Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto.

di Anna Falcone

da "Il Manifesto" del 28.12.2017

Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta – per chi voglia raccoglierla seriamente – la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto

Commenta (0 Commenti)

 Italia in Africa. No allo ius soli, sì a una nuova avventura militare. L'annuncio della nuova missione militare in Niger.

Da una guerra «umanitaria» all’altra. La scia nefasta non si ferma. Nemmeno a Natale, nemmeno per le feste. Così il presidente del Consiglio Gentiloni, ex pacifista – insieme all’altra ex pacifista, la ministra della difesa Pinotti – proprio dal ponte di una nave militare ha annunciato l’ennesimo intervento militare mascherato da soccorso umanitario. Dove? Siccome abbiamo sconfitto il jihadismo dell’Isis a Mosul, sposteremo quelle truppe nell’Africa sub-sahariana, per fermare «i flussi dei migranti e il terrorismo». A Mosul i bersaglieri ufficialmente proteggevano la diga di Mosul e gli investimenti lì dell’impresa italiana del gruppo Trevi (famosa per i rcenti crolli in borsa). A Mosul l’estremismo jihadista, la cui origine deriva dalla distruzione dello Stato iracheno per effetto di tre guerre occidentali – del terrore provocato da queste guerre si preferisce tacere -, lascia sul campo il corpo dilaniato dell’Iraq in un conflitto intestino che ancora brucia.

La frontiera del sud-Sahara è lunga più di 5mila chilometri, più che impossibili da controllare, più che permeabili alle fughe dei disperati dall’Africa in generale e dal Sahel in particolare; da quell’Africa dove divampano 35 guerre e dove il nostro modello di rapina depreda le risorse e per farlo unge le corrotte leadership locali (dalla Nigeria al Niger, dal Mali al Ciad al Burkina Faso, ecc.).

In questa situazione il governo che si avvia a chiudere i battenti, dentro una legislatura finita, annuncia l’invio di centinaia di soldati italiani, facendo perfino trapelare la possibilità – e sarebbe la vergogna delle vergogne – che sulla missione, della quale non sappiamo nemmeno il costo e chi la pagherà, si voti subito. Insomma, no allo ius soli ma sì ad una nuova avventura militare africana.

Come se quella in Libia del 2011 non si fosse dimostrata insieme fallimentare e generatrice del disastro che ne è seguito e del quale vediamo le conseguenze ogni giorno, nelle morti a mare e nelle guerre mediorientali che non finiscono. Dobbiamo però stare tranquilli dicono i generali che già prendono armi e parole: sarà una missione «no combat». Ma che senso hanno regole d’ingaggio affidate alla televisione e che presentano i militari italiani come «addestratori», quando in loco – in Niger – invece già si combatte duramente e da tempo, come dimostra la recente uccisione proprio in Niger – con tanto di polemica tra le famiglie delle vittime e uno sprezzante Donald Trump – di quattro marines delle forze speciali Usa?

Naturalmente «addestrarli» – facendo un favore al neocolonialismo francese di Macron che in Niger è di casa – vuol dire «aiutarli a casa loro», aiutarli a rinfocolare la guerra che alimenta il circolo vizioso delle stragi, delle fughe e dei profughi. Per le quali c’è una svolta: una sorta di Concordato sulle migrazioni.

È stato in questi giorni l’altro campione governativo, il coloniale Minniti che ha ricevuto, insieme al benedicente cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) l’arrivo di 162 migranti salvati con un corridoio umanitario «legale» dai centri di detenzione in Libia, indicando anche che potrebbero essere 10mila i migranti che potranno arrivare in Europa regolarmente dai campi e dalle carceri libiche, con la garanzia dell’Unhcr, che verificherà in Libia chi ha diritto alla condizione di rifugiato e chi no, e della Conferenza episcopale italiana; e poi, secondo gli obiettivi attribuiti all’Organizzazione mondiale dei migranti (Oim), dovrebbero essere invece 30mila i migranti giudicati senza diritto d’asilo, che dovranno tornare a casa con rimpatri «volontari».

Onestamente, siamo davvero contenti per i primi arrivati, i 162 liberati dalle condizioni di detenzione in Libia, e davvero felici per l’annuncio dei, forse, 10mila nel 2018 – meno invece per i 30mila già previsti come «ricacciati» a casa. Ma perché intanto il governo italiano ha contribuito a chiudere la rotta del Mediterraneo intrappolando in Libia da 700mila a un milione di persone – dalle stime della stessa Onu?

Perché, per un esodo che è epocale, abbiamo criminalizzato le Ong che soccorrono sulle coste libiche i migranti? Perché li abbiamo consegnati al controllo delle cosiddette autorità libiche, le stesse che dovrebbero garantire la svolta natalizia-concordataria di Minniti, e che invece continuano a non controllare alcunché, in un Paese in guerra e in mano a centinaia di milizie che volta a volta si chiamano esercito governativo o guardia costiera, ognuna delle quali gestisce centri di detenzione e di tortura fin qui per conto nostro?

Di quell’Italia ormai capofila, con il Codice Minniti, dell’Unione europea sui migranti, mentre i Paesi europei a ovest si aprono a parole e a Est si chiudono minacciosi e razzisti con i muri, rifiutando perfino la misera ripartizione di un’accoglienza che invece dovrebbe essere epocale. Mentre scriviamo è stato salvato nella notte un barcone con 250 migranti, ma si teme per la sorte di altre due imbarcazioni di fortuna per ora pericolosamente disperse tra Libia e Canale di Sicilia.

Francamente, gli annunci del trio Gentiloni-Minniti-Pinotti risultano angusti e oscuri anche da un punto di vista elettorale. Così accontentiamoci del solo principio che avanza, anche quello fortunato per chi capita. È il principio della lotteria. Come per il migrante numero centomila sbarcato a Lampedusa prima dell’estate: grazie alla nascita miracolosa della piccola Miracle, avrà l’atto di nascita della figlia e quindi forse la possibilità di ottenere il diritto d’asilo.

 

 

 

 

Commenta (0 Commenti)

Un’immagine del presidio

Gli attivisti fanno un appello ai Consiglieri regionali: "C'è urgenza di salvaguardare il poco territorio vergine rimasto in regione"

Srotolando un grande striscione con la scritta “No al cemento” Legambiente, assieme a cittadini e comitati, si è presentata oggi, 19 dicembre, all'appuntamento del voto della nuova Legge Urbanistica regionale per l'ultimo appello ai Consiglieri regionali: garantire un limite certo al consumo di suolo.

Commenta (0 Commenti)

da Huffington Post

"Liberi e uguali" e le lezioni del "Brancaccio": il bisogno di un nuovo partito della sinistra

07/12/2017
di Antonio Floridia Politologo

La nascita di "Liberi e uguali" è una "grande occasione mancata", come ritiene Tomaso Montanari? E perché il "percorso del Brancaccio" si è interrotto? Forse occorre riflettere meglio su quanto accaduto veramente a sinistra in queste ultime settimane. Una lettura ricorrente, ma troppo semplicistica, si fonda sull'idea che i "partiti" abbiano soffocato nella culla un promettente risveglio della "società civile". Ma è così? Certo, si possono cogliere vari limiti nel processo avviato domenica scorsa: ma questi limiti non nascono dall'invadente presenza dei partiti: al contrario, sono legati a un dato di fatto, l'assenza di un partito degno di questo nome. Di più: le potenzialità di questo progetto potranno svilupparsi solo se – in tempi ragionevoli – riesce a prender corpo l'idea di un nuovo partito della sinistra.
Il percorso del Brancaccio si è arenato, a mio parere, perché si fondava su un'erronea contrapposizione tra "società civile" e "politica". Il presupposto è che esistesse una diffusa, ma inespressa propensione ad un'intensa e vibrante "partecipazione dal basso": ma, molti lo potranno testimoniare, le assemblee del "Brancaccio" erano fatte in larghissima parte da "militanti e reduci", provenienti dalle mille storie della sinistra. Rispettabilissime persone, beninteso: ma a che titolo le possiamo definire come espressione della "società civile"? Possiamo farlo, certamente, ma nella stessa identica misura in cui possiamo definire tali le tante persone che hanno affollato, in queste stesse settimane, per esempio, gli incontri con Bersani o D'Alema: persone senza più appartenenza di partito, che sperano di trovare una nuova casa politica . Gli uni e gli altri sono, allo stesso titolo, "apolidi di sinistra" o - per dirla con il Manzoni - "un volgo disperso che nome non ha...", a cui – nell'approssimarsi delle elezioni – occorreva dare una qualche prospettiva politica.
Possiamo cogliere alcuni "vizi d'origine" nell'idea di "partecipazione dal basso" che ha ispirato il Brancaccio. In un loro intervento, nel tentativo di riaprire un cammino unitario, Falcone e Montanari proponevano "un'assemblea in cui migliaia di persone presenti fisicamente, e altre migliaia sulla rete, possano votare a suffragio universale su programma, leadership, criteri delle candidature, comitati etici e di garanzia" (18 novembre): un vasto programma, senza dubbio; ma era un'idea di partecipazione realistica e praticabile? E poi, a ben guardare, cos'altro descrive tutto questo

Commenta (0 Commenti)

E' appena trascorso un altro 12 dicembre. 48 anni dopo quel 12 dicembre 1969: un giorno che segnò profondamente un'intera generazione e la storia d'Italia del dopoguerra.
Ho letto in rete di tutto sull'attentato di piazza Fontana. Fra balle e fantasiose ricostruzioni, quale memoria abbiamo trasmesso alle generazioni successive? Quello che resta nel migliore dei casi è una vicenda confusa e contraddittoria e il luogo comune irresponsabilmente o dolosamente propalato per cui "non sapremo mai la verità".
Eppure non è così, proprio non è così: la verità si conosce, eccome! E' addirittura una verità giudiziaria, anche se i responsabili non sono stati puniti. Ce lo ricorda efficacemente Guido Salvini, un magistrato coscienzioso che ha fatto il suo mestiere rifuggendo da ogni sovraesposizione mediatica, in questo articolo apparso ieri su "Il Fatto quotidiano".
Riferisce Salvini che:
Carlo Digilio "non solo un ordinovista, ma un informatore dei servizi di sicurezza interni alle basi americane del Veneto" fu "partecipe alla fase organizzativa della strage e alla preparazione dell’esplosivo",
"Ordine nuovo è l’artefice della strage di piazza Fontana",
su "Freda e Ventura è stata raggiunta, con i nuovi elementi raccolti, la prova “postuma” della loro colpevolezza",
"la direzione del Sid a Roma nella persona del generale Maletti, vicecapo del Servizio" ha operato "una soppressione di prove in piena regola",
Tutte verità contenute in sentenze passate in giudicato: furono i fascisti con la copertura dei servizi segreti italiani e sotto l'occhio benevolo della CIA.
Alessandro Messina

Da “Il Fatto Quotidiano” del 12 dicembre 2017
Piazza Fontana, sappiamo la verità

di Guido Salvini (Magistrato a Milano)
Le indagini milanesi degli anni Novanta sulla strage di Piazza Fontana non sono state affatto inutili. Anche le sentenze di assoluzione hanno una “virtù segreta” e cioè scrivono esplicitamente cose chiare. Scrivono che colpevole era Carlo Digilio e partecipe alla fase organizzativa della strage e alla preparazione dell’esplosivo, e infatti la sua sentenza di estinzione del delitto per prescrizione pronunciata in primo grado in ragione della sua collaborazione non è stata più toccata dalle sentenze successive. Scrivono che l’ideazione e l’esecuzione della strage era sicuramente riferibile alle cellule di Ordine nuovo del Veneto e che nei confronti di Freda e Ventura è stata raggiunta, con i nuovi elementi raccolti, la prova “postuma” della loro colpevolezza, non essendo essi più giudicabili perché assolti per insufficienza di prove nei processi precedenti.
Quindi Ordine nuovo è l’artefice della strage di piazza Fontana così come degli attentati che l’hanno preceduta, quelli iniziati in progressione dall’aprile 1969, per i quali i suoi esponenti sono già stati condannati con le sentenze di Catanzaro e di Bari. È questa la base minima, almeno sul piano storico, su cui discutere. Se vi siano altre responsabilità concorrenti, in alto o in basso, per ora non lo sappiamo. Ma questo sì. Addirittura dopo la sentenza sono emersi elementi di accusa nuovi a carico della cellula padovana come l’esistenza, raccontata da un militante che ne faceva parte, Gianni Casalini, in un lungo racconto reso poco prima di morire, di un arsenale, con esplosivi, del gruppo alla periferia di Padova. Tale arsenale è tuttora esistente, sotto alcune villette costruite in seguito. Casalini ha anche narrato di aver partecipato

Commenta (0 Commenti)

"Liberi e Uguali" avvia un processo unitario che non va guardato con pigro scetticismo, sufficienza o rancore, ma con occhio critico, attenzione e partecipazione. Nessuno è perfetto e Piero Grasso non lo è. Però merita rispetto e fiducia, anche se la giostra dei leader che cambiano (Pisapia docet) rivela vecchie logiche di partito

Sui grandi giornali, come in tv, è iniziata la campagna per il voto utile urlato da Renzi e dal Pd contro un nuovo protagonista, Piero Grasso, e un nuova aggregazione della sinistra appena battezzata “Liberi e Uguali”. Un atto di nascita di fronte a migliaia di persone, in una discoteca romana che già nel nome, “Atlantico”, fa immaginare una lunga navigazione in mare aperto.

E’ una sinistra, nella parte che fa riferimento a Bersani e compagni, che viene da lontano (dal Pci) e oggi approda, in conseguenza di una scissione, a una lista elettorale in forte dissenso verso le politiche renziane che essa stessa ha condiviso per molti anni (con la fondazione del Pd) aderendo alla grande sbornia neoliberista che in Italia e in Europa ha bombardato lo stato sociale.

Poi c’è una sinistra radicale, come Sinistra italiana, che quelle politiche non le ha mai condivise e le ha combattute nelle istituzioni e nella società. E anche questa sinistra era tra le forze che domenica hanno vissuto un momento importante di reciproco riconoscimento, insieme alle persone che hanno partecipato all’assemblea dell’Eur. Dove si sono ascoltate le voci di chi combatte su ogni fronte. Da Lampedusa, alla fabbrica del panettone, al laboratorio di ricerca. Voci che raccontavano lotte quotidiane contro la diseguaglianza nelle sue varie forme.

Contenuti essenziali di un programma in parte già disegnato, che dovrà essere ben chiarito nella fase che seguirà fino a comporre nei prossimi mesi una piattaforma e una lista elettorale. Tappa intermedia verso la costruzione di un partito della sinistra italiana.

Questa almeno è l’ambizione di chi domenica era presente a Roma, venuto da ogni parte del paese per testimoniare l’urgenza di una scelta. E del resto avviare il percorso di una forza politica di sinistra, elettoralmente non irrilevante e politicamente in sintonia con le sinistre europee di alternativa, è qualcosa che certamente risponde a una domanda diffusa.

Anche per queste sommarie considerazioni non si deve guardare al processo unitario, rappresentato dalla figura di Piero Grasso, né con sufficienza, né con pigro scetticismo, né con rancore ma con attenzione, partecipazione e anche occhio critico.

Proprio come questo giornale ha fatto, alcuni mesi fa, verso un’altra grande e bella assemblea al cinema Brancaccio di Roma. Che voleva le stesse cose, che poi aveva sottoscritto con Mdp, Sinistra italiana e Possibile, una cornice di intenti. Ma quel processo si è interrotto su un diverso metodo partecipativo nella definizione delle candidature e sulla necessità di marcare una più netta differenza dai fuoriusciti del Pd.

Ragioni che hanno anche determinato il distacco di Rifondazione comunista intenzionata a fare una sua lista.

Sono critiche in parte condivisibili e certamente la lista di “Liberi e Uguali” sconta debolezze che ne segnano anche la genesi.

Nessuno è perfetto.

Pietro Grasso, che di questa aggregazione è il front-man, non lo è. Però merita rispetto e fiducia, anche se avevamo capito che, fino all’altro ieri, l’acchiappavoti indicato da Bersani rispondeva al nome di Giuliano Pisapia.

Questa frettolosa ricerca del leader rivela una vecchia logica di funzionamento dei partiti, che andrebbe superata perché poi se non si rinnovano i metodi per la scelta della classe dirigente si finisce per perpetuare un ceto politico che, nel caso di “Liberi e Uguali” mostra tre baldi quarantenni (Speranza, Fratoianni e Civati) e nemmeno una delle molte compagne di viaggio dopo tante belle parole sulla battaglia di genere (anche il nome declinato al maschile non è una scelta felicissima: forse sarebbe stato meglio “Uguaglianza e Libertà”, non cambia la sostanza ma la forma sì).

La scelta di Grasso è forte perché a disegnarne il profilo sono le tre trincee della sua storia.

La trincea di Palermo, vale a dire la linea del fronte contro la mafia insieme agli altri allora giovani magistrati a fianco di Falcone e Borsellino.

La trincea del senato, un campo di battaglia infuocato, bersagliato dalle cannonate del governo, condannato a morte certa dalla riforma renziana e salvato insieme a tutta la Costituzione dalla vittoria del no, una domenica di giusto un anno fa.

E ora Grasso si butta nella trincea della sinistra, e dal palco dice, a chi lo accompagna con gli applausi, che a lui la parola “radicale” gli piace proprio. Come gli piace l’articolo 3 della Costituzione, perché gli sembra racchiudere un programma perfetto, una bussola sicura per costruire la politica di un futuro che corre veloce. Cogliendo “il vento che sta cambiando” come ha detto Susanna Camusso in piazza contro il governo.

Se dunque è vero che il nuovo si costruisce attraverso un vero cambiamento, è anche vero che dall’Eur è stato lanciato un messaggio forte, che potrebbe rimettere in moto energie, speranze, voglia di esserci.

Proprio per questo si capisce il fuoco di fila appena iniziato: lo spauracchio di D’Alema – che certo non è il nuovo che avanza – è solo un esempio.

Sembra di sentire le parole dei comunisti sovietici che attaccarono – quasi 50 anni fa – il gruppo nascente del manifesto accusandolo di favorire la destra, quel famoso «a chi giova?» che cercò di creare un cordone politico-elettorale preventivo.

Ma questa è la pessima propaganda di certi leader che promettono un milione di posti di lavoro all’anno. Le loro urla adesso cadono nel vuoto.



 

 

 

 

 

Commenta (0 Commenti)