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Ambiente. La protesta di fronte alla Regione Emilia Romagna contro il progetto Eni a Ravenna

I cartelli davanti alla sede della Regione Emilia Romagna

 

«L’anidride carbonica non si mette sotto al tappeto, semplicemente bisogna smettere di produrla». Lo hanno detto forte e chiaro sotto all’ufficio di Stefano Bonaccini a Bologna gli attivisti della neonata Rete per l’emergenza climatica e ambientale dell’Emilia Romagna.

Di fronte ai palazzi della Regione si sono ritrovati ambientalisti, militanti di centri sociali, di ong e di associazioni come Greenpeace e Legambiente. La richiesta è semplice: l’Emilia-Romagna del presidente Bonaccini e della vicepresidente Elly Schlein deve dire chiaramente di non considerare compatibile con la svolta ecologica – promessa e sbandierata durante la campagna elettorale contro la Lega di Salvini – il progetto di Eni per creare a Ravenna il più grande centro al mondo di stoccaggio di anidride carbonica.

La tecnologia è la cosiddetta Ccs, la carbon capture and storage. Un sistema che punta a catturare il gas inquinante prima che esca dai camini degli impianti inquinanti di Enel, a incanalarlo in tubi, a portarlo fino a piattaforme destinate altrimenti ad una futura dismissione al largo della costa di Ravenna, e infine spararlo a 3 mila metri sotto il livello del suolo, in ex giacimenti di gas ormai esausti. Un «trucco», «un’operazione di greenwashing che evita ad Eni di passare alle energie rinnovabili come eolico o fotovoltaico», dicono gli attivisti che pongono un problema un più, quello delle risorse pubbliche.

Eni vorrebbe finanziare il Ccs di Ravenna accedendo tra l’altro ai fondi di quel Next Generation Eu che invece dovrebbero dare il via ad una vera transizione green. In linea quindi con gli obiettivi europei fissati giusto poche ore prima della manifestazione di ieri, e che prevedono una riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030.

Per ora il progetto di Ravenna è stato però abbracciato pubblicamente dal presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, che ne ha festeggiato l’annuncio definendolo un esempio di «economia circolare, sviluppo e innovazione». I manifestanti hanno anche lanciato un appello pubblico contro il Ccs (qui il link), a firmare tra gli altri Friday For Future, la Campagna per il clima fuori dal fossile, i No Tap, il Forum Italiano Movimenti per l’acqua, i Medici per l’ambiente, i centri sociali bolognesi Tpo e Làbas e la rete Re:Common.

«Il progetto di Eni non ha niente di sostenibile – ha spiegato la consigliera regionale dei Verdi Silvia Zamboni – Finanziarlo con i fondi europei sarebbe una beffa per chi chiede sostenibilità vera e investimenti nelle energie rinnovabili e pulite». A esprimere «preoccupazione per un progetto che non ci piace» anche Igor Taruffi, capogruppo in Regione per Emilia-Romagna Coraggiosa, l’ala sinistra della coalizione di governo che ora prova a chiedere al Pd e a Bonaccini di «ridiscutere in modo radicale le politiche energetiche e ambientali».

Quella di ieri sotto il palazzo della giunta Bonaccini è stata però anche un chiaro segno di distanza tra movimenti e istituzioni regionali. «Ci saremo aspettati che ai grandi annunci seguissero i fatti, ma non è così», ha detto ad esempio Detjon Begaj, uno degli attivisti della rete. All’orizzonte c’è l’imminente presentazione del «Patto per il Lavoro e per il Clima», un documento che segnerà gli obiettivi della Regione per i prossimi anni. «Avremo la possibilità inedita di poter decidere assieme dove e come invenstire», ha detto ad agosto Bonaccini. Il rischio ora è che Bonaccini perda l’appoggio della maggior parte del fronte ambientalista. «Di quel che abbiamo chiesto, nulla di concreto è stato ad oggi recepito», hanno spiegato i manifestanti.

 
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Transizione energetica sì, ma sempre ancorati alla realtà del lavoro - 

Sindacato/Ambiente. Non accettiamo l’idea di una discussione sulla pelle dei lavoratori a colpi di ammortizzatori sociali: il Paese non è pronto né tecnologicamente né industrialmente. Alla “decrescita felice” fine a sé stessa, noi preferiamo la realtà dell’azione sindacale e contrattuale che punta allo sviluppo e alla redistribuzione equa dei profitti.

Un’opera di Friedensreich Hundertwasser

Siamo molto dispiaciuti di aver generato sconcerto alle autrici della Lettera aperta ai compagni della Cgil - Luciana Castellina *, Rossella Muroni ** pubblicata dal manifesto il giorno 4 dicembre. Tuttavia, se generare sconcerto si dimostrasse utile ad aprire una discussione sui temi della transizione energetica abbandonando le emotività e le ideologie e partendo dalla realtà delle condizioni del nostro Paese, siamo pronti a confrontarci. Le accuse che vengono fatte alla nostra categoria sono ingiuste, sbagliate, ingenerose e dimostrano una scarsa conoscenza della storia del sindacato dei chimici e dell’energia, che sono categorie della Cgil, è bene sottolinearlo, visto il malizioso tentativo di etichettarci come qualcosa d’altro.

Raccontare la storia del sindacato dei chimici della Cgil degli ultimi cinquanta anni significherebbe raccontare una storia di successi per la tutela della salute e dell’ambiente, dagli scioperi del 1976 dopo Seveso, alle commissioni ambiente riconosciute nel Ccnl, alla transizione dal nucleare, alle lotte quotidiane nelle aziende e contro le aziende per rivendicare gli investimenti per una maggiore sostenibilità ambientale delle produzioni.

Abbiamo scritto nel documento che condividiamo tutti gli obiettivi del Green New Deal perché noi siamo interessati a lasciare alle future generazioni un pianeta migliore di quello che abbiamo ricevuto in eredità. Ci battiamo ogni giorno per questo e contemporaneamente non ci dimentichiamo mai di essere un sindacato che difende il lavoro: il poco che c’è e quello che ci sarà. Per questo abbiamo insistito sul significato di “giusta transizione”, Just Transition, che deve essere sostenibile sul versante industriale e socialmente accettabile. Non siamo contro “il cambiamento” ma siamo per governare e accelerare “il cambiamento”.

La transizione energetica deve essere parte importante di un disegno complessivo di politica industriale che il paese in questo momento non ha. Non accettiamo l’idea che questa discussione possa essere fatta sulla pelle dei lavoratori a colpi di ammortizzatori sociali perché il Paese non è pronto né tecnologicamente né industrialmente. Questo non è il luogo, ma siamo pronti a fornire riferimenti scientifici solidi riguardo alle proposte che avanziamo, abbiamo migliaia di ingegneri e tecnici, iscritti alla Cgil, pronti a confrontarsi con chiunque lo desideri.

Come si fa a scrivere che uno dei problemi più grandi del nostro Paese è quello della “dipendenza energetica” e tacere

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Politica. In questo folle giro di giostra, c’è una forza politica più fuori controllo e preoccupante, ed è il M5Stelle attraversato da una fronda interna implacabile

Il premier Conte e il ministro degli Esteri Di Maio

 

Stiamo affrontando una pandemia terribile, ogni giorno contiamo centinaia di morti, milioni di persone sono in gravi difficoltà economiche, stanno per arrivare i miliardi del piano europeo, e, in questa situazione, si parla di crisi di governo. Se ci mettiamo nei panni di un comune cittadino, l’impazzimento della giostra politica rasenta la follia.

Ma il buon senso, lo dicono l’esperienza e la storia del nostro Paese, non sempre cammina di pari passo con la politica. Soprattutto di quella che ha in mano le sorti nazionali e quindi maggiori responsabilità per quello che potrebbe accadere. Perché il paradosso è che le spinte più forti anti-governative non vengono dalle opposizioni – che legittimamente, ma anche stancamente, chiedono a Conte di dimettersi.

L’attacco viene dalle forze interne alla maggioranza. In primo luogo a causa delle fortissime fibrillazioni grilline, e a seguire, delle smanie di visibilità della pattuglia renziana. Con un Pd incapace di essere davvero elemento trainante ed equilibrato, con esponenti (a cominciare dai capigruppo di deputati e senatori), che invece di calmare le acque tirano la corda per arrivare allo scontro finale. Senza che Liberi e Uguali possa esercitare una funzione di equilibrio non avendo la forza dei numeri dalla sua parte.

Equilibrio e saggezza del resto non sono parole che albergano a Palazzo Chigi e dintorni dove, anziché lavorare e impegnarsi per il bene comune – visto che l’Italia, e non solo a causa della pandemia, rischia di affondare – sembrano prevalere i personalismi, i pregiudizi, gli ideologismi.

Tuttavia in questo folle giro di giostra, c’è una forza politica più fuori controllo e preoccupante, ed è il M5Stelle attraversato da una fronda interna implacabile. E a dirlo sono proprio i ministri pentastellati che in queste ore tentano di far rientrare nei ranghi i dissidenti, insistendo sul tasto del «voto di fiducia» di mercoledì a Conte – sarà un referendum sulla persona visto che non si vota per dare via libera al Mes ma sul ruolo dell’Italia in Europa.

La soglia di frattura, fino alla scissione, resta una mina vagante di difficile aggiramento. Perché tra i dissidenti ci sono parlamentari che neppure lontanamente si sentono di appartenere al fronte democratico. Sono vicini alla Lega, hanno inghiottito amaramente l’accordo con il Pd, tifano per Trump che sbraita contro i presunti brogli smentiti perfino dai suoi amici repubblicani, pensano che l’Italia sia a rischio di invasione degli immigrati. Come puoi riportare questi elementi dentro un alveo di solidarietà internazionale, di condivisione europeista, di lotta contro le ingiustizie sociali? Sono una mina vagante.

Dall’altra parte, Renzi smania, si sente imprigionato in un’alleanza che gli offre poco spazio, pensa che il suo partitino non ha futuro dentro quel «recinto» politico. E allora spara ad alzo zero, sapendo di avere tanti suoi ex sodali pronti a far da sponda all’interno del Pd. Con Zingaretti incapace, oppure non così forte da poter mettere la mordacchia agli agit-prop del suo partito. Più che la ricostruzione di un partito della sinistra via zoom, o di un campo largo progressista, dietro l’angolo ci sarebbe un bel Nazareno-bis.

Conte, in questa situazione, rischia molto. E la sua maggiore responsabilità è proprio quella che gli rimprovera Landini, cioè di scarsa condivisione, in questo caso delle parti sociali, e, aggiungiamo, parlamentari, e dei suoi stessi ministri, sul piano di ricostruzione e sulla struttura ordinata allo sviluppo del Recovery fund.

C’è praticamente mezzo governo in quarantena, ma il contagio virale rischia di essere specchio di quello metaforico che colpisce il suo ministero. Anche se cerca di smorzare le tensioni, di rasserenare il clima, sa di camminare su un terreno accidentato e stretto, un passo falso potrebbe essergli fatale. L’unica sua forza è, paradossalmente, proprio la paura della crisi. Che avrebbe conseguenze disastrose in questo momento. La credibilità dell’Italia svanirebbe in un colpo solo, rendendo assai ardua l’impresa di abbreviare i tempi per l’assegnazione dei fondi europei.

Per non parlare poi delle conseguenze politiche di un voto anticipato: le opposizioni vincerebbero a mani basse, e l’Italia verrebbe consegnata nelle mani di Salvini, Meloni, Berlusconi, ovvero la peggiore destra della storia della Repubblica. Alla fine la domanda è d’obbligo: il Movimento5Stelle, Italia Viva e il Pd, vogliono consegnare il Paese in quelle mani?

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Ci ha lasciati la "compagna Bruna". Aveva 96 anni, è deceduta questa notte all'ospedale 'San Maurizio' di Bolzano dov'era ricoverata da alcuni giorni, a seguito del Covid-19, Da vera insegnante ci ha educato con l'esempio della sua vita alla Resistenza, alla voglia di ricostruire dopo le macerie, all'impegno culturale e sociale. Sottolineato da un'interpretazione al femminile della vita e della militanza.

Giovanissima, Lidia Menapace, "Bruna", prende parte alla Resistenza e nel 1964 è la prima donna eletta nel Consiglio provinciale di Bolzano. All’inizio degli anni Sessanta inizia a insegnare all’Università cattolica del Sacro Cuore con l’incarico di lettrice di lingua italiana e metodologia degli studi letterari, incarico che durante il Sessantotto non le viene rinnovato a seguito della pubblicazione di un documento intitolato Per una scelta marxista. Dopo essere uscita dalla Democrazia cristiana, simpatizza per il Partito comunista e nel 1969 viene chiamata dai fondatori nel primo nucleo de Il Manifesto cui offre per anni il suo fondamentale contributo. Membro di Rifondazione comunista fin dalla fondazione, nelle elezioni politiche del 2006 viene eletta al Senato. 

Da vera insegnante, Lidia Menapace ci ha educato con l’esempio della sua vita: la Resistenza partigiana, la voglia di ricostruire dopo le macerie civili e umane della guerra, l’impegno culturale e sociale. Le sue parole sagge, ironiche, leggere ma pesanti allo stesso tempo, la sua stessa fisicità, il suo profilo inconfondibile ci hanno fatto negli anni innamorare di lei. 

“Buonasera a tutte e a tutti - diceva nel marzo del 2017 a Milano - sempre tutte e tutti, cioè sempre il linguaggio inclusivo. E sempre prima tutte e poi tutti, non solo per cortesia che quando c’è si ringrazia e quando non c’è non si può protestare, ma per diritto, perciò si può protestare: perché noi donne siamo di più. Quindi: contano i numeri, contano i voti. Non so se sapete di quanto siamo di più. All’ultimo censimento, quello del 2011, le donne risultarono essere due milioni e trecentomila circa più degli uomini. Quando lo dico, c’è sempre qualche patriarca gentile che mi dice: adesso vedrai che ci mettiamo subito in riga. Guardate che ci fu un milione di voti di donne più che di uomini al referendum 'monarchia-repubblica'; quindi non metteteci sempre così tanto tempo insomma… cercate di sveltirvi un po’… perché altrimenti nel 3003 siamo ancora qui che contiamo quanti dovremmo essere”. C’è in queste parole tutta Lidia, con la sua ironia, la sua schiettezza, il suo femminismo. Una anticipatrice: questa forse è stata la caratteristica più nitida ed esclusiva del suo lavoro.

Scriveva già nel 1993 nella prefazione al volume Parole per giovani donne: “Poiché ho ribattuto che possiamo cominciare a sessuare il linguaggio nei miliardi di volte in cui si può fare senza nemmeno modificare la lingua, e poi ci occuperemo dei casi difficili, ecco subito di nuovo a chiedermi perché mai mi sarei accontentata di così poco. Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere”.

Ci ha regalato la definizione più suggestiva del movimento delle donne definendolo ‘carsico’, come un fiume che talvolta sprofonda nelle viscere della terra per riapparire in luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza. Suo è lo slogan “Fuori la guerra dalla storia”, sua la proposta di una Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre. “Cosa rimane oggi della Resistenza? - diceva nell’aprile 2009 - È rimasto un gran buco da colmare. Siamo davanti a un fenomeno che ho iniziato a chiamare di 'alzheimer organizzato' (…) Tutti noi temiamo l’alzheimer, perché è la perdita della memoria di te stesso (…) ma un intero popolo che viene indotto all’alzheimer è un popolo che tu puoi portare dove vuoi. Senza un passato con cui confrontarsi non ha un futuro”. “Cosa ho imparato dalla Resistenza? - diceva - A convivere con la paura e a superarla”.

Oggi siamo noi ad avere paura, Lidia. Senza di te ci sentiamo tutte e tutti (sempre prima tutte e poi tutti, ce lo hai insegnato tu!) un po’ più tristi, un po’ più soli. “Non vedo l’ora di uscire e andare nel piccolo giardino sotto casa - dicevi qualche mese fa - Ma non vorrei che la liberazione dopo il virus, si riducesse solo a uscire di casa. (…) Immagino gruppi di persone che pensino a cambiare le cose dentro un grande movimento di cambiamento. Una vita politica in cui ciascuno vede cose che non funzionano e si impegni per trasformarle, in cui le cose sbagliate siano raddrizzate”. Ci proveremo a raddrizzarle queste cose, Lidia, ma senza di te sarà più difficile. Già ci manchi. Ciao, Lidia, ciao Bruna.

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Il convegno di Italianieuropei. Tre ore di confronto sul «cantiere». Bettini apre a una «rifondazione», ok di Speranza, gelo di Zingaretti

L'incontro di ieri mattina via Zoom con D'Alema, Zingaretti, Bettini, Speranza, Renzi, Amato, Franceschini e Schlein

 

Quattro anni esatti dopo la debacle di Renzi al referendum costituzionale, che fu il massimo punto dello scontro con gli ex Ds, Massimo D’Alema archivia la guerra con l’ex rottamatore. E lo invita al «cantiere della sinistra», evento via Zoom per la presentazione dell’ultimo numero di Italianieuropei dedicato proprio alla ricostruzione del campo progressista dopo due scissioni di fila (2017 Bersani e D’Alema; 2019 Renzi).

Le posizioni da allora non sono molto cambiate, ma la nascita del governo giallorosso e lo stato di salute non buono delle forze di centrosinistra richiedono, dice D’Alema, di voltare pagina. «Ci siamo, c’è vita a sinistra», esordisce nelle sue conclusioni, per poi spiegare che serve una «ristrutturazione di un suolo pieno di edifici cadenti e desueti», perché «l’esperienza del Pd non ha avuto successo, ma sono falliti anche tutti i tentativi di costruire delle realtà significative fuori dal Pd».

DA QUESTA «SOMMA di insuccessi», D’Alema propone di ripartire e al suo appello rispondono tutti i protagonisti: da un padre nobile come Giuliano Amato a Nicola Zingaretti, Roberto Speranza, Dario Franceschini, Goffredo Bettini, Elly Schlein e due intellettuali come Ida Dominijanni e Nadia Urbinati.

Tre ore di discussione per capire che fare dopo la pandemia, in una devastante crisi economica che aumenta le diseguaglianze ma che può essere mitigata dal Recovery Fund (visto come «opportunità» soprattutto da Renzi), in un clima che «ha evidenziato il fallimento del neoliberismo» e rimesso al centro alcuni pilastri della sinistra come i beni pubblici e il welfare. Ma con la palese assenza di un’idea del mondo, di una narrazione, di una «ideologia» che consenta alla sinistra di competere con i sovranisti sul piano dell’identità, del bisogno di protezione dei ceti più deboli e ormai anche di larga parte dei ceti medi.

Una ideologia che permetta ai progressisti di vivere «oltre le singole esperienze di governo», dice Urbinati, «di portare lo sguardo più in là verso una proposta di società in grado di riformare il capitalismo», le fa eco Bettini. Perché «senza un senso di appartenenza, senza la capacità di comporre le tante identità di una società liquida», ricorda Amato, «le politiche non penetrano nella società».

SULLO SFONDO I VENTI DI CRISI nel governo e soprattutto il rapporto con il M5S, che Franceschini definisce «alleanza inesorabile se si vuole governare», sostenuto da Speranza «con loro una relazione non episodica».

Ma il punto vero della discussione è la forma, l’abito per quella che Bettini chiama «rifondazione di una forza più ampia». «Per la prima volta da anni siamo a favore di vento», dice Speranza, «ma le forze che ci sono oggi non bastano, dobbiamo metterci tutti in discussione in un processo più largo e aperto».

D’Alema è il più chiaro nel dire che «serve una nuova forza politica con un progetto di riforma del capitalismo che renda possibile il contenimento delle diseguaglianze e la tutela dell’ambiente». «Bisogna dare una forza politica a quel 30% di italiani che avrebbero bisogno di un grande partito di sinistra». E ammette: «In passato per puntare al 50% abbiamo pensato che fosse necessario appannare la nostra identità, e così ci siamo persi anche il 30%…». Un partito non leggero, dice l’ex premier, «non somma di comitati elettorali», perché «solo i partiti hanno saputo connettere elite e popolo».

CON RENZI SCAMBIO GARBATO sul centro, con il primo a esultare per la vittoria del moderato Biden e D’Alema a ricordare che «quel centro lo inseguimmo anche noi, ma oggi la crisi ha radicalizzato la società». E tuttavia, per il leader Massimo, nel nuovo centrosinistra che deve essere «un campo largo» c’è posto per «culture diverse, per posizioni anche distanti». L’importante, sottolinea Bettini, è partire.

Non a caso Zingaretti di tutto questo non parla, e resta concentrato sulla sfida di dare un’anima al Recovery Plan, visto come antidoto espansivo alle sirene populiste, e soprattutto sul concetto che «non dobbiamo tornare alla normalità di prima del Covid che era inaccettabile» in un’Italia «ferma e piena di diseguaglianze e burocrazia». Di qui l’invito a Conte «a non tirare a campare» ma «ad essere efficaci». «La scintilla deve essere la necessità di costruire un nuovo e diverso equilibrio», dice il leader Pd e avverte: «No a ingegnerie organizzative».

ANCHE SCHLEIN VEDE tutte le difficoltà della ricostruzione, in particolare dove c’era la sinistra radicale e gli ecologisti e oggi «ci sono più sigle che elettori». «Dobbiamo cambiare schema», spiega, «ma questo non significa confluire nel Pd che non si è messo in discussione».

Dopo tre ore le domande restano molto più numerose e grandi delle risposte. Tocca a Dominijanni ricordare ai combattivi protagonisti della mattina che, in ogni caso, «non può essere la nostra generazione a fare questa ricostruzione».

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Il 5 dicembre è la Giornata mondiale del suolo. “Continuiamo a non fare nulla contro il suo consumo -denuncia il prof. Pileri- e oggi Covid-19 ci dà pure una mano a non pensarci, a spostare la questione in fondo all’agenda. Eppure consumo di suolo e pandemia sono imparentati”

Cagliari - © Paolo Pileri
 Nonostante Covid-19 stia monopolizzando e scolorando tutto, il 5 dicembre è la giornata mondiale, e sottolineo mondiale, del suolo. Oggi, la Milano che non si ferma, l’Italia che non si ferma, la politica che non si ferma, la Borsa che non si ferma, la corsa della delivery economy che non si ferma dovrebbero invece fermarsi, abbassare il proprio sguardo a terra e vedere cosa c’è là sotto, umilmente ai loro piedi. C’è la risorsa più fragile e necessaria al mondo: la terra.

Solo con il suolo mangiamo, visto che il 95% del cibo arriva dalla terra senza che ci chieda un affitto o un soldo. Solo con il suolo abbiamo una miglior qualità dell’aria che poi vuol dire anche minor rischio di beccarsi il Covid-19 visto che se l’aria è pessima, è più alta la possibilità di bronchiti che piacciono assai a Covid-19 per farci fuori più alla svelta. Solo con il suolo non affoghiamo visto che assorbe milioni di litri di acqua per ettaro quando non è cementificato. Solo con il suolo libero non aumentiamo la spesa pubblica mentre con quello cementificato mettiamo in tasca debiti pubblici su debiti pubblici. Solo con il suolo troviamo rimedi sanitari inattesi: antibiotici, antivirali, farmaci generici hanno principi attivi che spesso arrivano da funghi, alghe, batteri che vivono in quei 30 centimetri di suolo sotto i nostri piedi.

Insomma, solo con il suolo viviamo. Ma non ce lo diciamo. Non socializziamo la cosa. Il messaggio ancora non passa, visto che il cambiamento di uso del suolo è tra le prime cinque cause al mondo della insostenibilità ovvero dei cambiamenti climatici. E lo è anche in Italia, anche sotto le nostre finestre.
A Roma e Milano vogliono costruire nuovi stadi inutili mangiando suolo. In Sicilia come in Lombardia come in Veneto sono sempre lì a cercare di fare strade e autostrade inutili e mangiano suoli. Il mito abbagliante dell’economia dei pacchi (si dice delivery economy) sta uccidendo gli ultimi piccoli negozi rimasti e intanto si mangia centinaia di campi agricoli per fare i suoi capannoni e far correre i suoi tir. Non abbiamo suolo a sufficienza per mangiare e stiamo cementificando e inquinando quel che rimane, senza scrupoli. Siamo matti.

Forse questa non dovrebbe essere la giornata del suolo, ma una giornata dove ci dicono che siamo dei pazzi che viaggiano a tutta velocità con una benda sugli occhi, senza vedere chi travolgiamo e dove ci schianteremo.
Non so se sia eccesso di fiducia nelle istituzioni e nella politica, o illusione bella e buona e niente di più, o un atto di infinita resistenza, quel che fa sì che, ancora, siamo qui a dire che oggi è una giornata in cui tutto il mondo si deve fermare a pensare al suolo e chiede ai suoi calpestatori di smetterla, di pentirsi. Io chiuderei le Borse, le sale bingo e le piattaforme online come segno di rispetto davanti al suolo. Ma qui non si chiude neppur un vicolo.

Mi viene in mente la vedova Schifani che nel 1992 piangeva nella cattedrale di Palermo tentando di dire parole difficili rivolte a quei luridi mafiosi che avevano ucciso Falcone, la moglie e gli agenti di scorta, tra cui suo marito. Leggeva un testo dove chiedeva a quei mafiosi di pentirsi e di fermarsi. Ma poi, piangendo e singhiozzando, con parole sue diceva a tutti “ma tanto loro non si fermano. Non si pentono”. Chi di noi vide quelle immagini in diretta ricorda bene la scena. I testi formali da una parte, le parole di verità disilluse dall’altra. Io avevo 25 anni all’epoca e piansi altre lacrime oltre a quelle per l’attentato e i morti. La vedova Schifani era l’Italia turrita che si accartocciava su se stessa dicendo tra le lacrime che quelli non si sarebbero fermati. Un’Italia che cerca braccia che la sorreggano. Oggi siamo più o meno come in quel giorno funereo. Anzi peggio.

Il suolo italico, come lo chiamava Luigi Einaudi, è agonizzante ma non ci sono braccia a sorreggerlo perché non stiamo celebrando nessun funerale visto che continuiamo a consumare suolo in questo Paese (e non sta diminuendo: due metri quadrati al secondo da tre anni a questa parte) senza averne sostanzialmente bisogno e senza avere neppure un minimo dubbio di fare una cosa inutile, sbagliata, grave e che inchioda le prossime generazioni alla povertà e al conflitto. Figuriamoci se ci mettiamo ad ascoltare il suolo, se anche noi ci pentiamo, se ci fermiamo. Continuiamo a partorire leggi imperfette e forse appositamente incapaci di fermare il consumo di suolo, continuiamo a non parlarne nelle Università quanto si dovrebbe, continuiamo a pensare prima ai compromessi e poi alle soluzioni, continuiamo ad avere un Parlamento che non ne parla, continuiamo a dire che sono le bombe d’acqua a uccidere quando invece quei morti sono omicidi climatici di cui siamo complici quantomeno, continuiamo ad avere politici che neppur sanno cosa è il suolo eppure amministrano con spocchia e approvano trionfalmente piani e grandi opere, continuiamo ad avere urbanisti e tecnici pubblici e privati che infilano nei piani urbanistici modi furbi per consumare come prima, continuiamo a inquinare i suoli agrari con una agricoltura tossica, e via di questo passo.

Più che usarlo il suolo lo usuriamo. In buona sostanza, continuiamo a non fare nulla e oggi Covid-19 ci dà pure una mano a non pensarci, a ficcare questa questione ai piani bassi dell’agenda pubblica, a dire che ci sono cose più gravi da affrontare così da assolverci prima del tempo, prima di capire che consumo di suolo e Covid-19 sono imparentati. E così, nonostante il 5 dicembre in memoria del suolo, ho il sospetto che non succederà nulla. Ma spero di sbagliarmi e quindi che accada qualcosa. Ma non per fare la solita lezioncina ai nostri bambini a scuola: “Sappiate che il suolo è importante e i lombrichi pure”. Loro lo sanno e ridono quando noi riduciamo tutto a lombrichi e talpe. Loro sanno che il suolo è un grande ammortizzatore dei cambiamenti climatici. Sanno che dal suolo dipende il futuro. Sanno che è fragile, non rinnovabile e non resiliente. Siamo noi a infischiarcene. Queste giornate non sono fatte solo per i bambini, ma per i presidenti di Regione, i sindaci, i parlamentari, i ministri, il presidente del consiglio e perfino il presidente della Repubblica: perché dicano qualcosa sul suolo. Ricordiamoci il principio delle responsabilità differenziate. Vale anche qui.

Chi governa, chi è influente, chi è ascoltato non ha le medesime responsabilità di chi è governato. Ha anche “presa” sulle persone. Ecco che allora speriamo di ascoltare qualcosina, magari non alle tre di notte, ma possibilmente in prima serata, a reti unificate. Qualcosa che restituisca dignità alla terra, che ci sproni tutti a conoscerla e rispettarla, che faccia capire che da quelle zolle dipendiamo, che responsabilizzi il più piccolo sindaco d’Italia a non essere indifferente, che spieghi che dobbiamo occuparcene tutti innanzitutto parlandone, che faccia venire voglia di cambiare le leggi. Chissà se questo accadrà o se invece il tappeto spesso e polveroso di Covid-19 (insieme alla cozza della solita economia predona) sarà la grande scusa pronta all’uso per non dire nulla (“Con così tante cose brutte, vuoi parlare di suolo?”) e assolvere vip, politici, intellettuali dal fare qualcosa, dal prendersi impegni, dal capire e far capire che il consumo di suolo ci rende più fragili. Chissà.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)

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