non decisivo per il futuro dell’intero globo, ma che se isolato da un quadro di priorità più generale lascia troppi spazi di ambiguità su altre dirimenti questioni.

I Verdi hanno avuto un ruolo centrale nel ridefinire l’agenda pubblica e non può esistere una forza di sinistra che non combatta anche lo sfruttamento delle risorse naturali, non diverse da quelle umane, legate ad una logica di profitto a tutti i costi e di mercificazione incipiente, con quel che ne consegue per clima e biodiversità. E dall’altra parte, come recita un vecchio adagio, l’ambientalismo senza socialismo è solo giardinaggio. La composizione e ricomposizione di queste tematiche – a cavallo tra i partiti nazionali e le alleanze europee – è uno dei temi da affrontare in un quadro di politica multi-livello, non dimenticandosi che il consenso politico, se vuole essere durevole, richiede la costruzione e l’attuazione di un quadro di coerenza generale tra le singole questioni

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I NUMERI. A costo di peccare di eccessivo ottimismo, ci pare di poter dire che in Francia la partita è ancora molto aperta. Non solo non è scontata la maggioranza assoluta al […]

 

A costo di peccare di eccessivo ottimismo, ci pare di poter dire che in Francia la partita è ancora molto aperta. Non solo non è scontata la maggioranza assoluta al Rassemblement national, ma forse i rapporti di forza nella futura Assemblea nazionale potranno risultare sorprendenti, alla luce della facili, e precarie, “forchette” che sono state diffuse domenica sera. Il fattore decisivo, com’è noto, saranno le desistenze: ma qui, bisogna guardare prima i dati e le mappe.

Su scala nazionale, il Rn ha ottenuto il 33,2% (11 milioni e 600 mila voti, tra cui gli ex-gollisti); il Nfp il 28,3% (9 milioni di voti), il centro macroniano il 22,8% (Ensemble a altri, 7 milioni e 300 mila voti); i gollisti “ortodossi” il 7,2% (2 milioni e 300 mila). A questi va aggiunto un altro mezzo milione di voti raccolti da candidati etichettati come «diverse gauche» (1,6%), in genere candidati socialisti o France Insoumise (Fi) dissidenti, che non hanno avuto la nomina ufficiale dei partiti, ma hanno deciso di correre ugualmente (e due di loro, peraltro, sono stati già eletti al primo turno).

La somma, (28,3 + 1,6) dà il 29,9%, non molto distante dal 33 del Rn: c’è stata l’ondata di destra, ma non si può sottovalutare, per una volta almeno, la buona contro-ondata a sinistra, grazie anche (finalmente!) ad una saggia strategia di accordi elettorali. Con un sistema elettorale come quello francese, è decisiva la distribuzione territoriale dei voti: il vantaggio percentuale complessivo di Nfp su Ensemble è dovuto essenzialmente alla massiccia forza elettorale della sinistra in tutta la grande area parigina e dell’Ile-de-France; ma, nella vasta provincia francese, è spesso l’area macroniana a piazzarsi al secondo posto, dietro Rn. La logica della desistenza favore del candidato meglio piazzato, subito affermata con notevole tempismo e abilità da Mèlenchon, ha prodotto alla fine questo risultato: al momento della chiusura delle liste, ieri sera, si registrano 218 casi di desistenza, di cui 131 da parte dei candidati “terzi” della sinistra a favore dei “secondi” centristi (in qualche caso perfino a favore del candidato gollista); e 82 casi di desistenza del centro a favore delle sinistra. Un notevole sacrificio, per la sinistra, che la dice lunga, peraltro, sulla favola costruita ad arte di un Nfp egemonizzato da pericolosi estremisti.

Chi ha la pazienza di spulciarsi uno a uno questi casi scoprirà alcune cose interessanti: che, ad esempio, i casi eclatanti di rifiuto della desistenza a favore di un candidato Nfp da parte del candidato centrista non sono poi molti (ne abbiamo contato una quindicina). In molti altri casi, questi triangolari vedono in testa il Nfp o Ens, e solo in terza posizione il Rn: qui, il triangolare non danneggia il fronte anti-Rn.

Emergono anche altri elementi, che andranno meglio studiati: un notevole successo dei candidati socialisti (sarebbe una buona notizia registrare una ripresa di questo partito, annichilito dal macronismo) e l’impressione di una saggia strategia di distribuzione territoriale delle candidature del Nfp, con una maggiore presenza di socialisti e verdi nelle aree tradizionalmente più moderate. Naturalmente, il voto di domenica ci dirà se il meccanismo delle desistenze è stato apprezzato e seguito dagli elettori: in genere, si può ipotizzare una maggiore disciplina degli elettori di sinistra (nous allons la savuer, ha detto spiritosamente il segretario socialista Faure, a proposito della desistenza a favore dell’ex-prima ministra Borne, in precaria posizione in un collegio del Calvados: gli daranno retta gli elettori di sinistra, o si ricorderanno di lei per la riforma delle pensioni?); ma si può pensare ad un maggior numero di defezioni in senso inverso (verso Rn o verso l’astensione? Cambia molto). E tuttavia, anche in questo caso, guardando i dati collegio per collegio, non è necessario che tutti i voti centristi siano riportati a sinistra: in molti casi ne basta la metà.

Naturalmente, a conti fatti, si dovrà riaprire un serio discorso sulle prospettive: assistiamo in Francia al fallimento dell’ideologia «riformista» di cui Macron si era fatto espressione, salvo poi condurre politiche segnate dalla peggiore logica neo-liberista. I fantasmi di Vichy li hanno risvegliati costoro, e la sinistra è stata troppo a lungo cieca di fronte alle domande di protezione, di sicurezza sociale, di dignità del lavoro, e di fronte alle paure sollevate da questo modello di sviluppo capitalistico e dalle politiche che lo hanno assecondato. Speriamo che non sia troppo tardi

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