REPORTAGE. Il famoso Iron Dome, la «cupola di ferro» che avrebbe dovuto salvare i civili da qualunque incursione aerea, e che sabato si è rivelata così imperfetta, ora funziona
Soldati israeliani verso il confine della Striscia di Gaza, nel sud di Israele - Ap
Rosmarino e ulivi separano le cartuccere e i bossoli nei kibbutz. All’ingresso il filo spinato e il picchetto armato. «Stampa? Parcheggiate sul ciglio e aspettate». È una giornata di preparativi nei pressi della Striscia di Gaza, le truppe israeliane sono pronte. Gli allarmi suonano più volte durante il giorno, segno che Hamas ha ancora missili da sparare. I soldati non ne possono più, aspettano da giorni il momento in cui saranno chiamati a intervenire. Negli accampamenti ormai si ammazza il tempo.
Capannelli di soldati passeggiano tra i mezzi corazzati a pochi km da Gaza, nei pressi del kibbutz di Zikim, il più vicino al confine. Ci spingiamo sulla marina e veniamo fermati da alcuni soldati delle forze speciali, non hanno il solito portamento sciatto delle truppe regolari, sono equipaggiati di tutto punto e presidiano una posizione strategica. Nei pressi di Zikim ieri dei miliziani di Hamas avrebbero provato un attacco dal mare finito nel sangue. Oggi la costa da Ashkelon al confine di Gaza è presidiata da una flottiglia con la bandiera bianca e blu e la stella di David. «Cosa cercate?» chiedono i militari minacciosi. «Niente, stampa». «Questo non è un posto dove potete stare, andate via!».
A 5 MINUTI, dall’alto dell’autostrada, fa bella mostra di sé un acquartieramento della fanteria meccanizzata. Corazzati, per lo più semoventi, gli stessi che l’Ucraina ha tanto richiesto agli alleati occidentali, schierati ordinatamente a file di 6, con le tende dei fanti a cornice. «È l’ultimo avvertimento!» urla un poliziotto che non abbiamo mai visto dall’altro lato della carreggiata, «non riprendete e andate via, ora!».
Nonostante il cowboy e il suo tono minaccioso i militari israeliani non si mostrano inquieti alla presenza dei giornalisti. In nessuna guerra un esercito schiererebbe un reparto intero di truppe e mezzi così in bella vista. Vuol dire che non hanno paura degli eventuali attacchi del nemico. Confidano nel fatto che le loro armi non possano raggiungerli o che ci sia uno scudo onnipresente in grado di proteggerli, il famoso Iron Dome, la cupola “di ferro” che avrebbe dovuto salvare i civili israeliani da qualsiasi incursione aerea e che sabato scorso si è rivelato invece così imperfetto. Ora funziona, ad Ashkelon nulla cade al suolo, così come a Sderot. Ma Sderot è una città fantasma. Hamas aveva intimato ai civili israeliani di evacuare entro domenica e i civili se ne sono andati. Ci sono solo militari in strada e qualche buca creata dai missili quassam. Piccole buche, più piccole di quelle create dai vecchi Grad russi in Donbass, ma non per questo meno letali. «Ieri qui ci sono stati due feriti e un morto», spiega Dan, un soldato falascià, ovvero di origine etiope, di stanza nella 969° brigata che ora presidia Sderot.
A POCA DISTANZA i soldati sono inquieti. Non ne possono più di aspettare. «State per attaccare?» chiediamo. Ridono, come a dire che non sarà una domanda falsamente innocente a svelare i loro piani. Ma iniziano a innervosirsi. Ogni tanto qualcuno mette della musica, si creano dei gruppi di militari che danzano in circolo con le braccia intrecciate sotto le spalle e urlano cori. Cosa dicono? «Niente…» risponde l’interprete. Cosa? «Che Gaza sarà distrutta». Online più tardi inizia a circolare un video in cui dei coloni israeliani ballano intonando «Gaza sarà un cimitero» e il coro sembra simile, ma l’interprete non conferma e noi non parliamo l’ebraico. Ad ogni modo, cosa aspettano non lo sappiamo. Se le pressioni dell’Onu, per cui «evacuare un milione e mezzo di persone dalla Striscia di Gaza è praticamente impossibile» o degli Usa, che tramite il presidente Biden hanno dichiarato che la loro priorità «è salvaguardare la vita dei civili palestinesi» hanno avuto effetto non possiamo saperlo. Ma appare improbabile.
NEL PRIMO POMERIGGIO il premier Netanyahu, l’odiato primo ministro «che ha permesso tutto ciò» come dicono in molti qui in Israele, visita le truppe nei pressi di Be’eri e di Kfar Azza, dove pochi giorni fa sono stati rinvenuti i corpi di diversi civili massacrati. Ai militari dice, come si vede in un video su Twitter: «Sta arrivando la prossima fase, siamo tutti pronti».
Secondo alcuni militari che abbiamo incontrato sarebbe indispensabile abbattere i palazzi di Gaza nord prima di entrare via terra. «Non possiamo permettere che la nostra fanteria venga bersagliata dai cecchini di Hamas» ci spiegano. Per questo starebbero bombardando da giorni e senza contare che con i palazzi crollano a pezzi vite su vite. «I terroristi vanno fermati» è lo slogan, ripetuto dovunque. Anche la religione dà forma questo conflitto, che è prima di tutto, come mi spiega Seth, «un conflitto di civiltà». Nei campi, ai check-point e persino alle stazioni di servizio si vedono soldati che si fanno aiutare a indossare i tefillin intorno al braccio oppure piccoli gruppi che pregano da un libretto con i versi della Torah distribuito prima della grande mobilitazione. Qualcuno ci dice, in via confidenziale, che l’attacco potrebbe essere combinato: reparti speciali dal mare e dal cielo (infatti una delle squadre incontrate da Netanyahu era proprio di paracadutisti) con l’obiettivo di distrarre i difensori e permettere ai carri armati di entrare agilmente dal nord della Striscia di Gaza. Dovunque andiamo non sembra che siano contemplate alternativa alla «punizione collettiva esemplare». Così deve essere, così sarà.
È L’ULTIMO FUOCO di Netanyahu, il premier che qui tutti accusano di non aver fatto abbastanza o di aver sbagliato tutto, a seconda dell’interlocutore. Un politico «deviato da 15 anni di potere che negli ultimi tempi ha passato più tempo a evitare il suo processo che a governare il Paese» dice David, un tenente colonnello. Ma «non è il momento». Un altro slogan. Non è il momento di protestare, nonostante i familiari dei rapiti che chiedono di «riportarli a casa» sfidando la pioggia serale di Tel Aviv. Non è il momento nonostante un anno di proteste contro una riforma che ha tramutato lo stato di Israele in una «democrazia vuota» in cui l’esecutivo vuole controllare la magistratura. Non è il momento nonostante 9 ostaggi siano morti nell’incursione dei reparti speciali israeliani di venerdì notte. Ora è il tempo del sangue
Commenta (0 Commenti)LA PIAZZA ROMANA. Il presidio si è presto trasformato in un corteo, sulle note di Dammi Falastini e di Bella Ciao un fiume di bandiere nere bianche e verdi
Manifestazione in solidarietà con il popolo palestinese a Roma - LaPresse
Cinquemila persone in Piazza Vittorio, a Roma, per il presidio, poi diventato corteo, pro Palestina. Tra le centinaia di bandiere palestinesi anche molte tunisine e del Marocco. «Ci vogliono far credere che la causa palestinese sia isolata, noi oggi stiamo dimostrando che le persone la pensano diversamente da come i media vorrebbero farci credere. E che soprattutto, nonostante i governi arabi e le classi governanti siano state comprate da Israele, la popolazione araba è solidale alla causa palestinese e lo sarà sempre. Che tu sia libico, che tu sia egiziano, che tu sia saudita, in qualsiasi parte del mondo arabo la popolazione sostiene la Palestina», dichiara Karim Thib del Movimento studenti palestinesi in Italia.
Tanta tristezza e grande rabbia negli occhi dei giovani e delle donne e dei bambini. Tra i vari striscioni che denunciano l’apartheid e l’occupazione israeliana anche tantissime foto delle vittime di questi giorni a Gaza. «Siamo qui per riaffermare un diritto che è quello a esistere e a esistere dignitosamente. Vogliamo ribaltare le menzogne che sono state dette in questi giorni. Il nostro diritto a esistere non ha mai provato a sopraffare nessuno ma solo a recuperare ciò che era nostro – continua Karim Thib – I palestinesi non sono Hamas e Hamas non sono i palestinesi. Noi però non vogliamo giustificarci più. Hamas è una fazione politica, un partito conservatore e se ha acquisito così tanto consenso dovremmo chiederci perché. Chi ha fomentato un ala conservatrice, radicale che ha tolto ogni speranza e ha costretto le persone ad aggrapparsi ad un’azione così violenta? I palestinesi sono anche Hamas, e Hamas sono anche palestinesi, ma a noi questo non interessa. Comunque vada noi dimostreremo sempre il nostro diritto a esistere e resistere».
Il presidio, raggiunto dal corteo degli studenti che nel primo pomeriggio si erano radunati contro la Conferenza europea dei giovani di destra ospitata dalla Lega in una sala del centro storico, si è presto trasformato in un altro corteo più gande, sulle note di Dammi Falastini e di Bella Ciao il fiume di bandiere nere bianche e verdi si è diretto da Piazza Vittorio verso il quartiere di San Lorenzo.
«Quello che è avvenuto il 7 Ottobre, non è giustificabile – dice Maya Issa – Ma deve essere contestualizzato. Quella di sabato è stata una risposta a 75 anni di occupazione e di massacri nei confronti del mio popolo. Su Gaza vige un embargo militare, da diciassette anni, gli adolescenti sono cresciuti sotto alle bombe, ricordo quelle del 2004, 2008, 2014, 2018 e 2021, due milioni di persone vivono nella più grande prigione a cielo aperto del mondo. Quello che sta accadendo non è una guerra ma una vera e propria pulizia etnica del popolo palestinese».
Il corteo si ferma in via Tiburtina, all’altezza di San Lorenzo, «from the river to the sea Palestine will be free», urlano ancora le migliaia di persone in strada che faticano ad andar via. Poi, il minuto di silenzio per le vittime. E nel silenzio si è sciolto il corteo
Commenta (0 Commenti)GAZA SOTTO ATTACCO. Ultimatum dell'esercito israeliano. 24 ore di tempo per evacuare la parte nord della Striscia. Molti sono partiti in preda al panico, tanti altri non abbandonano le loro abitazioni. L'offensiva di terra ieri sera era data per imminente
Gaza. Palestinesi lasciano le loro case dopo l'ultimatum di Israele - Getty
«Lasciate le vostre case, è per la vostra sicurezza, tornerete quando ve lo comunicheremo». Queste parole dei soldati israeliani sono stampate nella memoria dei profughi palestinesi del 1948, ancora in vita, che hanno vissuto in prima persona la Nakba, la catastrofe, l’esodo dalle proprie case nel territorio che sarebbe diventato lo Stato di Israele.
Una fuga dalla guerra che sarebbe terminata solo in un campo profughi a Gaza, in Cisgiordania o nei paesi arabi. Alle loro case non sono mai più tornati. E quelle parole sono stampate oggi sui volantini piovuti dall’alto giovedì e venerdì tra le case, quelle ancora in piedi, e tra la gente di Beit Lahiya, Beit Hanoun, Jabaliya, Sudaniyeh, Gaza city e tutti gli altri centri abitati a nord del Wadi Gaza, più o meno al centro della Striscia. Soltanto 24 ore di tempo hanno dato i comandi israeliani a un milione e centomila palestinesi che vivono in quella metà di Gaza. 24 ore per dire addio a tutto ciò che si è costruito e vissuto, alla propria casa anche se povera come è povera la vita di quasi tutti nella Striscia.
Safwat Mohammad, 54 anni, è figlio di una coppia di profughi. È nato e cresciuto nel campo di Jabaliya. Ma non è povero, possiede un’auto, un appartamento spazioso in un quartiere settentrionale di Gaza city e uno stipendio per vivere tranquillo. Eppure, come migliaia di palestinesi ieri è stato preso dal panico e si è unico a coloro che sono andati a sud. «Mi piange il cuore. Amo la mia casa, non volevo abbandonarla. Tra qualche giorno però potrebbe essere un mucchio di macerie e io devo salvare la mia famiglia. Sono certo che Israele attaccherà via terra per distruggere tutto quello che c’è a nord di Gaza city» ci diceva ieri mentre in auto si dirigeva a Deir al Balah. Il figlio Tareq ha una patologia cardiaca seria.
«Ho passato ore a cercare il fluidificante del sangue di cui ha bisogno. A Gaza scarseggia l’acqua e mancano il carburante, l’elettricità e le medicine». Safwat teme di sapere cosa accadrà in futuro. «Israele – dice sconsolato – ci vuole affamare e provocare una nuova Nakba, ci spinge verso l’Egitto». Nei volantini sganciati su centri abitati palestinesi oltre all’ultimatum è indicata un’area dove dirigersi all’estremo sud, sul
Commenta (0 Commenti)NEL BUIO. Ad Amsterdam +15% ieri, +40% nell’ultima settimana. L’Fmi ha già tagliato le stime di crescita e i mercati sentono la tensione. Il possibile sabotaggio del gasdotto fra Finlandia ed Estonia complica la situazione. Questo quadro a tinte fosche però porta tutti a tifare per la de-escalation del conflitto
La riunione del Fondo monetario internazionale in Marocco - Foto Ap
Le conseguenze economiche dell’ennesima crisi israelo-palestinese sono ogni giorno più pesanti. Il prezzo del gas ieri sera è schizzato in chiusura al famigerato Ttf di Amsterdam: il future scadenza novembre ha segnato un +15%, arrivando a 53 euro al megawattora. La crescita cumulata nell’ultima settimana è di circa il 40 per cento. Oltre all’aumento del prezzo del petrolio anche sulle nuove tensioni in Medio Oriente, gli operatori attribuiscono il fortissimo aumento ai nuovi scioperi nel settore in Australia e alla perdita a forte sospetto di sabotaggio al gasdotto sottomarino che collega la Finlandia e l’Estonia.
NELLA NOTTE TRA SABATO e domenica è stata registrata una perdita dal gasdotto sottomarino che collega Finlandia ed Estonia, chiamato Baltic Connector. Tre giorni fa il presidente finlandese Sauli Niinisto ha dichiarato che la causa «probabilmente» ha origine da un elemento «esterno», senza specificare ulteriormente. Giusto un anno fa una serie di esplosioni in mare avevano provocato la rottura di tre dei quattro gasdotti che compongono Nord Stream 1 e Nord Stream 2. Il Baltic Connector è attualmente il solo condotto per importare gas in Finlandia, escluso il Gnl, da quando le importazioni russe sono state bloccate l’anno scorso dopo l’invasione russa dell’Ucraina.
IL SEGRETARIO DELLA NATO Jens Stoltenberg, durante il vertice di ieri a Bruxelles, ha preso tempo sull’incidente al gasdotto del Baltico: «Dobbiamo aspettare la fine delle indagini – ha detto nella conferenza stampa che si è tenuta nel quartier generale dell’Alleanza nella giornata della ministeriale Difesa – siamo in stretto contatto con Finlandia e Estonia, se si dimostrerà che l’attacco è stato deliberato, sarà considerato come un grave incidente e la risposta sarà unita». Molto improbabile che la Nato possa tirare in ballo la Russia (non lo ha fatto per il Nord Stream), ma la tensione rimane alta.
Nel frattempo gli Stati Uniti hanno aumentato le scorte settimanali di petrolio: 10,176 milioni di barili, decisamente oltre le attese che prevedevano un +492.000 barili.
REGISTRATO TUTTO QUESTO, va però osservato che il mercato del gas è in una situazione molto migliore oggi rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso: le scorte sono elevate, la domanda è in calo e sono state aperte diverse nuove strutture di importazione, e si prevede un inverno relativamente caldo, che riduce il fabbisogno di gas.
Se già due giorni fa il Fondo monetario internazionale aveva ridotto le stime di crescita per l’economia globale e in particolar modo quella del mondo occidentale, ancora in gran parte dipendente dai gas fossili – a livello globale il 3% nel 2023 dal 3,5% dello scorso anno ed un ulteriore rallentamento nel 2024 al 2,9%, mentre le economie avanzate rallenteranno all’1,5% nel 2023 e all’1,4% nel 2024 dal 2,6% del 2022 – , lo scenario internazionale degli ultimi giorni però ha portato ieri il presidente della Banca Mondiale, Ajay Banga, a sostenere che il conflitto in Israele è «uno choc economico di cui non abbiamo bisogno». Anche i mercati finanziari globali, già scossi dall’aumento dei tassi di interesse e dalla guerra in Ucraina, potrebbero presto virare verso il territorio pesantemente negativo.
CHISSÀ CHE QUESTA VOLTA il loro impatto non sia finalmente positivo sulle decisioni politiche portando a quella de-escalation del conflitto che in tanti sostengono di perseguire
Commenta (0 Commenti)ISRAELE/PALESTINA. Sale a 1.100 il numero degli uccisi palestinesi, 1.200 gli israeliani. Ospedali al collasso: «Sono dei cimiteri». Pioggia di razzi ad Ashkelon
Il quartiere di Rimal a Gaza, distrutto dai bombardamenti israeliani - foto Ap/Mohammed Talatene
Ci si può spingere solo un po’ più avanti di Ashkelon. Poi i soldati israeliani ti fermano. Non si passa. Tutta l’area intorno a Gaza è zona militare chiusa. Il passaggio continuo dei veicoli dell’esercito dice che l’offensiva di terra è sempre più vicina, imminente. Da Ashkelon si riesce a vedere con fatica solo la parte di Gaza che si affaccia sul mare. Ma le colonne di fumo grigio in lontananza e i boati delle bombe sganciate da F-16 e droni israeliani, indicano la direzione per Gaza.
Sono sempre più drammatiche le notizie e le immagini che arrivano dal piccolo lembo di territorio palestinese, chiuso da ogni punto e sotto un violento bombardamento israeliano. I prossimi giorni si annunciano ancora più duri per la popolazione senza elettricità dopo lo spegnimento dell’unica centrale elettrica di Gaza rimasta senza carburante. Il premier israeliano Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Benny Gantz ieri hanno deciso di formare un governo d’emergenza nazionale. In realtà è un gabinetto di guerra ristretto che esisterà con l’unico compito di attaccare Gaza e Hamas che
Commenta (0 Commenti)Il DataRoom di Milena Gabanelli di ieri sul Corriere della Sera – rilanciato in serata dal TGla7 di Enrico Mentana – aveva un titolo più che significativo: “Alluvione in Emilia-Romagna, la beffa dei rimborsi”. Nel report come sempre molto accurato della Gabanelli e di Giusi Fasano si legge: “Sono passati 143 giorni dai 5 miliardi di metri cubi d’acqua venuti giù in Romagna fra l’1 e il 17 di maggio. Una lunga apnea per l’area alluvionata che nel 2022 valeva da sola 38 miliardi di ricchezza (il 2,2% del Pil nazionale). «Risarciremo il 100% a chi è stato danneggiato», è la promessa della premier Giorgia Meloni infilata negli stivaloni in mezzo al fango nelle zone allagate, e poi di nuovo a giugno, nell’incontro con i sindaci a Palazzo Chigi. Ma quanto è arrivato sul territorio dopo 5 mesi passati a contare perdite, ripristinare strade, riparare canali, case, aziende, mettere mano ai terreni agricoli allagati? Quelli calcolati e certificati fin qui (ossia trasmessi a Bruxelles dal Dipartimento nazionale di Protezione civile per chiedere l’accesso ai fondi di solidarietà dell’Unione Europea) ammontano a 8,5 miliardi così divisi: 3,8 miliardi per il patrimonio pubblico come strade, scuole, canali; 2,2 miliardi per i danni alle abitazioni; 1,8 miliardi per i danni alle attività produttive, comprese le aziende agricole. A questa cifra vanno aggiunti 682 milioni già spesi per fronteggiare l’emergenza e per la messa in sicurezza del territorio, di cui 412 anticipati da Comuni, Province, Regioni e consorzi di bonifica.
Milena Gabanelli e Giusi Fasano evidenziano come “in Romagna c’è fretta, a Roma no”. Cioè amministratori, famiglie e imprese chiedono si faccia in fretta, “velocizzare il più possibile interventi di ripristino e indennizzi. La scelta più logica sarebbe stata quella di utilizzare la macchina oliata della Protezione civile, che può ricevere somme in contabilità speciale e usare le deroghe per spendere i soldi, e incaricare subito il Presidente della Regione Stefano Bonaccini Commissario straordinario. Ma c’era il veto di Salvini. Ci sono voluti 2 mesi e mezzo per trovare un nome alternativo, e ai primi di agosto viene nominato il generale di Corpo d’Armata Francesco Figliuolo.”
DataRoom aggiunge che poi la struttura commissariale “va organizzata, non è immediatamente operativa. Tanto più se deve agire in una situazione inedita dal punto di vista della vastità e della complessità dell’intervento. Tutto questo comporta lo slittamento dei tempi, in un territorio che le alluvioni hanno reso estremamente vulnerabile e con l’autunno alle porte.”
Poi Gabanelli e Fasano arrivano al nodo dei soldi promessi, quelli stanziati e quelli effettivamente messi a disposizione e finora giunti a destinazione o comunque nelle disponibilità di Figliuolo. Da qui il titolo eloquente: la beffa dei rimborsi.
“A fine maggio, con il primo decreto per l’Emilia-Romagna il governo aveva annunciato un primo pacchetto di aiuti per 2 miliardi e 200 milioni. «Salvo intese», che in sostanza significa che le cose possono cambiare in corso d’opera. E infatti. – si legge su DataRoom – Quando il decreto viene pubblicato il 1° giugno i soldi diventano circa 1,6 miliardi, così divisi: 900 milioni sono per gli ammortizzatori sociali, cioè la cassa integrazione; 300 milioni per aiutare le aziende che esportano. Con una clausola: il non speso ritorna nelle casse dello Stato. Per quel che riguarda la cassa integrazione sono stati chiesti solo 30 milioni, perché i romagnoli non sono rimasti a guardare, ma insieme ai dipendenti si sono subito rimboccati le maniche e rimesso in piedi gran parte delle aziende. Invece dei 300 milioni stanziati a sostegno dell’export ne sono stati chiesto soltanto 12-13. In questo caso i requisiti necessari sbarravano già in partenza l’accesso ai fondi per moltissime imprese. Alla fine 1 miliardo e 150 milioni sono tornati nelle casse dello Stato. E questo non-speso è l’ultimo fronte aperto fra il governo e Regione-sindaci-parti sociali. Loro chiedono che i fondi non utilizzati vengano usati subito per indennizzare cittadini e imprese e chiedono l’introduzione del credito di imposta.”
Nello stesso decreto ci sono 150 milioni ripartiti fra vari ministeri più 230 milioni dati alla Protezione civile e alla Regione per le somme urgenze, fra cui un aiuto di 3.000 euro a famiglia per far fronte alle spese inderogabili. “Sono questi gli unici soldi arrivati finora alle quasi 36 mila le famiglie che nelle prime ore avevano dovuto lasciare tutto e scappare, con l’acqua letteralmente alla gola. In 65 Comuni si contano 9.371 nuclei familiari che hanno poi chiesto il contributo per l’autonoma sistemazione: gente che si è accampata per lunghi periodi da amici, parenti o in roulotte. Più un centinaio di famiglie che ancora oggi sono sistemate in alberghi (con spesa a carico della Regione). Per ciascuna famiglia a breve saranno distribuiti altri 2.000 euro” scrivono Gabanelli e Fasano.
Con la nomina ad agosto del Commissario Figliuolo, arrivano nuovi stanziamenti per le opere pubbliche e per il risarcimento danni ai privati. DataRoom dice che “sono previsti 2,6 miliardi da spendere in tre anni per sistemare scuole, ponti, strade. Ma quanti soldi sono disponibili fisicamente per il 2023? Finora ne sono stati autorizzati 908,5 milioni, di cui 876 versati sulla contabilità del generale Figliuolo, quindi già disponibili. Ma 412 anticipati a maggio per i lavori urgenti sono da restituire a Regione, Comuni, Province e consorzi. Quindi, tirando la somma, pronti all’uso quest’anno restano meno di 500 milioni. Bastano i numeri di frane e strade per capire che di soldi ne servirebbero ben più.”
DataRoom riporta che al 30 settembre sono state censite 38.760 frane in 48 comuni, di cui 350 di grandi dimensioni, ma si stima che il numero totale delle frane sia oltre 50 mila. La maggior parte delle frane ha danneggiato case, terreni o aziende, e qui i diretti interessati sono intervenuti pagando di tasca loro, oppure è ancora tutto sospeso. Un numero consistente di frane è finito però sulle strade, dove sono stati eseguiti in urgenza i lavori di ripristino delle viabilità, ma quasi ovunque sono necessari interventi strutturali sulla viabilità. Su un totale di 1481 strade provinciali o comunali da monitorare, al 30 settembre ne erano chiuse ancora 322, mentre 405 erano percorribili con limitazioni alla circolazione.
Gabanelli scrive: “Con il secondo decreto ci sono anche i soldi per i privati: 120 milioni già utilizzabili, più 149 autorizzati ma non ancora sul piatto. Per avere un ordine di grandezza: le aziende agricole a cui l’acqua ha causato danni sono circa 21 mila con 41 mila addetti; quelle agroalimentari sono 2.800 per 23 mila operatori. E l’impatto è stato importante anche sul settore zootecnico. Ma di fatto le aziende non hanno ancora avuto un centesimo. Di più: fino al 16 novembre non sarà disponibile nemmeno il modulo da compilare per chiedere il rimborso perché la piattaforma informatica è in corso di aggiornamento. Dopo quella data il cittadino che ha avuto la casa allagata, o l’impresa danneggiata, può presentare la domanda di risarcimento con allegata perizia. A quel punto il Comune verifica lo status di alluvionato; se tutto va bene consente alla piattaforma della Regione di «lavorare» la pratica; Invitalia fa l’istruttoria (studia la perizia, identifica il danno) e se tutto è in regola rimanda la pratica al sindaco; il sindaco la dichiara chiusa e la invia a Figliuolo per la firma e l’erogazione. Ma erogare significa avere una tesoreria, che al momento non c’è. La sola boccata di ossigeno in termini economici è arrivata dalla sospensione degli adempimenti tributari in scadenza fra il 1° maggio e il 31 agosto, ma fino al 20 novembre. Poi si dovrà pagare.”
Il quadro non è confortante. Tutti sognano che venga mantenuta quella promessa: «Risarciremo il 100% a chi è stato danneggiato!» conclude Gabanelli parlando però di “illusione” e aggiungendo che “qualche domanda sarebbe utile porsela. Ha senso ricostruire capannoni o riattivare le coltivazioni, diventate greto del fiume, esattamente lì dov’erano? Probabilmente no. Ma per spostare attività occorre fare una più lungimirante programmazione del territorio. Certo, è più facile stanziare qualche soldo da mettere in tasca, anche se pochi.”
Commenta (0 Commenti)