L'osservatorio Mil€x fa i conti e valuta attorno al miliardo di euro le spese complessive dell'aiuto militare dell'Italia all'Ucraina
Raggiunge quasi il miliardo di euro il costo complessivo dell’aiuto militare all’Ucraina da parte dell'Italia. Sono le stime dell'Osservatorio Mil€x, che definisce quindi poco fondate le dichiarazioni in merito rese dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Che, davanti al Parlamento, ha sostenuto che l’invio di armi all’Ucraina non costituirebbe un costo per le casse pubbliche e quindi una sottrazione di risorse al bilancio dello Stato.
Parole smentite, spiega Mil€x, “dalla natura del meccanismo di sostegno militare implementato già poche settimane dopo l’invasione russa”, ma che assumono rilevanza politica e sul fronte della valutazione delle cifre, anche a fronte dell’imposizione europea di una rivalutazione del costo complessivo degli aiuti militari.
Mill€x illustra inoltre il meccanismo con il quale si decide nel nostro Paese l'invio di armi: si procede per decreto legge, quindi, attraverso i decreti interministeriali, sono individuati materiali di armamento in surplus delle Forze Armate italiane, che vengono quindi spediti in Ucraina. Non vi è quindi una spesa elevata immediata, ma i costi sono quelli logistici di spedizione e di successivo ripristino delle scorte. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha infatti dichiarato “esplicitamente lo scorso 25 gennaio 2023, durante un’audizione parlamentare, che l’Italia dovrà comprare di nuovo le armi che ha spedito gratuitamente all’Ucraina”.
L’Osservatorio sulle spese militari ragiona dati alla mano, nonostante la secretazione dei dettagli non consenta una valutazione precisa e completamente certa, riservandosi quindi un aggiornamento dei dati stessi nel caso in cui il governo rendesse noti ulteriori elementi e precisando che le nuove stime (oltre 950 milioni previsti) derivano dagli ultimi annunci in sede europea relativi all’aumento dei fondi dell’European Peace Facility destinati al Governo di Zelensky, oltre che dalle valutazioni relative ai primi sei invii di armamenti italiani.
A sostenere lo sforzo degli Stati è quindi l’European Peace Facility, che procede ai rimborsi in base alle stime del controvalore degli armamenti inviati. Nel contempo, però, l’Epf è finanziato dai contributi annuali degli Stati membri dell’Unione, stabiliti in base a calcoli sul reddito nazionale lordo, così che la contribuzione dell’Italia è di circa il 12,8% del totale.
Il rimborso, continua a spiegare l’Osservatorio, “non potrà però coprire integralmente le richiese proprio per l’enorme invio di sistemi d’arma effettuato nell’ultimo anno: attualmente si prevede una restituzione attorno al 50% del valore spedito (ma tale quota potrebbe scendere ulteriormente in quanto secondo diversi retroscena molti Stati starebbero gonfiando le cifre relative alle proprie spedizioni)”.
Il costo dell’invio di armi, quindi, non è direttamente legato al ripristino delle scorte, ma è rilevante. Fatti i debiti calcoli con i dati del controvalore, dei rimborsi eventuali e della contribuzione dell’Italia all’Epf, Mil€x arriva a calcolare "a oggi un costo già sicuro di 838 milioni di euro e un costo in prospettiva di oltre 950 milioni di euro. La differenza deriva dal fatto che al momento l’Italia non ha ancora formalizzato la propria partecipazione alla seconda tranche dei programmi di nuovo munizionamento, pur se è probabile che lo farà, così come è abbastanza probabile che debba comunque pagare la propria quota”
La premier, nel suo intervento al congresso della Cgil, ha difeso la riforma fiscale. Le rispondiamo punto per punto
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, parlando alla platea del XIX congresso della Cgil, si è soffermata lungamente sulla legge delega per la riforma fiscale, provando a disegnarla come una riforma importante e positiva per i lavoratori e i pensionati. La realtà è invece che tale legge delinea un sistema fiscale estremamente frammentato, che individua una tassazione diversa a seconda di una molteplicità di fattori. Sembra proprio che una cedolare, o una flat tax, non la si voglia negare a nessuno. Pensavamo fossero già troppe, ebbene questa delega ne aggiunge di ulteriori. Di seguito il fact checking all’intervento di Giorgia Meloni.
A mio avviso (la legge delega fiscale) è stata un po' frettolosamente bocciata da alcuni. Noi lavoriamo per consegnare agli italiani una riforma complessiva del sistema fiscale che migliori l'efficienza della struttura delle imposte, che riduca il carico fiscale, che contrasti adeguatamente l'evasione fiscale con un tax gap che è stabilmente intorno ai 100 miliardi di euro.
L’evasione fiscale, storicamente, diminuisce quando
Leggi tutto: Tasse: presidente Meloni, se permette, un po' di chiarezza - di Cristian Perniciano
Anche Russi, come Imola, Bologna, Milano, Parigi, Düsserdolf e tantissime altre città piccole e grandi, si è attrezzata con le cosiddette “case avanzate”.
Possibile che molti fruitori delle strade di Russi non siano nemmeno a conoscenza della loro definizione tecnica. Resta il fatto che, seppure le case avanzate siano state introdotte a Russi da non molto tempo, si direbbero già un elemento urbano usuale, riconosciuto e rispettato nel modo più corretto sia dagli automobilisti,
che dai ciclisti.
In fondo, si tratta un intervento tanto semplice ed economico,
quanto efficace.
Ma perché andare proprio a Russi, in bicicletta, per fotografarle?
Perché, per chi vive e si muove a Faenza ed è venuto a conoscenza di questa soluzione vivamente consigliata nel Piano Generale della Mobilità Ciclistica urbana ed extraurbana 2022-2024 del Ministero delle infrastrutture e dalla mobilità sostenibili, Russi è la località più vicina nella quale se ne può constatare l’utilizzo e l’impatto sulla viabilità. Faenza ne è, infatti, sprovvista e non si intravedono nel recente futuro interventi in tale direzione. Perché le si ritiene di difficoltosa realizzazione? Oppure perché si valuta con preoccupazione l’introduzione di una innovazione coinvolgente sia gli automobilisti che i ciclisti? Quanti incidenti, nel conflittuale utilizzo delle sede stradale tra automobilisti e ciclisti, immaginiamo si chiedano i decisori, potranno verificarsi prima che il sistema della case avanzate, peraltro ideato proprio per rendere più sicuro il muoversi dei ciclisti in città, diventi un elemento usuale per tutti?
Basterebbe andare a Russi, una qualsiasi mattina, e a chiunque capiterebbe di assistere ad una scena, simile a quella che abbiamo filmato, per capire che non esiste un’idea più semplice e più efficace delle “case avanzate”. Bene, occorre aggiungere che i protagonisti del breve video non sono due ciclisti di Russi ormai navigati nel rispetto di questo intervento urbanistico così radicale, ma due ciclisti faentini alla loro prima esperienza con una casa avanzata.
Verrebbe da dire: avanzata Russi e immobile, quanto meno, Faenza.
Presentata durante l'assise la grande inchiesta voluta dalla Cgil su condizioni e aspettative di lavoratrici e lavoratori
Guarda il video di presentazione
Aumento dei salari, difesa e aumento dell’occupazione, contrasto alla precarietà, salvaguardia del ruolo dei servizi pubblici (sanità, scuola, trasporti), lotta alle diseguaglianze e alla povertà. Sono queste le priorità su cui i lavoratori chiedono al sindacato di intervenire quali risultano dalla grande indagine nazionale realizzata dalla Cgil (“Inchiesta nazionale sulle condizioni e le aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori”) con la collaborazione della Fondazione Di Vittorio e che è stata presentata nel corso del XIX congresso della Confederazione che si sta svolgendo a Rimini.
Il mondo del lavoro è attraversato da profonde trasformazioni, dovute agli impatti della pandemia, alla diffusione dirompente di innovazioni tecnologiche e digitali, alla trasformazione ambientale ed energetica, a un susseguirsi di crisi economiche e sociali che hanno portato a continui cambiamenti, nei settori pubblici e privati.
Proprio per questo la Cgil ha deciso, partendo dal punto di vista delle lavoratrici e dei lavoratori, di verificare le loro condizioni, le aspettative e, appunto, le conseguenti priorità per l’azione sindacale.
L’Inchiesta nazionale è stata condotta in collaborazione con tutte le strutture della Confederazione, avvalendosi di un ampio gruppo di ricerca interdisciplinare che ha operato con un approccio inclusivo, partecipativo e collaborativo, utilizzando un unico questionario, sia tramite web che in forma cartacea, intercettando chiunque volesse rispondere: lavoratrici e lavoratori con qualsiasi tipologia contrattuale, in ogni settore e dimensione di impresa, considerando anche chi era disoccupato.
Hanno risposto al questionario più di 50.000 persone e quelli ritenuti validi per le analisi (cioè completi in tutte le risposte ritenute fondamentali) sono 31.014. A questi vanno aggiunti circa 1.500 questionari compilati da disoccupati, ancora da analizzare.
“Si tratta di un risultato molto importante che segnala la volontà di partecipare alle scelte sindacali esprimendo la propria opinione, non solo rispondendo alle domande del questionario ma anche con circa 20.000 persone che hanno deciso di esprimere in aggiunta un loro libero commento”, spiegano alla Fondazione Di Vittorio.
I risultati consentono di effettuare una lettura del mondo del lavoro approfondita e articolata, che aiuta a comprendere la complessità delle condizioni e le sfide che devono essere affrontate dai lavoratori tutti e dal sindacato. Oltre a quelle indicate sopra emerge dalle risposte la rilevanza delle differenze di genere; i percorsi della precarietà; le condizioni di lavoro e le modalità in cui è organizzato; l’innovazione delle imprese e gli investimenti nella sostenibilità ambientale; la diffusione del lavoro da casa; i rischi per la salute psico-fisica; la condizione dei migranti; il ruolo e il rapporto con il sindacato; le aspettative sindacali su contrattazione, servizi e dialogo sociale.
“Questa prima analisi evidenzia e conferma come alcuni dei principali temi al centro del Congresso della Cgil, sono anche priorità nelle risposte al questionario”, spiegano i ricercatori.
Tante questioni con un ineludibile elemento comune: la necessità di ricomposizione del mondo del lavoro e dell’azione sindacale puntando sia sul ruolo fondamentale che viene assegnato al tema dei diritti che sulle tante specificità che caratterizzano il mondo del lavoro.
L'incontro tra governo e sindacati per illustrare la delega fiscale. Fracassi, Cgil: “Il giudizio non può che essere negativo”
GUARDA L'INTERVISTA A GIANNA FRACASSI
Come si può pensare di modificare le regole del fisco senza discuterne preventivamente con le organizzazioni che rappresentano chi quella imposta la versa? È questa la prima nota stonata di tutta questa vicenda che Cgil Cisl e Uil hanno sottolineato al ministro Giorgetti, al viceministro Leo e al sottosegretario Mantovano incontrati nella Sala Verde di Palazzo Chigi. A meno di 48 ore da quando la delega fiscale sarà approvata in Consiglio dei ministri. Quasi il 90% dei contribuenti che pagano l’Irpef sono lavoratori dipendenti (22 milioni) e pensionati (14,5 milioni), ma con i sindacati nessun confronto, solo una informativa. “Questo proprio non va”, ha affermato Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della Cgil uscendo dall’incontro.
Oltre al metodo, che peraltro è quello seguito dall’esecutivo con tenacia, non un confronto nel merito ma un’illustrazione di decisione già prese, è l’idea che sottende alla delega che proprio non convince Corso d’Italia: “Le legge, pare, descrive le tasse come una sorta di male da evitare. Invece bisogna sempre tener presente che le imposte sono il mezzo attraverso cui si raccolgono le risorse per pagare il welfare pubblico, la sanità, l’istruzione, gli investimenti pubblici, a livello nazionale come locale”.
Insomma, basta leggere la nostra Costituzione – quella su cui Meloni e ministri hanno giurato - per rendersene conto: il fisco dovrebbe essere lo strumento per distribuire la ricchezza prodotta dal Paese attraverso investimenti, lavoro, welfare e servizi pubblici, così facendo contribuendo a ridurre le diseguaglianze e generare crescita.
In origine, con la legge quadro del 1974, le aliquote erano 32, oggi sono quattro. Il governo vorrebbe portarle a tre, ciò vuol dire: “che ridurre il numero di aliquote significa non diversificare e ridurre la progressività. L’obiettivo dichiarato è la flat tax, l’aliquota unica per tutti: che significa non riconoscere che lo Stato debba chiedere imposte diverse perché diversa è la condizione e diversa è quella che la nostra Costituzione chiama la “capacità contributiva” tra chi guadagna 10.000 euro e chi ne guadagna 40.000, come è diversa quella di chi guadagna 40.000 da chi ne guadagna 100.000, 150.000 o milioni. È quella che sia chiama equità verticale”.
C’è un problema in più: a parità di reddito, tutti e tutte dovrebbero pagare le stesse tasse. Già oggi non è così, il reddito quello da lavoro dipendente e da pensione viene tassato di più di quello frutto di rendite o lavoro autonomo.
Ovvero detrazioni e deduzioni. Secondo gli estensori della delega riducendo e disboscando queste si garantirebbe progressività. Non solo questa affermazione è tutta da verificare, secondo la Cgil, perché se si riducono le detrazioni delle spese sanitarie o di quelle per l’istruzione si fa peggio. Dice Fracassi: “Se le tax expenditure vanno ridotte, tale taglio va effettuato sugli incentivi alle imprese, che dal 2015 a oggi hanno cubato quasi 200 miliardi con risultati molto scarsi”.
Certo non le imprese. Secondo la delega, l’Ires – l’imposta sui profitti delle imprese – sarà ridotta, e l’Irap, quella con cui si finanzia il servizio sanitario regionale, sarà abolita. Come si vede torna la logica della riduzione del gettito – guarda caso a favore di imprese e non di lavoratori dipendenti e pensionati – che inevitabilmente si porterà dietro un ulteriore restringimento del perimetro pubblico dello Stato. Davvero il contrario di ciò che serve alla luce di quanto dovremmo aver imparato dalla pandemia.
Nel nostro Paese la gran parte dell’evasione è quella “piccola e diffusa”. Se si pensa di contrastarla facendo accordi preventivi con i contribuenti l’idea che si fa strada è quella di “tollerare” una quota strutturale di evasione. D’altra parte, questa è la direzione già percorsa dalla prima finanziaria targata Meloni
I primi a rischiare sono i dipendenti dei consorzi di bonifica, perché in alcune zone del nord non c'è più acqua. Ma è tutta l'agricoltura ad essere a rischio. Ne abbiamo parlato con Francesco Vincenzi, presidente Anbi
L'acqua crea lavoro, ma quando manca può anche toglierlo. È uno dei rischi concreti che l'Italia, in particolare il Nord, sta già vivendo e che nei prossimi mesi potrebbe diventare esplosivo. Ne è ben consapevole Francesco Vincenzi, presidente di Anbi, l'associazione nazionale Consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue, che con la mancanza di acqua in alcune zone del Paese (il Piemonte ad esempio) sta già facendo i conti. "Siamo molto preoccupati - dice - perché l''80% delle nostre produzioni agroalimentari arrivano da terreni irrigati. Se manca l'acqua gli effetti su tutto l'indotto possono essere drammatici".