Per quanto opportuno, è inadeguato limitarsi, facendo sfoggio di cultura, a citare Hegel e Marx secondo i quali la storia si presenta due volte, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. La Marcia su Roma prospettata da Forza Nuova per il novantacinquesimo anniversario del 28 ottobre 1922 non è neppure una farsa. È una sceneggiata. Potremmo pensare di “seppellirla con una risata”, magari dopo avere rivisto l’ottimo film di Dino Risi, La marcia su Roma (1962), interpretato da Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Invece, no: farsetta o provocazione, la marcia di Forza Nuova ci obbliga a riflettere non soltanto sul nostro passato, ma anche sul presente e su quello che vorremmo fosse il futuro. Naturalmente, li vediamo quelli che, temo con qualche sottovalutazione, chiamiamo “rigurgiti” di fascismo e di nazismo anche in altri paesi europei e nell’America di Trump e dei biechi suprematisti bianchi. Di nuovo, troppo facile sostenere come spiegazione che gli italiani non hanno davvero fatto i conti con il loro passato fascista. È vero, ma bisogna andare oltre prendendo ancora una volta atto che nelle scuole italiane l’insegnamento della storia (che, a mio modo di vedere, dovrebbe sempre accompagnare quello della Costituzione, altrimenti non del tutto comprensibile e apprezzabile) raramente approfondisce il ventennio fascista e quasi mai giunge ai giorni nostri. Non basteranno le assunzioni di migliaia di docenti precari a porre rimedio a una inadeguatezza strutturale.
Farò ancora una citazione colta: “Chi non conosce la storia è destinato a riviverla”. Tuttavia, non credo che ripeteremo la nostra storia, ma dobbiamo confrontarci fin d’ora con due reali problemi. Il primo, che non considero affatto marginale, riguarda la legittimità di manifestazioni come quella progettata da Forza Nuova. Il secondo concerne il tipo di società, prima ancora del sistema politico, nel quale desideriamo vivere. I liberali e i democratici non possono che essere, in linea di principio, contrari a impedire l’espressione di qualsiasi tesi e, persino, di ideologie (che, però, è un complimento troppo grande alle misere elucubrazioni di Forza Nuova) sicuramente non democratiche. D’altronde, l’art. 21 della Costituzione italiana: “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (nel quale possono rientrare cortei, sfilate, marce su Roma e dintorni) è chiarissimo e molti Costituenti avevano sperimentato anche sulla propria pelle la repressione sistematica fatta dal fascismo di quella libertà.
Pure prevista come reato da una legge del 1952, l’apologia del fascismo intesa come esaltazione di esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo e delle sue finalità antidemocratiche è considerata dai liberali più intransigenti in contrasto con la libertà di pensiero. Per essere punita dovrebbe tradursi in incitamento ad azioni violente e degenerare nel ricorso della forza. Ovviamente, sono i prefetti e i questori nonché il Ministro degli Interni a decidere se esiste un rischio imminente di questo genere. Certo, il divieto di quella marcia per ragioni di ordine pubblico consentirà agli organizzatori di esibirsi nel vittimismo e di accusare lo Stato, democratico, di mostrare il suo vero volto repressivo. D’altronde, è molto probabile che, proprio come hanno fatto a Charlottesville i suprematisti bianchi e i loro amici del Ku Klux Klan, l’esito ricercato da Forza Nuova sia proprio lo scontro fisico. Allora, è giusto fermarli preventivamente.
Ciò detto, il problema più importante a mio modo di vedere è la crescita e la diffusione di tutti quei grumi che hanno costituito la mentalità fascista in Italia e altrove (dovrebbero fischiare le orecchie a quei governanti dei paesi dell’Europa orientale che, per fare i conti con il comunismo, recuperano e lucidano brandelli dei loro rispettivi nazional-fascismi): risentimenti e rancori, la violenza, in special modo contro le donne, e l’ intolleranza, specialmente contro i diversi, oggi facilmente identificabili dal coloro della pelle, persino una malposta identità nazionale. Allora, dobbiamo chiederci non soltanto se le scuole sanno diffondere l’indispensabile educazione democratica, ma anche qual è la responsabilità della stessa società civile, troppo ripiegata su se stessa e qualche volta addirittura incivile. La marcetta di Forza Nuova è soltanto una brutta escrescenza. Interroghiamoci sulle nostre carenze di conoscenze, di adempimenti, di comportamenti.
Pubblicato 8 settembre 2017 su La Nuova Sardegna
Commenta (0 Commenti)
La lettera d’accusa al piano migranti dell’Italia e dell’Ue inviata da Joanne Liu e da Loris De Filippi, rispettivamente, presidente internazionale e responsabile italiano di Medici Senza Frontiere (Msf), sia a Bruxelles che al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni – che negli stessi minuti vantava da Lubiana: «I risultati sull’immigrazione si vedono nel senso della riduzione degli sbarchi e dei flussi» – non appartiene a quelle rivelazioni che possono passare inascoltate.
Perché gridano, urlano una verità ormai incontrovertibile.
Il titolo infatti di questo nuovo rapporto della Ong – la stessa che il «Codice Minniti» ha messo all’indice mentre salvava vite umane nel Mediterraneo – potremmo sintetizzarlo con le stesse parole di Msf: «I governi europei complici nell’alimentare il business della sofferenza in Libia».
Accusa Joanne Liu, reduce da un viaggio-inchiesta in Libia di una settimana fa: «Il dramma che migranti e rifugiati stanno vivendo in Libia dovrebbe scioccare la coscienza collettiva dei cittadini e dei leader dell`Europa» che invece, «accecati dall’obiettivo di tenere le persone fuori dall`Europa, con le politiche e i finanziamenti europei stanno contribuendo a fermare i barconi in partenza dalla Libia, ma in questo modo non fanno che alimentare un sistema criminale di abusi».
Perché «la riduzione delle partenze dalle coste libiche – denuncia Msf – è stata celebrata come un successo nel prevenire le morti in mare e combattere le reti di trafficanti, ma sappiamo bene quello che succede in Libia. Ecco perché questa celebrazione è nella migliore delle ipotesi pura ipocrisia o, nella peggiore, cinica complicità con il business criminale».
Ecco gli abusi testimoniati: «Nei centri di detenzione di Tripoli le persone sono trattate come merci da sfruttare. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l’altra. Gli uomini ci hanno raccontato come a gruppi siano costretti a correre nudi nel cortile finché collassano esausti. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. Tutte le persone che abbiamo incontrato – accusa la lettera- dossier di Msf – avevano le lacrime agli occhi e continuavano ripetutamente a chiedere di uscire da lì».
È la conferma del primo reportage televisivo di Amedeo Ricucci per la Rai di un anno fa, di quello della Reuters di questa estate, dei duri giudizi di Angelo Del Boca e Alex Zanotelli, del viaggio a Sabhrata dell’Associated Press (e di questi giorni della Frankfurter Allgemeine) che ha svelato come le milizie di quella città (e delle altre, costiere e non), istruite, finanziate e armate dai nostri servizi, cambino casacca. Diventando da trafficanti le milizie di controllo della disperazione dei migranti, gestendo volta a volta, viaggi micidiali a mare, traffici di esseri umani, torture, stupri e centri di detenzione.
Ma che il j’accuse di Medici Senza Frontiere non può stavolta essere nascosto e tacitato nel silenzio del potere e dei media contigui, viene anche dalla stessa Commissione europea, già in imbarazzo per quei reportage.
«I centri d’accoglienza in Libia sono prigioni – dice la Commissaria Ue al commercio Cecilia Malmstroem già in Libia nel 2016 – e le condizioni in effetti sono atroci»; e anche Catherine Ray, portavoce di Federica Mogherini (Mister Pesc) ammette: «Siamo consapevoli, le condizioni di detenzione sono scandalose e inumane», ma l’Ue vuole «cambiare quelle condizioni» è per questo che «Unhcr-Onu e Oim vengono finanziate con 180milioni di euro». Si danno la zappa sui piedi e non se ne accorgono.
La risposta a questo patto criminale è stata finora in Italia una vergognosa esaltazione dell’emergente ministro degli interni Marco Minniti che sarebbe stato capace di convincere la cosiddetta Libia.
Ma quale? Se quello Stato non esiste più e che sono almeno quattro le parti in cui è divisa dopo la guerra della Nato, con interposti conflitti tra centinaia di clan e fazioni armate.
Una capacità di convinzione appoggiata col «patto di Parigi» anche da Germania, Francia e Spagna. Che, per tenere lontano il misfatto occidentale, autorizzano in Libia, in Ciad e in Niger l’istituzione di un sistema concentrazionario di lager purché i disperati non arrivino in Europa. Con l’aggiunta della «coperta di Linus» di un presunto controllo dei diritti umani da parte dell’Unhcr e dell’Oim.
Per una fase temporale che semplicemente dimentica di rispondere a questa domanda: che fine fa adesso quel milione di migranti e profughi intrappolati in Libia, in cammino nei deserti e senza più vie di fuga? L’importante è che la loro tragedia sia nascosta nella sabbia.
Minniti, manco a dirlo, ammirato a manca e più ancora a destra come astro nascente, ha trovato in quella occasione una schiera di inaspettati elogiatori: Gabanelli, Travaglio, Gramellini, ecc… E guai a criticarlo. Il presidente del Pd Matteo Orfini ha tuonato: «Chi lo critica è una sinistra salottiera»; e gli «antimperialisti» Pierferdi Casini e Nicola Latorre hanno addirittura subodorato l’ingerenza Usa per il petrolio libico.
Siamo davvero curiosi di sapere che cosa dirà ora questo stuolo militante di ammiratori sulla pelle altrui.
Commenta (0 Commenti)
Commenti. Se l’emigrazione è così massiccia vuol dire che le minacce alla vita sono insostenibili in gran parte del pianeta. Significa che la politica deve cambiare. Anche a sinistra
L’articolo 10 della Costituzione prescrive che gli stranieri che non possono esercitare le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» hanno diritto ad essere accolti nel nostro Paese, in quanto «persone» titolari, ai sensi del nostro articolo 2 della Costituzione, di diritti inviolabili a prescindere dalla loro nazionalità o Paese di provenienza.
Non è una vaga, utopica aspirazione, ma il cuore del progetto della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (non solo dei cittadini italiani, nda), sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
È per questo che in Italia esiste un «diritto costituzionalmente garantito» all’asilo: non si può decidere se applicare o meno questa norma, dobbiamo chiederne noi l’attuazione, insieme a quella di tutti i principi che qualificano la nostra democrazia, e che ad oggi restano in gran parte inattuati.
Eppure, in queste drammatiche settimane estive, lo Stato italiano – attraverso il suo governo, e segnatamente il suo ministro dell’Interno – non solo non ha attuato questo principio fondamentale ma ha decisivamente scoraggiato le organizzazioni non governative che soccorrevano in mare i migranti, e ha preso accordi con le autorità di Paesi in cui non sono garantite le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», affinché i loro cittadini e i migranti che ne attraversino i territori non possano fuggirne: cioè non possano aspirare, come noi tutti, a una vita libera e dignitosa.
Siamo di fronte a un grave tradimento della nostra Carta fondamentale e dei Trattati e documenti internazionali che riconoscono e tutelano i diritti delle persone e dei richiedenti asilo. Crediamo che di fronte alle masse che lasciano la propria casa in cerca di diritti, di vita e di futuro la risposta dell’Occidente non possa essere la chiusura e il tradimento dei principi su cui si fondano le nostre democrazie.
Il fenomeno migratorio non si fermerà di fronte al nostro egoismo. Anzi, rischierà di degenerare in uno scontro di civiltà, già abilmente fomentato da chi coltiva la guerra come forma di lucro e dominio sui popoli, a prezzo del sangue dei più deboli e innocenti.
Non possiamo, non dobbiamo, essere pedine di questo gioco al massacro. Abbiamo un orizzonte diverso, che guarda al mondo come casa di tutti e alla globalizzazione dei diritti, come fine dell’azione politica internazionale di chi crede davvero nella democrazia e nell’universalità dei diritti fondamentali.
Tutti i Paesi più ricchi, a partire dall’Italia, devono garantire non solo l’accoglienza promessa delle Carte, ma impegnarsi in una strategia condivisa a livello sovranazionale che crei e garantisca ovunque le condizioni di eguaglianza e giustizia sociale la cui assenza è la vera e prima causa della grande migrazione in atto.
E anche sulla natura e le dimensioni di questo fenomeno la Sinistra ha, innanzi tutto, il dovere di dire la verità: le migrazioni sono processi fisiologici e costanti in un mondo globalizzato, diventano massicce quando le minacce alla vita delle persone diventano intollerabili, quando una parte del mondo vive in condizioni disumane, o non vive affatto, e una piccola parte di privilegiati vive con le risorse di tutti.
Ecco: questo egoismo rischia di trasformarsi in un detonatore. Dobbiamo disinnescarlo. Anche perché sui migranti si sta costruendo l’ennesima menzogna mediatica, che devia l’attenzione dalle emergenze reali della politica, dalle cause reali dei nostri problemi. Insomma: prima si è provato a dire che era colpa della Costituzione. Sappiamo come è finita, il 4 dicembre scorso. Ma ora i mali del Paese, le nostre vite precarie, il taglio orizzontale di diritti e futuro: tutto è colpa dei migranti! Fumo negli occhi di una politica che non sa cambiare e non vuole rimettere al centro le persone, ma spera di «neutralizzarle» mettendo poveri contro poveri, disperati contro disperati. Non ci siamo cascati il 4 dicembre, non ci cascheremo adesso.
Anche perché la piccola parte di migranti che sbarca sulle nostre coste rappresenta solo l’1% del flusso migratorio globale. Fra questi, solo una piccola parte aspira a fermarsi in Italia: non sono un’invasione, né un’ondata oceanica. Non rappresentano affatto una minaccia, semmai una grande opportunità: umana, culturale e anche economica.
Il nostro Paese, in drammatica crisi demografica, ha bisogno di nuovi italiani. Le nostre antiche città aspettano nuovi cittadini. E la perfino timida legge sullo ius soli in discussione in Parlamento è davvero il minimo che si possa fare per costruire questa nuova Italia.
Ecco: stiamo lavorando a un progetto condiviso che permetta a questo Paese di risollevarsi e ripartire, in cui ci sia lavoro vero per tutti, non elemosine e precarietà per pochi. Chi non si ponga in questa prospettiva, chi non ambisca a creare le condizioni per un «Nuovo Inizio» democratico, sociale ed economico, non ha capito qual è il compito fondamentale della politica che vogliono gli italiani.
Ancora una volta: è di questi nodi cruciali che dobbiamo e vogliamo discutere, non della sterile alchimia di sigle e leader.
Continuiamo a credere nella formula che abbiamo proposto al Brancaccio il 18 giugno scorso: ci vuole una sola lista a sinistra del Partito Democratico – un partito la cui involuzione a destra è apparsa, proprio sui temi dell’immigrazione, palese.
Crediamo che anche la situazione della Sicilia confermi questa lettura: mentre il Pd guarda a destra, la sinistra cerca l’unità e la forza per proporre alternative radicali allo stato delle cose.
Si apre un autunno cruciale: proseguono le assemblee regionali, si moltiplicano quelle in città di ogni dimensioni, si preparano quelle tematiche fissate per il fine settimana a cavallo tra settembre e ottobre. Il loro formato è quello che abbiamo sperimentato da giugno in poi: aperto a tutti (associazioni, partiti, singoli cittadini) e senza dirigenze, egemonie o portavoce autonominati.
Decideremo poi insieme, e democraticamente, in una grande assemblea nazionale che sarà indetta alla fine del lavoro sul programma, il tipo di organizzazione che vorremo darci.
Tutto questo è importante: ma è solo un mezzo, uno strumento per metterci in grado di dare il nostro contributo all’attuazione della Costituzione. Il primo traguardo da cui ripartire per costruire un nuovo orizzonte di democrazia partecipata e di cittadini liberi.
Commenta (0 Commenti)
La sinistra che cerca una prospettiva unitaria dovrebbe partire dai fondamentali. Se c’è accordo su questi il passo avanti è possibile. Partiamo dal referendum del 4 dicembre 2016.
Nel 2013 la sinistra ha pagato un prezzo per non avere raccolto la spinta dei referendum vittoriosi del 2011. Grillo capì l’errore e si intestò la vittoria più di quanto non avesse meritato sul campo.
La vittoria del No ha impedito la manomissione della Costituzione. Il problema ora non è se si era schierati per il No, quanto riconoscere che andava sconfitto un disegno accentratore e autoritario.
Partire dal referendum è importante perché riguarda il futuro democratico del nostro paese, la sua qualità, il diritto di avere diritti come scrisse Rodotà, contro la normalizzazione pretesa dai processi di globalizzazione.
È un errore sottovalutare la spinta potente alla base del tentativo di modifica della Costituzione. Ci sono centri di potere finanziari e politici che chiedono da anni di cambiare le Costituzioni dei paesi del sud Europa e dell’Italia in particolare, perché troppo influenzate dalla sinistra. I documenti sono noti. Banche di affari, centri di decisione finanziaria ed economica, multinazionali, ritengono la partecipazione democratica, forse la stessa democrazia, una perdita di tempo. E premono affinché le decisioni che a loro interessano siano adottate con le stesse modalità delle aziende. Ci sono settori politici che si adeguano, ma la sinistra deve opporsi.
La globalizzazione vera è questa: decisioni planetarie adottate in pochi e ristretti centri di potere economico. La pressione per modificare la Costituzione ha questo retroterra di poteri e di cultura e punta ad adottare decisioni rapide e inappellabili. Per questo l’attacco è destinato a tornare malgrado il voto del 2016 e sarà più determinato, più incisivo di quello tentato da Renzi. Si parla apertamente di cambiare non solo la seconda parte della Costituzione (Galli della Loggia) ma anche la prima (Panebianco). Finora era mancato il coraggio di prendere di petto l’insieme della Costituzione. Ora non più. Per questo la legge elettorale è centrale e deciderà del nostro futuro democratico. Nella Costituzione non c’è la legge elettorale. Questo ha costretto la Corte a intervenire più volte per ridare coerenza costituzionale alle leggi elettorali. È una garanzia che non ci ha impedito di votare tre volte con il Porcellum prima che venisse dichiarato incostituzionale. Nel 2018 si tornerà a votare ma non si sa con quale legge. Allo stato si voterà con due leggi che sono il risultato di due diverse sentenze della Corte su leggi diverse. Il parlamento, eletto con una legge incostituzionale, dovrebbe sentire il dovere di approvare una legge elettorale coerente per camera e senato. Purtroppo è un parlamento composto da nominati dai capi partito. I partiti sono ridotti a dependance dei loro capi. Un disastro che ha già reso il parlamento debole, senza credibilità. È evidente che in un nuovo parlamento di nominati, imbelle e subalterno, riprenderanno disegni neoautoritari, presidenzialisti, tali da ridurlo a sede di ratifica. Mentre oggi la nostra Costituzione mette il parlamento a fondamento dell’assetto democratico.
Per evitare questa regressione e per garantire che i principi della prima parte vengano attuati e non svuotati è necessario che i parlamentari vengano scelti direttamente dagli elettori.
È inaccettabile che i capi partito decidano da soli se e quale legge elettorale approvare. La camera il 6 settembre riprenderà l’esame della legge elettorale. Occorre un’iniziativa forte per impedire che vengano usati nuovi pretesti per fare saltare tutto e per evitare che torni dalla finestra quello che il referendum ha bocciato. Il 2 ottobre abbiamo convocato un’assemblea nazionale alla camera per lanciare, come l’11 gennaio 2016 per il No, una campagna di informazione e di mobilitazione per impedire anzitutto il sequestro delle decisioni. L’attenzione dell’opinione pubblica sulla legge elettorale non è paragonabile a quella sulla Costituzione, anche per un’opera di depistaggio e di informazione confusa. La sinistra alla ricerca di una sintesi dovrebbe farne un punto centrale, superando posizioni subalterne verso le forze che oggi sono maggiori anche perché il loro ruolo non viene messo in discussione.
*Vice presidente Coordinamento democrazia costituzionale
Commenta (0 Commenti)
Movimento 5 Stelle. Quel «l’uno vale uno» di Grillo è la sconfessione della democrazia rappresentativa. E se si chiedono meno parlamentari aumenta il numero dei rappresentati
La cosa forse più sorprendente del “pacchetto” di riforme costituzionali pubblicate dal Movimento 5 Stelle è lo scarto che corre tra le roboanti dichiarazioni di rottura che le accompagnano («vogliamo rivoluzionare il nostro sistema istituzionale», si legge sul sito di Beppe Grillo) e la pochezza delle innovazioni istituzionali proposte al voto dei militanti: raramente si erano visti rivoluzionari tanto conformisti e poco fantasiosi.
Sarebbe facile ironizzare sull’ingenuità di alcune proposte (il voto ai sedicenni; il coinvolgimento diretto dei cittadini nelle «decisioni importanti»; la previsione di una fantomatica «cittadinanza digitale per nascita»), così come sulla contraddizione tra la partecipazione alla campagna per il No alle riforme renziane e alcune delle modifiche agognate (la riduzione del numero dei parlamentari; l’abolizione del Cnel e delle province; il potenziamento del referendum; l’idea – espressa con il consueto linguaggio “autostradale” di tutti i nostri riformatori – delle regioni come enti di «raccordo»; l’ennesima semplificazione del procedimento amministrativo).
E ancora più facile sarebbe mettere in luce il vuoto di cultura costituzionale in cui molte di tali proposte sono calate: a qualcuno tra i grillini sarà mai venuto il sospetto che l’ampio ricorso ai referendum in Svizzera sia da mettere in relazione con la forma di governo direttoriale vigente in quel Paese?
Più interessante pare, tuttavia, evidenziare la continuità culturale esistente tra le idee costituzionali del Movimento 5 Stelle e le torsioni subite dal nostro sistema istituzionale negli ultimi trent’anni.
La svolta maggioritaria impressa con i referendum elettorali del 1993 ha avuto l’effetto di trasformare il nostro sistema in una democrazia sempre meno basata sulla mediazione politica svolta dai partiti e sempre più incentrata sul ruolo di leader capaci di entrare direttamente in rapporto con gli elettori.
A partire da quel momento, si sono susseguiti lo smantellamento delle strutture partitiche organizzate, la nascita di formazioni volutamente “leggere”, la personalizzazione della contesa politica, la convergenza programmatica dei diversi schieramenti, la rinuncia alla selezione della classe dirigente connessa all’abuso delle primarie (sino all’umiliazione della militanza con l’apertura a tutti della scelta del segretario del partito), l’abolizione del finanziamento pubblico, il disprezzo del compromesso politico ridotto a “inciucio”, il velenoso mito del governo “eletto” la sera stessa delle elezioni (o, come ha detto Mario Dogliani, la funebre retorica del governo “uscito dalle urne”).
Questa idea che niente debba frapporsi alla spontaneità del rapporto intercorrente tra eletti ed elettori – perché altrimenti questi ultimi verrebbero espropriati del proprio scettro – è perfettamente in linea con la concezione politica dei grillini. Basti pensare all’intuizione fondamentale di Grillo, quell’«uno vale uno» su cui il movimento ha costruito buona parte delle proprie fortune: di cos’altro si tratta, se non dell’aperta sconfessione della democrazia rappresentativa?
(E sorprende sentire oggi, a sinistra, voci per le quali l’aggregazione politica in costruzione dovrà esser tale per cui «davvero uno vale uno»).
La rappresentanza implica, di per sé, che uno – il rappresentante – valga per molti – i rappresentati – ed è curioso come i grillini non si rendano conto quanto la loro avversione per la rappresentanza sia in insanabile contraddizione con la riduzione del numero dei parlamentari, altro loro punto fermo: non è difficile comprendere che meno sono i parlamentari, maggiore è il numero di elettori che gli eletti saranno chiamati a rappresentare…
La demolizione dei corpi intermedi, politici e sociali, è stata perseguita con lucidità e tenacia dal capitalismo, che proprio in essi – nei partiti socialdemocratici e nei sindacati dei lavoratori, in particolare – aveva trovato il maggior ostacolo alle proprie pulsioni predatorie. Ridurre la controparte a una moltitudine di individui disorganizzati è stata la precondizione per lo smantellamento della legislazione sociale approvata nel dopoguerra.
Nella loro caparbia pretesa di affermare “senza se e senza ma” la sovranità individuale – «io decido per me, mi informo su internet e non delego niente a nessuno» – i pentastellati si propongono ora come i più solerti esecutori di tale disegno (non a caso, anche i sindacati sono oggetto dei loro strali): ricordando il titolo di un preveggente libro di Marco Revelli, le due destre sono diventate tre.
Rivoluzionare davvero l’esistente implica un’inversione di rotta. Occorre riscoprire il valore della mediazione (che è anche medi-t-azione) politica, operare per la ricostituzione dei partiti e per una rappresentanza che sappia davvero intercettare le domande che salgono dalla società, ridurle a sintesi, trasformarle in progettualità politica.
Molte idee alternative sono circolate durante la campagna referendaria: circoscrivere lo strapotere del governo in Parlamento (per esempio, eliminando l’iniziativa legislativa dell’esecutivo e rendendo inemendabili i decreti-legge), trasformare il Senato in una camera di “raffreddamento” attivabile all’occorrenza, aumentare le maggioranze di garanzia, ripoliticizzare le competenze delle autorità (a parole) «indipendenti», eliminare le anacronistiche specialità regionali, superare la pletora di enti sovracomunali rafforzando (non abolendo) le province, ridare fiato alla rappresentanza nelle regioni e nei comuni, …
A quando una sinistra capace di farsi carico di questi problemi?
Commenta (0 Commenti)
Repliche a Donini
Repliche di Paola Bonora su Articolo 9 blog - la Repubblica e di Piergiovanni Alleva alle dichiarazioni dell'assessore Donini a seguito dell'articolo di Tomaso Montanari sul disegno di legge urbanistica dell'Emilia-Romagna. 14 agosto 2017 (p.d.)
la Repubblica, Articolo 9 blog - 14 agosto 2017
LEGGE URBANISTICA EMILIA-ROMAGNA:
PERCHÉ E' PERICOLOSA
di Paola Bonora
L'8 agosto ho pubblicato su Repubblica un articolo dedicato alla pessima legge urbanistica che sta per essere approvata dal Consiglio Regionale dell'Emilia Romagna. Il giorno dopo ha replicato, con molto spazio e nessun argomento, l'assessore Donini. Io non ho avuto occasione di replicare. Lo fa ora, con la lettera che pubblico di seguito, una delle massime esperte di consumo di territorio, la bolognese Paola Bonora. (t.m.)
Caro Tomaso,
avevo letto con grande piacere il tuo articolo su Repubblica dell’8 agosto sulla legge urbanistica dell’Emilia-Romagna. Speravo nell’apertura di una discussione nazionale visto con quanto impegno il giornale affronta il tema dell’abusivismo e del destino del territorio martoriato da troppe costruzioni. Ma la risposta dell’assessore di due giorni dopo sembra aver messo un macigno su qualsiasi confronto, a conferma che l’Emilia appartiene a un universo parallelo inscalfibile, non è chiaro se per l’antica reputazione o se per disegni neogovernativi che solo qui possono mostrare consenso.
Non a caso non si è mai aperta una riflessione sulle scelte urbanistiche operate in Emilia-Romagna, sia in termini di suolo consumato (sempre tra le quote più alte a livello nazionale), che di strumenti urbanistici e fiscali applicati (fino a illeciti ammanchi erariali che hanno superato il mezzo miliardo di euro a favore dei costruttori proprio negli anni delle plusvalenze stratosferiche della bolla speculativa - come ho documentato sulla rivista il Mulino). Nell’indifferenza generale e nell’illuminata continuità dell’amministrazione.
Ciò che stride in questo fervore estivo contro l’abusivismo è il non accorgersi che il problema non è solo la liceità degli insediamenti, ma la loro entità. Per carità non voglio neanche lontanamente difendere o giustificare l’abusivismo, neppure quello cosiddetto “di necessità”, ma la questione non sta solo nella concessione preliminare alla costruzione, ma nella quantità immane di costruzioni comunque realizzate - nonostante la crisi, nonostante l’invenduto, nonostante il disastro ambientale e paesaggistico. Nonostante le fervide dichiarazioni di intenti.
Le parole con cui l’assessore regionale ti ha risposto sono emblematiche: non si è preso neppure il disturbo di controbattere, si è chiuso nella vuota retorica del linguaggio propagandistico e ha ripetuto le falsità che da mesi va ripetendo a chi muove critiche. Le tue argomentazioni non sono state neppure sfiorate.
Una legge che consentirà una liberalizzazione insensata grazie a deroghe prive di margini, controproducente sotto il profilo economico in una situazione che ancora risente del surplus produttivo, irrazionale in termini urbanistici nel rifiuto di piani istituzionalmente definiti, antidemocratica sul versante delle potestà municipali schiacciate dalle opzioni di investimento private. Figlia dell’insana passione neoliberista del centro-sinistra per il cemento e l’asfalto. Al cui riguardo l’assessore rivendica la primazia emiliana: sempre i primi della classe questi ligi emiliani, peccato l’affermazione soffra anche di un grave difetto di informazione. Persino Confindustria, nell’audizione consultiva, ha protestato per gli eccessi di indeterminatezza e vacuità del ruolo istituzionale: non se la sentono, i costruttori, di assumersi la responsabilità di sostituirsi alle istituzioni. Che ognuno si assuma le proprie. Paradossale. E desolante.
Ma da noi l’ipocrisia legalista è prassi consolidata, non si abusa, si deroga. Molto più semplice, si inventano le scappatoie e si legittima a priori. Tutto regolare. Condoni preventivi. Avrei casi scandalosi da raccontare di insediamenti, regolarmente licenziati attraverso fantasiose normette ad hoc, privi di opere di urbanizzazione tra cui addirittura le fogne. Dov’e la differenza con il Sud? Quando anche le entrate fiscali diventano sempre più misere - come la legge in discussione ora prescrive.
Questo chiasso tardivo sull’abusivismo (fenomeno notissimo e denunciato da tempo) rischia di diventare un altro modo per distrarre l’attenzione da problemi e contraddizioni ancor più gravi. Nel silenzio assordante che in nome della crescita consente scempi “legali”. Sarebbe il momento di aprire una discussione seria sui principi di legalità e di interesse pubblico, in urbanistica continuamente strapazzati e distorti. Ma siamo vittime della retorica di quest’epoca barbara che ha perso intelligenza e cerca di abbagliarci con giochi di parole cui non corrispondono realtà.
Paola Bonora
RISPOSTA A DONINI...
OVVERO DI BELLE INTENZIONI E' LASTRICATO IL PAVIMENTO DELL'INFERNO
di Piergiovanni Alleva
Occorre dare atto all'Assessore alle infrastrutture della Regione Emilia-Romagna di essere un interlocutore affabile e dialogico, infatti il più delle volte (non proprio sempre) non si sottrae al confronto. Egli è anche intervenuto al primo convegno “Fino alla fine del suolo” – promosso in Regione dall'Altra Emilia Romagna, insieme al M5S, nello scorso mese di marzo –, dopo aver ascoltato gli interventi degli eminenti urbanisti e studiosi che hanno mosso argomentate critiche alla proposta di legge della Giunta “disciplina regionale sulla tutela e l'uso del territorio” numero 218 del 27 febbraio 2017.
Anche in quell'occasione, come nella recente risposta all'articolo di Tomaso Montanari (la Repubblica, 8 agosto scorso) che riprende la sua prefazione al libro promosso da AER “Consumo di luogo” (ed. Pendragon, curato da Ilaria Agostini, ricercatrice di urbanista presso l'Università di Bologna), egli evita accuratamente di entrare nel merito degli argomenti che evidenziano le vistose incoerenze e contraddizioni che pongono radicalmente in discussione gli enunciati obiettivi della proposta di limitazione nel consumo di suolo, di semplificazione delle procedure, di difesa della legalità e di sviluppo economico attraverso la riqualificazione urbana. Una legge che mette in allarme non folle di esagitati contestatori, ma il meglio della cultura urbanistica di una Regione che fu all'avanguardia in Italia per la capacità di preservare il territorio dalle offese inflitte in tante altre parti del Paese.
Donini fa soprattutto professione di fede.
Dimentica di dire che la legge impone una svolta decisa verso la contrattazione pubblico-privato, esautora i comuni dai poteri di pianificazione urbanistica e li obbliga a raggiungere accordi con i privati entro scadenze brevi e perentorie. Che oblitera l’istituto degli standard urbanistici, garanzia di democratico accesso ai servizi. Che punta su una rassicurante “rigenerazione urbana” fondata su operazioni di “addensamento” e di demolizione e ricostruzione di edifici o di interi isolati, esenti da qualsiasi condizionamento e disciplina urbanistica cogenti. Una “rigenerazione” che si preannuncia foriera di diseguaglianze, espulsioni e marginalizzazioni.
Ma non dimentica di proclamare ore rotundo lo slogan del contenimento di uso del suolo. L'articolo 6 del disegno di legge pone effettivamente un limite al nuovo suolo consumabile. Ma Donini non dice che la soglia del 3% – quota peraltro in sé troppo elevata – si sommeranno quantità provenienti dalle vigenti previsioni comunali e le volumetrie derivate dagli accordi operativi in deroga.
Sui centri storici, Donini garantisce continuità. Non è vero: l’art. 33 introduce pericolose deroghe in merito alla conservazione dei caratteri tipologici e formali delle città storiche, al mantenimento delle destinazioni d’uso in atto, al divieto di edificazione di aree e spazi rimasti liberi ad usi urbani collettivi. Il PUG (Piano Urbanistico Generale che assorbe ogni altro strumento di pianificazione comunale) può peraltro prevedere in ambiti determinati del centro storico l’attuazione di tali modifiche mediante «accordi operativi» (ovvero contratti pubblico-privato congegnati dal DdL ad esclusivo vantaggio della parte privata) e può individuare parti del centro storico, «prive dei caratteri storico architettonici» (sic), nelle quali sono ammesse interventi di riuso e rigenerazione anche con aumento delle volumetrie.
È del tutto evidente quali spazi si aprano all'intervento arbitrario in luoghi ove finora non è stato permesso modificare le architetture, e che sono il patrimonio residuo del nostro Paese. Come ebbe a dire Pierluigi Cervellati, «da questa disposizione può discendere che si può pensare nel centro di Bologna, in uno spazio cui sia riconosciuta la possibilità di derogare dai divieti, di costruire un edificio a forma di tortellino per magnificare la cultura gastronomica petroniana....». Qui si alterano rendendoli legali principi di salvaguardia di un patrimonio che non può che essere unitario e intangibile.
Si può continuare nelle citazioni illustri: Giovanni Losavio già magistrato in Cassazione e presidente di Italia nostra sezione di Modena denuncia che «sono travolti i principi fondamentali di governo del territorio, offesa l'autonomia comunale». Egli pone in discussione che siano lesi con questa legge, che svuota di fatto le funzioni di pianificazione, due principi fondamentali della legislazione nazionale: «il principio della potestà urbanistica alle istituzioni pubbliche rappresentative della Comunità, e quello dipendente dal primo, secondo cui i modi dell'edificare debbono corrispondere a regole normativamente predeterminate e fissarne i limiti che non possono essere affidati al libero accordo tra amministrazione comunale e privato imprenditore», esattamente l'architrave invece di questa proposta di legge che tutto affida agli accordi e alla negoziazione tra privati e pubblico.
A questa proposta di legge – non fondata su una lucida ricognizione dello stato del territorio regionale, afflitto da un’ipertrofia edilizia che innalza pericolosamente il rischio idrogeologico – manca il respiro culturale, e fa suo l’affanno del turbocapitalismo: per risolvere le patologie territoriali manifestatesi quale risultato dell’applicazione dei principi neoliberisti, esso dispone un’accelerazione proprio di quei processi che sono stati la causa del male.
Eppure non mancherebbero esempi di buona legislazione regionale da cui attingere: la Toscana, come ricorda l'ex assessore Anna Marson in “Consumo di luogo”, con la legge 65/2014 affronta il contrasto al consumo di suolo, attraverso punti qualificanti: «il divieto esplicito di nuove costruzioni residenziali al di fuori del territorio già urbanizzato, attraverso anche disincentivi procedurali e finanziari; l'obbligo di dimostrare l'assenza di alternative praticabili, per richiedere nuove edificazioni in area agricola per le altre destinazioni d'uso ammesse; il combinato disposto tra criteri dettati dalla legge e piano paesaggistico, per individuare i confini del territorio urbanizzato ecc.». Dell’esempio virtuoso è stata tratta unicamente la definizione di suolo urbanizzato, ma è stato trascurato il messaggio di fondo: lo spreco di suolo si contiene opponendogli agricoltura “multifunzionale” di qualità, che offre servizi ecosistemici, posti di lavoro e nuove qualità paesaggistiche, come scrive Piero Bevilacqua.
Donini afferma che c'è disponibilità a modificare il testo nella prossima discussione degli emendamenti; pur convinti della pressoché totale inemendabilità della legge per le innumerevoli e stridenti incoerenze, abbiamo lavorato con il prezioso contributo della pattuglia di architetti di massima competenza regionale Ezio Righi, Pero Cavalcoli e Maurizio Sani, per formulare un insieme di proposte di emendamento che consentano almeno in parte evitare le brutture del testo proposto. Nelle nostre critiche non siamo soli, le hanno espresse in vario modo diverse a autorevoli associazioni: Italia Nostra, attiva nell’opposizione sin dal primo momento, l'Istituto Nazionale di Urbanistica e Legambiente, solo per citare le più note, mentre il confronto con le realtà locali non è stato ampio ed esauriente come Donini afferma, tutt'altro: il dissenso a questa proposta è molto esteso e forte. Le proposte di emendamenti sono state depositate e firmate congiuntamente oltre che dall'Altra Emilia Romagna, anche dai rappresentanti di Sinistra italiana e di Articolo 1 MDP, a riprova di un'ampia convergenza unitaria, ulteriori proposte di modifica verranno avanzate. Vedremo se dal confronto si determineranno condizioni più favorevoli. Se son rose fioriranno.
Piergiovanni Alleva
consigliere regionale AER
Commenta (0 Commenti)