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L’iniziativa, che prevede l’assistenza economica nel pagamento delle bollette e la messa a punto di un percorso formativo sul risparmio energetico e la sostenibilità ambientale, sarà rivolta soprattutto alle persone in difficoltà residenti in due cohousing gestiti dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma

Banco dell’energia Credits: Banco dell’Energia

Un aiuto concreto a oltre 80 famiglie residenti in 2 condomini di cohousing della Comunità di Sant’Egidio a Roma, che ospitano anziani in condizioni di vulnerabilità e altri soggetti fragili, attraverso il pagamento delle bollette e la formazione sul risparmio energetico: questo il progetto “Condomini solidali” promosso da Banco dell’energia – la fondazione nata per sostenere le famiglie che si trovano in una situazione di fragilità economica e sociale con un focus sui bisogni energetici – e la Comunità di Sant’Egidio – che, nella Capitale, ha risposto all’emergenza abitativa promuovendo una rete di condomini protetti e cohousingL’iniziativa, promossa dal Banco dell’Energia, è stata realizzata grazie al contributo di JTI Italia, fra i principali player del mercato italiano del tabacco, da sempre in prima linea sui temi della sostenibilità.

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Il progetto si inserisce in un ampio quadro di azioni contro la vulnerabilità, fenomeno che, come testimoniano i dati della Caritas diocesana, durante la pandemia nella sola città di Roma ha visto ben 7mila nuove famiglie chiedere sostegno per far fronte ai bisogni primari. Un’area, quella della Capitale, particolarmente a rischio, in un quadro regionale già preoccupante: secondo i dati Istat pubblicati nel 2018, infatti, il Lazio è sul podio delle regioni con le maggiori percentuali di appartamenti poco o per nulla riscaldati e, stando ai report dell’OIPE (Osservatorio Italiano sulla Povertà Energetica), l’indice della povertà energetica tra il 2020 ed il 2021 ha subito un incremento di quasi l’1% a livello regionale. Le cause principali: i rincari del gas naturale, che hanno determinato anche l’aumento dei prezzi all’ingrosso dell’elettricità; circostanze poi ulteriormente aggravate dal conflitto russo-ucraino.

Numeri preoccupanti che spingono ad agire per contrastare la vulnerabilità economica e sociale e garantendo l’accesso a un paniere minimo di beni e servizi energetici. È con questa consapevolezza che il Banco dell’energia, con l’aiuto di JTI Italia, sostiene la Comunità di Sant’Egidio nel far fronte alle spese energetiche di 2 condomini dedicati al cohousing di soggetti fragili, tra cui anziani, disabili e richiedenti asilo. Oltre a garantire una maggiore inclusione nell’accesso all’energia tramite azioni di accompagnamento e sostegno economico, l’obiettivo dell’iniziativa è quello di promuovere attività di formazione ed educazione per il risparmio energetico e la sostenibilità ambientale e, infine, di rendicontare e analizzare il tessuto sociale coinvolto con un’attenta attività di monitoraggio e con la stesura di un report che determini l’impatto del progetto.

 

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Marco Patuano, Presidente del Banco dell’energia, ha commentato così l’avvio della partnership: “Le attività sul territorio sono preziose perché ci permettono di avere contezza della portata reale della povertà energetica e ci consentono di agire in maniera puntuale nei contesti di forte disagio in base alle loro specificità. Con l’iniziativa “Condomini solidali” estendiamo ulteriormente il nostro raggio d’azione sul sostegno solidale a persone che versano in condizioni di fragilità economica e sociale”.

Banco dell’energia è l’ente promotore dell’iniziativa e curerà il coordinamento dell’intero progetto, occupandosi inoltre di analizzare i dati raccolti in forma anonima e di elaborare un report che fornirà una panoramica del contesto in cui il progetto si è sviluppato. La Comunità di Sant’Egidio, invece, si occuperà materialmente del pagamento delle utenze e individuerà i beneficiari dell’iniziativa.

“Le iniziative della Comunità di Sant’Egidio sono da sempre rivolte al sostegno dei soggetti fragili e a rischio di emarginazione sociale. Per questo, è per noi motivo di grande soddisfazione poter mettere in campo un progetto come quello di “Condomini Solidali” – così ha commentato l’Amministratore della Comunità di Sant’EgidioStefano Carmenati – che permette, oltre che di sostenere concretamente le iniziative di Cohousing solidale, anche di garantire condizioni di vita dignitose ad alcune fasce di popolazione storicamente più vulnerabili e maggiormente esposte a situazioni di disagio sociale, come gli anziani, i disabili e i richiedenti asilo. Ci auguriamo che questo progetto possa essere sostenuto anche nei prossimi anni, e sia il primo di una lunga serie di interventi che vadano verso questa direzione”.

“Come JTI Italia siamo davvero orgogliosi di offrire il nostro contributo per una causa così importante – ha concluso Didier EllenaPresidente e Amministratore Delegato di JTI Italia – Siamo consapevoli di come gli ultimi anni siano stati complessi per le famiglie italiane; molte persone, a causa delle crescenti difficoltà economiche, hanno dovuto rinunciare persino ai propri bisogni primari, come alimentarsi in maniera corretta o riscaldare la propria abitazione. Per noi la sostenibilità sociale rappresenta uno dei pilastri fondamentali su cui basiamo ogni attività e, da sempre, cerchiamo di essere parte attiva nelle comunità in cui operiamo: per questo siamo fieri di essere al fianco di Banco dell’energia e Comunità di Sant’Egidio con progetti così importanti che possono davvero fare la differenza nelle vite di chi ne ha più bisogno”.

 

La situazione dei residenti nella città di Roma, infatti, si inserisce in un contesto di forte precarietà economica e sociale che investe l’intero Paese. L’8,5% dei nuclei familiari in Italia non può permettersi di sostenere i costi per il riscaldamento della propria casa, per oltre 2 milioni di famiglie in povertà energetica: questi i dati riportati dall’OIPE (Osservatorio Italiano sulla Povertà Energetica) che descrivono lo scenario seguito all’innalzamento dei costi dell’energia, aumentati rispettivamente del 35% e del 41% per elettricità e gas; cifre allarmanti se si considerano i 4 milioni di euro erogati dal governo per contrastare il fenomeno. Per la Fondazione Utilitatis, si tratta addirittura del 13% delle famiglie, pari a 3,5 milioni di persone. Senza contare i cittadini a rischio povertà ed esclusione sociale, che per il rapporto COOP 2022 sono ben 19,5 milioni.

In uno scenario preoccupante per molti, che guardano con timore al proprio futuro (il 74% dei rispondenti a una recente indagine di SWG si aspetta di incontrare difficoltà nel pagamento delle bollette nei prossimi mesi), il Banco dell’energia punta ad assumersi e a promuovere – anche grazie alla collaborazione di realtà come JTI Italia – un ruolo attivo di responsabilità sociale sui territori, quanto mai determinante per contrastare le condizioni di vulnerabilità che espongono al rischio povertà diverse migliaia di persone nella sola capitale.

Autonomia differenziata e dimensionamento rappresentano una minaccia per l'istruzione democratica. A farne le spese soprattutto il Sud e le aree più fragili

nuovo evento caricato da ffiorani il 27-08-2013 009 USCITA DI SCUOLA

FOTO DI © REMO CASILLI/AG.SINTESI

 

Una doppia tenaglia si stringe sulla scuola: dimensionamento e autonomia differenziata. Se il primo è legge – nel senso che la nuova norma che alza il numero minimo di studenti e studentesse necessario per tenere aperto un plesso scolastico è contenuta nella Finanziaria – la seconda è ancora allo stato di proposta (il ddl Calderoli), ma le pressioni per una sua approvazione aumentano nell'esecutivo.

Come è stato ampiamente analizzato l'autonomia differenziata porterebbe alla nascita di tanti sistemi scolastici diversi, minando l’universalità della scuola pubblica e trasformandola in un sistema disuguale, con scuole e studenti di serie A e di serie B e percorsi formativi diversi che penalizzerebbe soprattutto il Sud.

Mezzogiorno penalizzato

Oggi in Italia la dispersione scolastica nazionale media è del 12,7%, in Sicilia raggiunge il 21,1% e in Puglia il 17,6%, mentre in Lombardia è all’11,3%, contro l’obiettivo europeo del 9% entro il 2030.

Secondo lo Svimez uno studente e una studentessa del Sud stanno in classe 100 ore in meno all’anno e i giovani tra i 15 e 24 anni fermi alla licenza media sono il 20 per cento, 5 punti sopra la media nazionale e 9 rispetto a quella europea. Inoltre, come risulta dall’ultimo rapporto pubblicato da Save The Children la Sicilia è al primo posto per dispersione scolastica a livello nazionale, con una media pari al 21,1% e con punte del 25%. 

Nel video che pubblichiamo subito sotto Graziamaria Pistorino, segretaria nazionale Flc Cgil ci spiega perché l’autonomia differenziata aumenterebbe ulteriormente le diseguaglianze tra i territori.

 

 GUARDA IL VIDEO DI GRAZIAMARIA PASTORINO

Il tema è stato al centro di molti interventi anche all'ultimo congresso della Flc Cgil che si è svolto a Perugia: due insegnanti, da Nord a Sud, mostrano in questo video perché l'autonomia differenziata aumenterebbe le diseguaglianze.

Proprio per scongiurare questa iniziativa il Coordinamento per la democrazia costituzionale – insieme a Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola Rua, Snals Confsal e Gilda Unams – ha avviato una raccolta di firme per una Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare di modifica di parte degli articoli 116 e 117 della Costituzione – contenuti nel titolo V della Carta – che ripartiscono le diverse competenze tra Stato e Regioni tra esclusive e concorrenti.

I diritti dei lavoratori

Rispetto a questa operazione, spiega Pistorino, “la prima emergenza che ci si pone come sindacato è quella di difendere e rilanciare il diritto universale all'istruzione. Differenziare i programmi su base regionale, assumere localmente insegnanti e dirigenti, magari pagandoli diversamente, configurerebbe un diritto allo studio ancora più diseguale di quello attuale”.

Fuori dai tecnicismi la proposta del Coordinamento punta a introdurre strumenti normativi per un sistema di equilibri tra Stato e Regioni in cui la governance resti in mano allo Stato, che deve essere il garante dell’interesse generale. Un tema come quello dell'istruzione – il cui obiettivo primario deve essere quello di formare i cittadini e le cittadine di domani – non può essere lasciato nelle mani di 21 "staterelli" regionali.

Secondo la proposta, la potestà legislativa sarebbe esclusivamente statale (e non più concorrente con le Regioni) in materie strategiche per l'unità del paese, dall'istruzione, appunto, alla salute e al sistema sanitario nazionale, a porti, aeroporti, autostrade, ferrovie, reti di comunicazione. Si tratta, insomma, di una grande battaglia di civiltà democratica.

La scure del dimensionamento

Come si diceva, è molto pericoloso l'incrocio con il dimensionamento scolastico. L’articolo 99 della legge di bilancio prevede infatti una nuova ondata di accorpamenti tra istituti scolastici che, attacca la Flc Cgil, “potrà portare alla scomparsa, già nei prossimi due anni, di oltre 700 unità scolastiche”.

A questo “risultato” si arriva innalzando gli attuali parametri minimi per la costituzione delle autonomie scolastiche che passano da 600 a 900-1.000 alunni. In questo modo verranno, tra l'altro, ridotti i posti di organico di oltre 1.400 dirigenti scolastici e Dsga, un taglio che, proiettato al 2031-2032, significa il passaggio da 8.136 a 6.885 istituti.

Come ha commentato il segretario generale della Flc Cgil, Francesco Sinopoli, “si configura nei fatti come un vero e proprio taglio che ancora una volta andrà a colpire le Regioni e i territori più deboli. Invece di potenziarle e sostenerle le affossano, senza investimenti e con una riduzione delle risorse”.

Anche in questo caso la scure colpisce soprattutto al Sud, la Sicilia ad esempio perderà 109 di scuole ma anche il destino della Sardegna, soprattutto nelle sue aree interne, non è dei migliori. Per questo la Flc regionale ha chiamato a raccolta sardi illustri – da Paolo Fresu a Gianfranco Zola – per un appello che si speri non passi inosservato: "Non chiudete le nostre scuole". In Sardegna come nel resto del paese

Intervistato sul quotidiano La Stampa, il segretario generale della Cgil chiede al governo un radicale cambio di passo su salari, sanità, contratti e fisco. “La mobilitazione è solo all'inizio”

 Foto: Marco Merlini 

Il governo sbaglia e non ascolta. La situazione economica è insostenibile, la sanità è al collasso. Con il Pnrr l'Italia perde la faccia. Bisogna rinnovare i contratti e fare le riforme. Sennò? Maurizio Landini risponde secco che la mobilitazione in tre tappe di maggio "è solo l'inizio".

"Non ci fermeremo", assicura il segretario della Cgil in un'intervista a La Stampa, spiegando di voler coinvolgere tutte le associazioni dei lavoratori europei in una grande azione di protesta. "Non funzionano più i piccoli modelli - ammette - Funzionano le pratiche e l'esperienza collettiva". I dati dell'Istat confermano che “la situazione non è sostenibile. Mentre scendono i prezzi dell'energia diventano sempre più cari i beni di prima necessità. Così si taglieggiano i salari perché diminuisce il potere di acquisto. Allo stesso tempo, salgono i profitti delle imprese e calano gli investimenti. Non è accettabile!".

“È sempre più urgente – incalza Landini - aumentare le retribuzioni, rinnovando i contratti e intervenendo sul fisco, con una riforma costruita sulla progressività diversamente dalla delega presentata dal governo. Non si può trascurare che la sanità pubblica è al collasso e il diritto alla salute non è più garantito. Chiediamo investimenti, assunzioni e nuove politiche sociali ed economiche". Per il leader della Cgil, "non c'è più tempo per aspettare. Il governo deve cambiare direzione, ascoltare i bisogni del lavoro e quindi fare accordi con noi”.

Allo stesso modo, prosegue il numero uno di Corso Italia, “è importante che le imprese contrattino e portino risultati. È la loro responsabilità, mentre c'è una guerra, dopo la pandemia, e con l'inflazione che corre. Noi non siamo il Parlamento. Ma non per questo siamo disposti ad accettare il peggioramento che è sotto gli occhi di tutti”. La manovra di dicembre ed i provvedimenti a essa collegati “aggravano i problemi reali. È sbagliato pensare che lasciando fare al mercato e alle imprese tutto vada posto da solo. Al governo chiediamo di non stare a guardare e di cambiare marcia, di parlare con noi e mettere i soldi per rinnovare nel pubblico".

Quindi Landini parla della mobilitazione di maggio: "Ogni settimana una grande manifestazione: Bologna (6 maggio) Milano (13) e Napoli (20). Vogliamo risultati, non è un processo fine a sé stesso. È chiaro che non ci fermeremo il 20 maggio, andremo avanti sinché non avremo ottenuto quello che chiediamo"

Vannini e Filippi, Fp Cgil: gli interventi approvati dal governo proprio non vanno. I sindacati avviano una fase di mobilitazione

 Foto: Marco Merlini

alle Alpi alla Sicilia si susseguono iniziative, manifestazioni e prese di posizione contro lo scempio della sanità pubblica. È sotto gli occhi di tutti che il sistema è al collasso, dalle prestazioni sospese per la pandemia e mai riprese, alle liste di attesa interminabili fino alla fuga di medici e infermieri. E il governo è silente, al più mette in campo provvedimenti controproducenti.

Il decreto bollette

Perché interventi sulla sanità siano stati inseriti in un provvedimento che si occupa di rinnovare sconti per il caro energia non è dato sapersi. Forse siccome il governo dei “pronti” non ha le idee ben chiare su come affrontare in maniera organica e strutturata i singoli problemi, mano a mano che si trova un provvedimento in arrivo in consiglio dei Ministri vi inserisce “pezze a colore” per tappare falle. Ed ecco che mentre si parla di caro energia si introduce la liberalizzazione delle professioni sanitarie o si sbloccano risorse per incrementare il salario del personale dei pronto soccorso, che però erano già previste.

Infermieri robot

Sono pochi, soprattutto poche visto che quella dell’infermiere è una professione a fortissima predominanza femminile, e poco vengono pagate, soprattutto per loro non esiste o quasi nessuna prospettiva di carriera. Qual è la soluzione individuata dal ministro Schillaci e introdotta nell’indistinto del decreto bollette? La possibilità di smontare dal turno di notte in ospedale e andare a lavorare in una clinica o in una Rsa. E l’indispensabile riposo? E la direttiva europea recepita dal nostro Paese su orario di lavoro e pause in sanità? Questi sconosciuti. E la tutela della salute di lavoratori e lavoratrici, ma anche dei pazienti? Immolati sull’altare della necessità di personale da un lato, e della necessità di aumentare il proprio reddito dall’altro. A Napoli si direbbe “faccimme ammuina”.

 

Proprio non va

Certo il testo prevede che questa liberalizzazione rimanga in vigore fino al 2025, certo mancano ancora chiarimenti su come sarà regolamentato, ma il giudizio del segretario nazionale Fp Cgil Michele Vannini è netto: “Proprio non va, assomiglia a uno specchietto per le allodole. Si dice a lavoratori e lavoratrici, non ti do un euro di aumento visto che le risorse per il rinnovo dei contratti pubblici non sono appostate in Legge di bilancio, non assumo, ma ti concedo di fare attività privata. Che tradotto vuol dire che infermieri e ostetriche, finito il loro orario di lavoro più gli straordinari, potranno incrementare il proprio reddito prestando servizio in strutture private”. Insomma, è una risposta sbagliata a due problemi veri, da un lato quello della mancanza di personale che certo non si risolve “facendo lavorare di più” il personale in servizio, dall’altro il problema del mancato rinnovo dei contratti e dell’aumento dei salari.

Avvolto nelle nebbie

Ma quale sarà il meccanismo con cui questa liberalizzazione funzionerà non è dato ancora sapere. E anche dire che si equipara la possibilità di fare attività libero professionale tra medici e professioni sanitarie non è esattamente vero. Aggiunge il dirigente sindacale: “I medici che decidono di non fare attività privata hanno un riconoscimento in busta paga. Che per infermiere e infermieri, invece, non è previsto”. Quindi mentre per i dottori si incentiva economicamente la scelta di dedicarsi solo all’attività nel pubblico, per le altre professioni sanitarie implicitamente si spinge verso l’attività anche nel privato.

Qualità e sicurezza?

Chi di noi si affiderebbe consapevolmente alle cure di un’infermiera o di un’ostetrica che invece di riposare dopo un turno di notte entra nella sala operatoria di una clinica privata o nella terapia intensiva o nel pronto soccorso di una struttura convenzionata? E che rischi corre la stessa professionista? Qualcuno ha calcolato come inciderà questo iper-lavoro sulla sua salute? Domande prive di risposta come privo di risposta è l’interrogativo se chi ha scritto la norma abbia pensato anche a questi risvolti della liberalizzazione.

 

Foto: Andrea Filippi

Anche i medici non ci stanno

Le aspettative dei medici, ancorché per un decreto dedicato ad altro, erano giustamente alte, viste le promesse che arrivavano dal ministero della Salute. E invece sostanzialmente nulla. “La crisi della sanità pubblica - afferma Andrea Filippi, responsabile medici della Fp Cgil - richiede investimenti congrui e spendibili oggi, mentre il disagio dei professionisti al suo interno necessita di provvedimenti strutturali, e non cosmetici, incluso l’utilizzo della leva retributiva nei loro confronti, senza eccezioni, perché tutti hanno garantito i Lea a spese della qualità della loro vita, delle loro ferie e dell’abuso del loro orario di lavoro. Nonostante tutto e nelle condizioni di lavoro peggiori dell’ultimo decennio”.

E non è certo il tentativo di limitare l’utilizzo dei medici a gettone che risolve la situazione. Né l’anticipo del finanziamento per integrare la retribuzione dei medici di pronto soccorso, certamente positivo, può essere considerato esaustivo di tutto ciò che serve.

Cosa manca

Ricorda ancora Filippi: “Quello approvato è un provvedimento monco, insomma, che, per quanto contenga risposte ad alcune richieste delle organizzazioni sindacali, come la procedibilità d’ufficio per chi aggredisce gli operatori sanitari, fallisce l’obiettivo di sollevare un servizio sanitario nazionale in ginocchio e arrestare la fuga di medici, dirigenti sanitari e veterinari, delusi e insoddisfatti dal Ssn. Che non saranno di certo incentivati a rimanere nella sanità pubblica da una sanatoria per l’accesso ai ruoli della 'area critica' senza specializzazione, o da un incremento della retribuzione oraria delle prestazioni aggiuntive in PS, che sarà ampiamente tassato, oppure da incarichi libero-professionali per gli specializzandi a prezzo da saldi di stagione. Tantomeno il giro di vite arresterà il reclutamento dei gettonisti, che finisce anche per essere legittimato”.

La mobilitazione

Bisogna fare in modo che le cose cambino. Questa è la ragione che ha portato l’Intersindacale medici a prendere la decisione di avviare una fase di mobilitazione scandita da assemblee e incontri con associazioni di cittadini e organizzazioni sociali per arrivare, entro maggio, agli stati generali della salute. Manifestazioni fino allo sciopero, se servirà. Sostengono infatti: “È ormai il momento di pretendere la salvaguardia di un servizio di cura pubblico e universale, per il quale non basta la sola voce del ministro della Salute, serve quella dei cittadini, dei sindaci, delle Regioni, delle forze sociali, delle istituzioni professionali, alle quali ci rivolgiamo per salvare l’articolo 32 della nostra Costituzione”

NUOVA FINANZA PUBBLICA. Due proposte di iniziativa popolare per "riprendersi il comune"

Nuova Finanza Pubblica 

 

Grande fibrillazione nel mondo politico-istituzionale per l’arrivo dall’Europa del bastimento carico di miliardi del Pnrr.

Ricordando che nessun Babbo Natale ne è al comando e che si tratta di prestiti gravati da centinaia di condizionalità, stiamo assistendo alla scoperta dell’acqua calda: la gran parte dei Comuni non è in grado di farvi fronte.

Non esattamente un evento imprevedibile, visto che per trenta anni le cosiddette politiche di riduzione del debito pubblico sono state scaricate tutte sui Comuni, dai quali sono stati drenati oltre 14 miliardi, nonostante il loro concorso alla formazione del debito pubblico nazionale non superi l’1,5%.

Oggi un comune su cinque si trova in difficoltà finanziaria e, date le diseguaglianze territoriali, questo rapporto sale a sei su dieci in Calabria e a quattro su dieci nel Lazio, solo per fare due esempi. Non male come risultato di decenni di politiche che avevano l’unico obiettivo-quasi compulsivo- del risanamento dei bilanci.

Non solo. I Comuni sono stati depauperati di personale (-27% negli ultimi venti anni), di energie creative (oltre il 65% di chi lavora nei Comuni ha più di 50 anni), di conoscenze (le esternalizzazioni e le privatizzazioni cedono saperi dal pubblico al mercato) e di riconoscimento sociale.

Oggi i Comuni rischiano di non avere futuro, perché sono state sottratte loro tutte le politiche strategiche: affidando al mercato la gestione dei beni comuni, dei servizi pubblici locali, dei servizi sociali e culturali, la loro funzione non va oltre la gestione affannosa di “quel che c’è”, mentre la democrazia di prossimità è progressivamente scivolata nel puro disciplinamento sociale.

Ma cambiare si può: ce lo dicono le due proposte di legge d’iniziativa popolare promosse dalla campagna Riprendiamoci il Comune, che intervengono esattamente sui nodi sistemici che impediscono ai Comuni di esercitare la loro funzione pubblica e sociale e alle comunità territoriali di riappropriarsi dei beni comuni, della ricchezza collettiva e della democrazia di prossimità.

La prima proposta di legge si prefigge una profonda riforma della finanza locale, inserendo, oltre all’equilibrio finanziario, il pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere, eliminando tutte le norme che oggi impediscono l’assunzione del personale, reinternalizzando i servizi pubblici a partire dall’acqua, difendendo suolo, territorio, beni comuni e patrimonio pubblico e dando alle comunità territoriali strumenti di autogoverno partecipativo.

La seconda proposta di legge si prefigge la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, trasformandola in ente di diritto pubblico decentrato territorialmente e mettendo a disposizione dei Comuni e delle comunità territoriali le ingentissime risorse del risparmio postale (280miliardi) come forma di finanziamento a tasso agevolato per gli investimenti dei Comuni decisi attraverso percorsi di partecipazione della comunità territoriale.

Si tratta di decidere in quali comunità territoriali vogliamo vivere: se nei luoghi anonimi dell’estrazione di rendita finanziaria e delle privatizzazioni, abitati da individui brulicanti e rancorosi, o in territori che si riconoscano come comunità di cura capaci di lotta, di partecipazione e di trasformazione.

Si tratta di scegliere se inseguire il folle disegno dell’autonomia regionale differenziata, che frantuma il Paese e ne esaspera le disuguaglianze, o costruire un altro modello sociale, ecologico e relazionale, che rimetta al centro la democrazia di prossimità e una vita degna per tutte e tutti

Dura presa di posizione di Cdr e Fnsi: "Il progetto editoriale dell'editore Romeo ha lasciato fuori le giornaliste e i giornalisti che hanno vissuto sulla loro pelle l'epilogo della testata"

a dolorosa vicenda occupazionale dei giornalisti dell'Unità non è conclusa. Lo ricordiamo anche a Matteo Renzi che per un anno si cimenterà come direttore de Il Riformista". Lo affermano, in una nota, il Comitato di redazione dell'Unità e la segretaria generale della Fnsi, Alessandra Costante.

"Parliamo – proseguono – dello stesso Renzi segretario del Partito Democratico nel periodo più buio per L'Unità: dall'avvento degli editori Pessina-Stefanelli, all'uscita del Pd dalla società editoriale, alla chiusura del quotidiano. La storia più recente ha raccontato la procedura fallimentare a carico degli editori Pessina-Stefanelli e l'acquisto all'incanto della testata fondata da Antonio Gramsci da parte dell'editore Alfredo Romeo, già proprietario de Il Riformista. "La vera notizia è il ritorno in edicola dell'Unità", dice Renzi, ma dimentica che il nuovo progetto editoriale ha lasciato fuori le giornaliste e i giornalisti dell'Unità che hanno vissuto sulla loro pelle l'epilogo della testata. Un'operazione, lo ribadiamo, che si manifesta non come un'opportunità per il pluralismo dell'informazione, recuperando una testata fondamentale per la storia democratica del Paese con il suo patrimonio professionale, ma come una mera speculazione editoriale".

"È la prima volta – concludono Fnsi e Cdr – che un'intera redazione, quella de Il Riformista scriverà le pagine della nuova L'Unità mentre si darà vita a una nuova redazione che sarà diretta da Matteo Renzi. All'editore Alfredo Romeo e al direttore Piero Sansonetti ricordiamo con forza che la vicenda dell'Unità coincide con la storia di 17 giornalisti e 4 poligrafici licenziati dopo il fallimento. Il tema occupazionale e professionale resta intatto"